Arianna Bonino si occupa di organizzazione d'impresa e marketing. Collabora con Pangea, lay0ut magazine, Algoretico, Le Parole di Fedro, L'ottavo

Formiche

Di Arianna Bonino

Andrzej Sczcypiorski (Foto da api.culture.pl)

Andrzej Szczypiorski (Varsavia 1928- 2000) non è esattamente uno scrittore famoso. Certe cose non si spiegano, si sa.
E altrettanto però non è un uomo qualsiasi.
Non fosse altro che per essere stato membro dell’Armia Ludowa, la forza partigiana polacca che cercò di opporsi al nazismo durante la Seconda guerra mondiale.
Non fosse altro che per aver preso parte alla rivolta di Varsavia in quel terribile 2 ottobre del 1944.
O forse per essere sopravvissuto alla prigionia nel campo di concentramento di Sachsenhausen, a pochi kilometri da Berlino.
Giornalista e novellista per vivere, ma soprattutto impegnato sempre e strenuamente nella lotta per l’indipendenza del paese. Un dissenso al regime che gli costerà un secondo arresto e il carcere per due anni.
E sempre per due anni, molto più tardi, dal 1989 al 1991 sarà senatore per il Comitato dei cittadini e l’Unione Democratica.
No, non esattamente un uomo comune Szczypiorski.
Non fosse altro che per aver vinto il Premio di Stato austriaco per la Letteratura Europea, oltre che il premio Herder, un prestigioso riconoscimento che ricevettero tra gli altri anche Calvino, Eco e Lem.

C’è una cosa che rende certi libri diversi da tutti gli altri ed è il fatto che chi li scrive stia scrivendo da sopravvissuto.
E’ il caso di “Notte, giorno e notte”, non il più noto romanzo del non notissimo Szczypiorski.
Sono pochi i titoli di questo autore reperibili in italiano.
Adelphi ha pubblicato “La bella signora Seidenman”, sempre ambientato a Varsavia negli anni della guerra, e “Notte, giorno e notte”.


Non noto, eppure prezioso, perché narrato con gli occhi di chi c’era, in quella Varsavia svuotata e incredula dell’immediato dopoguerra. Incredula, certo.

Ragazza guarda le rovine del ghetto di Varsavia, 1946 Foto di Reginald Kenny (Foto presa da barbarapicci.com)


Le molteplici voci che animano queste dense pagine rispondono a quello che Szcypiorski sa fare meglio e cioè orchestrare una polifonia di figure che partecipano alla narrazione armonizzandosi e colmando la cornice di momenti e scene variegate e avvolgenti. Anche nel dolore, soprattutto in quello.

I pannelli che creano il tessuto narrativo sono più d’una volta dialoghi che hanno la sostanza d’interrogatori, di dichiarazioni rese in stanze che paiono adatte alla tortura, al buio, all’insensatezza di chi vuole dimostrare qualcosa, ad ogni costo.

“Ad ogni costo” vuol dire senza sconti, perché questo è stato il nazismo: senza sconti, ma pur sempre con prigionieri da interrogare.

A leggere queste pagine viene da pensare che forse anche Voltaire aveva paura del buio. E forse faceva bene…perché?
Perché leggo Szczypiorski e vedo un commissariato, una stanza qualunque: “la notte di fuori passa accanto alla finestra sporca, butta un’occhiata dentro e tira avanti”: fumo, angoli oscuri, una lampada da interrogatorio proietta ombre sugli sguardi e le mascelle polacche, russe e tedesche. Così come sulle nuche, gonfie per lo sforzo di persuadere gli altri ad accettare l’assurdo, l’unico modo per cercare di liberarsi dalla paura del buio, per qualche istante.

Lui – quello a cui le divise sputano in faccia accuse, allusioni, minacce – è Antoni: sta aggrappato con forze non più sue alla sedia da domatore su cui il branco di domatori lo fa stazionare da tre giorni, forse cinque.
Antoni è ancora vivo solo grazie ai suoi pensieri. Pensieri inutili di cieli percorsi da rondini, il frammento di un muro tra il verde degli alberi e insieme la visione di medaglie, alamari, bande, bandoliere, fondine, bottoni, spalline, galloni, pugnali.
Poi d’un tratto si affaccia un pensiero tra i pensieri: l’illusione del discorso dialettico, la filosofia dell’irrealtà…e poi lo scaccia e torna a terre, mari, montagne, fiumi e quei grandi cavalli da lavoro che qualcuno chiamava percheron, che tiravano i carri pieni di arance. E poi una domanda, ancora una volta, una domanda muta:
Dio, ci sei o sei una necessità imposta dal corso degli eventi? Come sei? E perché? Hai forse creato il mondo quando eri ubriaco?
Antoni risponde al branco, non sa cosa dire, non sa se quel che dice gli salverà la vita o gliela troncherà. Non c’è un modo per saperlo:
“(…) tutto è complesso, e fatto essenzialmente di congetture, illazioni, supposizioni, non esiste più una voce normale, ogni voce è fatta di bisbigli, mugolii e urla (…), non esiste più l’uomo, ma solo le sue singole parti (…) l’uomo ha occhi per parlare, mani per ascoltare, la bocca per imprecare. Tutto è capovolto (…) l’alto è in basso e il basso è in alto, ma questo non sempre, perché se così fosse, ci sarebbe già una regola, un principio ordinatore, dunque una parte è sempre in un modo e un’altra in un altro modo, purché non si accordi con il pensiero, con l’intuizione, con la speranza, purché non si accordi con il sogno, con la rivolta, con la morte.”

Lui sente solo di essere forse ancora vivo, e allora pensa e ricorda la cassetta delle lettere con il giornale della domenica e poi i pugni sul tavolo e il tintinnare delle tazzine fredde, il giorno in cui gli animali di qualche branco in divisa arrivarono a prenderlo nella sua soffitta, col latte ancora sul fuoco, il libro girato e aperto sul letto, vicino alle sigarette.
E ancora, su quella sedia, tra una domanda e l’altra che gli fanno, ne compare una di quelle mute: “…e infondo un Hitler doveva arrivare, no? “. Rovine necessarie. Perché, in fin dei conti, “un morto è un morto, e anche due vanno compianti, ma milioni non sono più un dramma umano, sono la storia.”
Che davvero sia così?
Ci deve essere un modo per spiegare quei teli bianchi sopra i sofà e i mobili addormentati e in attesa dell’alzata del sipario, nelle case lasciate momentaneamente per sempre.
Antoni è su quella sedia, in quella caserma, in una notte che dura da tre giorni e non ha più una data, è il tempo di sempre e sembra non finire mai. Lo sa cosa ha visto, lo ricorda: boscaioli, fabbri, macellai, mutilati, vedove, orfani – sono le inflessibili leggi della storia -. Una teoria di fotografie scorre invisibile nella sua mente e si srotola, portando immagini e gusti che non sentirà mai più, come quello della marmellata di mirtilli che prepara d’estate con la sua Lidka.

Le case bruciavano (…) Non “il fuoco della guerra”, ma le case in fiamme. Una definizione più realistica, direi. Faceva caldo. Non ho idea del perché mi trascinassi sulle spalle un pellicciotto o una pesante giubba invernale. Una calura insopportabile, intorno le case bruciano, gli alberi sono come torce, non lo dimenticherò mai, gli alberi in fiamme, le loro chiome avviluppate dal fuoco, forse è così che si presenta l’inferno, perché nell’inferno non ci sono diavoli, ne sono sicuro e nemmeno persone, ma solo un fuoco, un fuoco puro, il fuoco rosso-giallo-verde del male. Dunque una calura terribile, un’aria vitrea, piena di tremiti, le foglie che bruciano turbinando tutt’intorno, il crepitio dei tronchi che ardono, uno strano rumore, più simile al rumore di un torrente impetuoso che a quello di un fuoco, un deserto assoluto, io in quella via da solo, cosa che oggi suona inverosimile, non poteva essere così, doveva esserci qualcuno con me fra quelle fiamme, eppure nella mia memoria io sono da solo, solo con me stesso, era la mia prima grande agonia, potrei dire così, ma questo non lo annoti, suona troppo patetico, e nell’agonia invece non c’è alcun pathos, soltanto solitudine.”

Ragazzo polacco tra le rovine di Varsavia nel 1939 (Foto presa da wikipedia commons)

Perché a un certo punto, tra ricordi di proiettili, fontane e musiche da ballo ascoltate rimanendo immobili su un lenzuolo abbagliante a guardare in due un quadrato azzurro nel soffitto farsi giorno di rondini e biancori di passaggio, a un certo punto arriva il centro della memoria, il ricordo di lei, Lidka, persa su un treno freddo a disegnare nubi col fiato e a rincorrere Antoni di galera in galera, di esilio in esilio, di notte in notte: undici anni di stazioni, di alloggi che ospitano sconvenientemente, di rumori sospetti, non suoi, nell’alba, nei risvegli agghiaccianti in letti ignoti. E treni in fuga, con le traversine sempre sgangherate: quei binari potevano finire là, dietro la terza curva e non portare da nessuna parte o portare dove non si sa.
Non si può pensare a Lidka senza pensare ai treni: dietro i finestrini quante volte avrà visto paesaggi invisibili, pieni di neve e anche campi verdi e gialli, pozzi, forni, ciminiere, bambini che corrono sull’erba o che si sbucciano le ginocchia sulle macerie, piegati sul cadavere della madre.

Ma di quella notte che faceva paura anche a Voltaire, così improvvisa e insondabile, Antoni un mattino vede la fine.

E capita a loro, Antoni e Lidka, un giorno, di incontrarsi ancora, diversi, senza più bisogno di cercarsi, di sopravvivere, di divincolarsi nel terrore. Trovarsi e ritrovarsi a fronteggiare l’insopportabile ebbrezza della libertà. E capita di morire, in un mattino qualunque, senza causa, senza rumore. Alla fine, dopo lunghi anni, in una terra dove notte e giorno si distinguono chiaramente, in un istante e per sempre, ecco arrivare una spaventosa tranquillità: il buio eterno della paura.

Succede, quando la vita prova a portarsi avanti sulla sua strada dopo esser stata attraversata dalla Storia, una “Storia insaziabile e sinistra”.
Il nazismo non è mai finito. Devono passare ancora tanti giorni e tantissime notti, così tante che non si riesce a immaginarne il numero.

È Storia. Quella che Szczypiorskj ha visto coi suoi occhi e che arriva ai nostri, li oltrepassa, li pervade come un pianto inverso e asciutto, uno stupore infinito che arriva ancora da  queste pagine sconosciute, belle, vivissime.

“(…) ci troviamo di fronte a un fenomeno storico insolito. Esso consiste nel fatto che, per il nostro bene, nulla è collegato con nulla, nulla risulta da nulla, nulla serve a nulla, non ci sono spiegazioni razionali per nulla, nessuno sa nulla, nessuno è in grado di prevedere nulla, nessuno dice nulla a nessuno, nessuno si sforza nemmeno di capire nessuno, perché questo oltrepassa l’umana comprensione, giacché qui la mannaia cala da sola (…) questa è la nuova invenzione, uno specchio rotto, frantumi di uno specchio rotto, calpestato, e solo in quei frantumi si riflette la realtà, con essi ci si deve formare un’immagine del mondo, il mondo come totalità non esiste più, esistono solo i suoi singoli frammenti, come se Dio avesse creato il “(…) ci troviamo di fronte a un fenomeno storico insolito. Esso consiste nel fatto che, per il nostro bene, nulla è collegato con nulla, nulla risulta da nulla, nulla serve a nulla, non ci sono spiegazioni razionali per nulla, nessuno sa nulla, nessuno è in grado di prevedere nulla, nessuno dice nulla a nessuno, nessuno si sforza nemmeno di capire nessuno, perché questo oltrepassa l’umana comprensione, giacché qui la mannaia cala da sola (…) questa è la nuova invenzione, frantumi di uno specchio rotto, calpestato, e solo in quei frantumi si riflette la realtà, con essi ci si deve formare un’immagine del mondo, il mondo come totalità non esiste più, esistono solo i suoi singoli frammenti, come se Dio avesse creato il mondo in stato di ebbrezza”