Nata a Milano nel 1966, dopo studi di filologia classica all'Università degli Studi di Pavia comincia a lavorare in libreria. Fa la libraia per 26 anni. Ha collaborato con case editrici quali Astoria, come lettrice dall'inglese e dal francese e per Giunti per cui ha scritto una guida on line sulle città europee. Ha collaborato con articoli e recensioni al blog SulRomanzo e al blog di approfondimento culturale Zona di Disagio. Suoi articoli sono apparsi sul sito della società di formazione Palestra della Scrittura. Ha curato blog di carattere economico e, per anni, ha lavorato come web content writer. E' autrice di due libri: Guida sentimentale alla Tuscia viterbese, una serie di brevi reportage di narrazione dei territori e Mors tua vita mea, un libro di racconti pubblicato da I Quaderni del Bardo Edizioni. Un suo racconto è pubblicato all'interno del libro Milanesi per sempre, Edizioni della Sera. Dirige la rivista L'Ottavo

Anche con Cèsar Vallejo, come ci è capitato con Emanuel Carnevali, ci troviamo a parlare di un poeta e di un romanziere troppo poco conosciuto. Almeno in Italia. Perché in altri paesi, quando si parla di lui, si parla in maniera quasi unanime, di uno dei più grandi poeti dello scorso secolo, pur avendone solo sfiorato le propaggini. Nato infatti a Santiago de Chuco nel 1892, morì a Parigi nel 1938, inconsapevole dunque delle tante tragedie che avrebbero poi infiammato e segnato il ‘900. Eppure al ‘900 la sua voce è arrivata forte e chiara. E’, infatti, del 1922 una delle sue opere poetiche più forti, il meraviglioso Trilce di cui con molto calore parlò un intellettuale come Pablo Neruda. Trilce fu scritto in uno dei periodi più difficili per Vallejo, tra il 1918 e il 1922, anni durante i quali il poeta affrontò la morte della madre, quella del suo grande amico e scrittore Abraham Valdelomar, la perdita del lavoro e la permanenza in carcere, nella prigione di Trujillo, con l’accusa di essere un agitatore politico.
Un libro che visse, un po’ come la vita di Vallejo in quegli anni, una sorta di dimenticanza e isolamento almeno fino al 1930 quando, in Spagna, trovò nuova pubblicazione. Fu lo stesso Vallejo, nel corso di un’intervista, ad affermare che: “Il libro nacque nel più grande vuoto.” Una raccolta poetica che, come ci ricorda anche Fofi nella bella prefazione al libro Tungsteno, vide la luce “nel solco delle avanguardie, coscienti del rigore formale imposto dal modello modernista di Rubèn Darìo.” Un libro fondamentale per capire la poetica di Vallejo e la tensione civile sottesa anche alle sue opere narrative, tra cui quella di cui parliamo oggi: Tungsteno, appunto, pubblicato da SUR nella traduzione di Francesco Verde.

Poetica e lingua in cui, proprio come in quelle delle sue poesie, vi è un continuo mettere insieme stilemi e sintassi in equilibrio tra spagnolo e indio. Cultura questa imprescindibile per Vallejo, per nascita e per vicinanza socio-culturale e politica. Anche per la sua esperienza lavorativa in una piantagione e per la sua personale conoscenza della povertà (fu ultimo di 11 fratelli) Vallejo mai dimenticò la cultura india e la condizione degli operai e dei contadini delle Ande. Anche per questo la sua opera è specchio fedele di una delle sue più grandi convinzioni, etiche più ancora che politiche: solo l’azione può dare vita ad una seria analisi e ad una ancora più seria teoria. Per lui il pensiero, l’arte stessa, hanno un senso solo se si sporcano le mani con l’azione, con l’impegno in prima persona. E come tutti i veri intellettuali che non svendono la propria coscienza, Vallejo pagò con il carcere il suo impegno politico e di scrittura. Afflati civili che trovarono nella nascente rivoluzione spagnola un motivo di speranza. Scrive Fofi: “E’ la vicinanza e comunanza con la Spagna che freme e che lotta, cha ha fame e che ha sogni a dare un senso alla sua ispirazione e al suo talento, a non farne gioco ma carne, e il suo ideale pubblico sono ormai gli analfabeti per i quali afferma provocatoriamente di voler scrivere.” Provocatoriamente ma anche realisticamente, impegnato come fu a dare voce a chi non ne aveva.

E in Tungsteno tutto ciò è drammaticamente chiaro. Pubblicato in Spagna nel 1931 ( e non nel nativo Perù) il romanzo entra di diritto nel filone che venne definito “letteratura operaia” o letteratura proletaria” in compagnie di capolavori come La rivolta dei pescatori di Santa Barbara di Anna Segher, pubblicato nel 1949, in Italia, da Einaudi.
Tungsteno è un libro durissimo, a tratti infernale in cui Vallejo racconta, con uno stile quasi scarno eppure non privo di poesia, la tragedia, l’arroganza e la violenza del capitalismo americano di contro alla lirica ingenuità degli indios peruviani. Siamo agli inizi del ‘900, in un piccolo villaggio delle Ande peruviane. Una compagnia mineraria americana, la Mining Society, ha bisogno di manodopera. Gli Stai Uniti stanno per entrare nel teatro della Prima Guerra Mondiale e la produzione bellica è un affare troppo grosso per farselo sfuggire. Con la volgare e laida complicità della autorità locali e governative, la Mining Society attua un sistema di reclutamento dei nativi fatto di violenza, bastonate e sradicamento: “Il fatto di non trovare nei dintorni dei giacimenti, né in un raggio di quindici leghe, tutta la manodopera necessaria, obbligava l’azienda a trasferire masse di indios da paesi e villaggi lontani, per destinarli al lavoro in miniera.” E, più che di lavoro qui si parla di schiavitù, perpetrata con la sempiterna, ignobile scusa delle ricadute positive: “Il denaro cominciò a circolare velocemente e con un’abbondanza mai vista a Colca.” Ed è l’inizio della fine. Pagine di scrittura secca ma mai priva di lirismo ci conducono nei meandri infernali dell’avidità, dell’ignavia, in cui la terra e i corpi sono violentati nello stesso modo. Fortissima e quasi insopportabile, in tal senso, la scena in cui Vallejo racconta dello stupro di una ragazza nativa da parte dei dirigenti della miniera e dei loro sodali del luogo. Stupro che provocherà la morte della donna a cui uno di loro sa solo rispondere: “E’ morta. Però ci siamo divertiti.” Non solo un episodio questo, ma un’intera visione della vita in cui tutto è merce che, una volta consumata, non serve più.

Un insieme di personaggi abietti per cui, tutto ciò che si oppone al loro misero tornaconto personale, non ha valore alcuno. E in cui anche la complicità della chiesa è ben rappresentata dalla figura del reverendo che non esita ad imbracciare il fucile per sedare una rivolta: “Ah – esclamò il parroco – i gringos! Che uomini! Brindiamo alla salute dei nordamericani. Sono loro a comandare! Altro che storie! L’ultima volta che sono stato a Cuzco, ho visto addirittura il vescovo inchinarsi davanti a Mister Taik.” Il lavoro e il demonio entrano nel piano dei “valori” cristiani, mescolandosi alla barbarie, ancora più pericolosa perché viene così ad assumere quasi connotati dogmatici. La condizione miserrima degli indios, dei peones, dello sfruttamento e della violenza vengono ridotti ad una banale questione di ordine pubblico e di finanza, come ben dimostra il sottoprefetto, emblema della complicità meschina della politica quando afferma: “Ah, signori! Gli Stati Uniti sono il paese più grande della terra! […] Pensate che quasi tutta l’America del Sud è in mano alla finanza americana.” Decretando così, nella sua criminale idiozia, il ruolo di schiavi degli stessi complici dei carnefici.

Natura di schiavi che, in questo libro, è ben cantata dall’epica degli operai che, a differenza degli scagnozzi del potere, mai rinnegano la loro origine. Gli scagnozzi, invece, sono l’emblema della cancellazione impossibile della loro di natura, una natura che “non facit saltus” e riconferma così la loro riduzione in burattini.
Di contro a tutto ciò il racconto degli indios e della classe operaia dipinte nella loro ingenuità, nella loro pulizia ma senza mai scadere nell’acquarello o nella coreografia. La scrittura di Vallejo, in questo feroce Tungsteno, si muove tra la lirica e il reportage, quasi per immagini in sequenza, lungo un racconto in cui, soprattutto alla fine, viene messa in luce la sostanziale differenza tra umili e potenti che è la differenza tra chi non ha coscienza di classe e chi, invece ce l’ha forte e chiara. Non a caso la speranza, rappresentata dalla meravigliosa figura del fabbro Huanaca, si incarna in una lotta ad ampio respiro, non solo per i lavoratori/schiavi andini: “Lo stesso, esattamente lo stesso, succede in tutte le miniere di tutti i paesi del mondo: in Perù, in Cina, in Africa, in Russia. […] In tutti i paesi, in tutti, ci sono padroni e lavoratori, ricchi e poveri. E lo scopo del movimento rivoluzionario è proprio di annientare gringos e sfruttatori, per emancipare gli indios e i lavoratori di tutto il mondo.”

E Vallejos in questo libro ha messo tantissimo del suo muoversi nel mondo come nel suo muoversi nella letteratura, una impossibile senza l’altra. Vallejos non ha solo scritto della condizione degli indiso, Vallejos ci si è sporcato le mani, pagando per questo. Ma si avverte forte, in questo testo, una tensione etica che non poteva non esserci. In questo senso Fofi dice, giustamente: “ Ci sono poeti che ci restano nella mente e nel cuore per la loro adesione totale, assoluta a quello che dicono.” Tanto assoluta che Vallejo morirà a Parigi proprio quando il poeta avvertirà che la Spagna e la sua Guerra Civile stanno cedendo e lo scriverà in una sua struggente poesia
Me morirè en Paris con aguacero,
un dia del cual tengo ya el recuerdo

Morirò a Parigi in un giorno di pioggia
In un giorno di cui conservo già il ricordo

Tungsteno Book Cover Tungsteno
Cèsar Vallejo traduzione di Francesco Verde
Letteratura sudamericana
SUR
2015
137