Emanuela Iaconella nasce a Roma ma, da diversi anni, vive nella provincia di Viterbo. E' stata per tantissimi anni un'insegnante in realtà difficili a Roma. Da sempre ama scrivere. Lo scorso anno, con una sua storica amica, ha pubblicato, con uno pseudonimo, il libro Racconti a quattro mani, Sette Città Edizioni. Continua a scrivere nel tempo che le lascia libero il suo essere mamma e nonna. Collabora con la figlia nell'attività di arte terapia che quest'ultima ha creato a Tuscania

Cominciamo, a puntate, la pubblicazione di racconti, ritratti, immagini e ricordi di Emanuela Iaconella. Quando ho letto il suo libro d’esordio, scritto con l’amica Michela, ho subito intuito che Emanuela sapeva scrivere e sapeva raccontare. E capii che, dietro quei suoi primi racconti c’era qualcosa di più. C’era la vita di una volta, c’erano pezzi di storia e c’era un talento. Così le ho suggerito di continuare a lavorare su quei suoi ricordi, su quelle immagini. E ora, piano piano, su L’Ottavo, potrete leggere qualcosa che va facendosi e che, ne sono certa, diventerà un libro.
Geraldine Meyer

Di Emanuela Iaconella
Sarà l’età, sarà la voglia di ricostruire, attraverso il passato, le storie della mia vita. O l’assurda speranza di tornare indietro, rivivere, annusare. Ascoltare voci, profumi e atmosfere lontane. Il passato lo conosci, non riserva sorprese, anche negli angoli meno felici sai che più di quello che ti ha riservato non puoi aspettarti. Decido allora di scrivere. Di scrivere ciò che ricordo di quel modo di vivere che, a distanza di sessantacinque anni, si incontra con un oggi totalmente diverso. Talmente diverso da farti supporre che di anni ne siano passati molti di più. Il progresso non è mai stato così veloce, tanto viene superato nel breve spazio di pochi mesi. Tutto scorre e corre. Allora scrivo.
Sono nata a Roma nel 1950. La mia non era una famiglia benestante ma, certo, non posso dire neppure che fosse povera. La forza di quella, come di altre famiglie dell’epoca, era di vivere tutti insieme, supportandosi l’uno con l’altro. I miei nonni avevano due figli, mia madre e mio zio che, una volta sposati rimasero a vivere con loro. Si usava così. Per “aumentare” lo spazio della casa, mio padre e mia madre affittarono l’appartamento adiacente quello dei nonni e degli zii. Mio nonno li rese comunicanti aprendo una porta a metà corridoio. Quella porta fu chiamata sempre, da tutti, “la porticina” anche se era una porta normale, non piccola. La mia storia inizia da qui, da quella porticina dietro la quale andavo a nascondermi la notte di capodanno, tappandomi le orecchie per la paura dei botti. Ero piccolissima eppure lo ricordo molto bene. Mentre tutti erano travolti dall’allegria, i petardi pronti ad esplodere, i cori di mio zio e di tutti, da lui diretti, risuonavano per la via, il conto alla rovescia orologi alla mano…mentre succedeva tutto questo io, in preda al panico, correvo piangendo al riparo della porticina. In famiglia eravamo già tanti ma, in occasioni come quelle, si aggiungevano altri parenti e il numero di persone in casa superava la quarantina. Quasi nessuno si accorgeva di me. Tranne mio padre che arrivava sempre a proteggermi con il suo abbraccio rassicurante.
La mia casa era grande e la mia famiglia numerosa. I miei fratelli, i miei cugini e io trascorremmo un’infanzia bellissima ma da adulta, quando iniziò la mia vita di moglie e madre, ho capito quanta determinazione, devozione, pazienza e amore dovettero impiegare gli adulti di casa per armonizzare quella convivenza. Convivenza che impose a ciascuno di rinunciare ad una parte di libertà personale a vantaggio della comunità.
Certo non era tutto sempre idilliaco. Perciò, a volte, quella porticina rimaneva chiusa. Erano i momenti in cui mi sentivo in gabbia, triste e preoccupata. E cercavo di ascoltare, al di là della porticina, per sapere cosa stesse facendo i miei cugini. Ma poi, improvvisamente, tornava il sole e la porticina veniva riaperta. Potevo così tornare a condividere tutto con tutti. Molto spesso mi è capitato, in età adulta, di soffermarmi sulla vita che si conduceva in quella casa, di cui i nonni erano i fulcri. E penso che, senza quella casa, senza quei personaggi che l’abitavano e senza il suo giardino, forse non sarei stata la stessa persona.

Immagini

Telefono e televisore
Quella grande casa di legno con, al centro, un cristallo opaco, a mia memoria, aveva fatto sempre parte dell’arredamento della casa. Non era così, però, per tutti. Nella nostra palazzina quel televisore era l’unico esemplare. Questo fatto era, per noi bambini, più divertente degli stessi programmi televisivi perché molto spesso, dopo cena, arrivavano i vicini, muniti di sedie, proprio nell’ora in cui saremmo dovuti andare a letto.
Il programma era unico, c’era un solo canale. Ogni sera una cosa diversa e se non era di gradimento non si entrava nel panico ma ci si dedicava ad altre cose come la lettura, piccole riparazioni, riordino della casa e poi, tranquillamente, a letto. Mia zia non guardava mai i programmi tv ma, la sera, scriveva ai parenti nelle Marche. Avevamo il telefono, questo sì, ma il suo utilizzo doveva essere parsimonioso. Le interurbane, che solo una centralinista poteva permettere, si facevano solo per le occasioni speciali come matrimoni o malattie. Tutto il resto era affidato alla penna.
Il telefono era affisso al muro nel punto più centrale della casa. Questo comportava il fatto che la telefonata non fosse mai una cosa privata ma, al contrario, qualcosa a cui tutti partecipavano, suggerendo frasi, proponendo soluzioni o, semplicemente, impicciandosi. Mia nonna faceva eccezione. Lei, indipendentemente da cosa trasmettesse la televisione, finita la cena si sedeva davanti alla tv, salvo addormentarsi quasi subito per poi risvegliarsi alla fine del programma o del film, con la richiesta che le venisse raccontato tutto. Richiesta che diventava una vera persecuzione se ciò che non era riuscita a vedere fino alla fine era un film di cui voleva conoscere la trama.
Il nostro televisore faceva spesso le bizze, così gli adulti mandavano noi bambini ad avvertire zia Silvana che la tv non funzionava. Zia Silvana abitava a pochi isolati da noi e suo fratello, zio Aldo era radiotecnico. Per questo, in quei momenti, zio Aldo diventava la persona più desiderata, fin dal mattino. I vari componenti della famiglia si alternavano nella domanda:
E’ arrivato Aldo?
– Si è fatti vivo Aldo?
– Che ha detto Silvana?
– A che ora viene Aldo?

Questa storia, ogni volta, finiva solo la sera. La sera infatti, al ritorno dal suo lavoro quotidiano, Aldo era però troppo stanco per passare da noi. Così pensava bene di riparare la tv di noi parenti, per telefono. Il rituale era questo: squillava il telefono quando era già quasi pronta la cena. Gli uomini di casa gridavano allarmati:
– Voi vedè che è Aldo che pure ‘sta vorta nun viè?
E infatti, al telefono era zio Aldo che non veniva. Al telefono veniva chiamato zio Lando perché era lui il più esperto di elettronica. Mio padre agiva sul televisore eseguendo comandi vari. Ma siccome l’oggetto in questione si trovava in sala da pranzo, un po’ troppo distante dal telefono, per non cadere in errori di trasmissione, a metà corridoio veniva posizionato mio cugino per fare da portavoce tra zio Aldo, zio Lando, mio padre e il televisore.
Nella casa echeggiavano ordini improbabili mentre le donne contrariate, con la cena pronta, assistevano a quella ardita missione:
Controlla le valvole
– Svita a destra
– Prova a riaccendere
– Vai in terrazza e orienta l’antenna

Mia madre sgridava noi bambini per farci cenare, mia zia brontolava sottovoce e diventava tutta rossa, mentre mio cugino più piccolo faceva il verso al fratello che faceva da portavoce. In tutto ciò mio padre e mio zio invitavano alla calma altrimenti avrebbero perso la concentrazione. In tutto questo i miei nonni cenavano tranquilli e pacifici, passando con le vivande dalla cucina al corridoio fino alla stanza da pranzo.
Gira di qua, gira di là, finiva sempre allo stesso modo, una scintilla, un botto, la casa al buio e le donne che strillavano minacciando di cambiare tecnico. E noi bambini in festa. Per noi era sempre tutto un gioco. Come e meglio di un cartone animato che, in quei tempi, certo non condizionava le nostre giornate. Ma la storia si ripeteva sempre uguale e la sera successiva si presentava zio Aldo, sempre all’ora di cena e veniva rimproverato. Fino a quando non comparve il secondo canale tv. Per evitare discussioni fu comprato un secondo televisore e posizionato ancora più lontano dal telefono. La faccenda diventò complicata, così complicata che intervenne zio Mario, il mitico zio Mario, operatore dell’azienda telefonica, la SIP. Lui con i telefoni faceva miracoli. Fu così che, per evitare ulteriori problemi, nel caso si rompesse anche il secondo televisore e fosse necessario telefonare a zio Aldo, zio Mario…installò un secondo telefono.