Graziella Enna, nata nel 1969 a Oristano, laureata in lettere classiche presso l’Universita degli studi di Cagliari, insegnante di lettere.

L’empia virtù d’amore

Di Graziella Enna

Con questo saggio l’autrice si è aggiudicata il terzo posto nella sezione “Saggi sul mondo classico” del concorso Paesaggio Interiore

 “Nessun maggior dolore
che ricordarsi del tempo felice
ne la miseria”

 (Dante, Inf. V, vv. 121-123)

Nella letteratura greca e latina, numerose opere hanno come motivi dominanti delusioni amorose, promesse disattese che, generando dissidi con sviluppi drammatici e tragici, hanno creato l’archetipo dell’amante disperato che deplora la sua sorte infelice, personaggio a tutto tondo dalla considerevole complessità psicologica che si erge nel furor delirante nell’impeto della passione disperata. È necessario però stabilire un collegamento tra le figure rese immortali dalla letteratura e un sostrato ideologico e sociologico per creare un legame con la realtà in cui le opere sono state composte e capire quali motivazioni sottendano e quali intenti si prefiggano gli autori che hanno mirabilmente delineato processi psicologici estremamente profondi e di straordinaria modernità. Nella lirica arcaica greca era presente il tema dell’amore, ma vissuto in una sfera intimistica, spesso nell’ambito del tìaso saffico perciò, anche se foriero di sofferenza, era privo delle lacerazioni e dei conflitti che si palesano invece nelle tragedie. Si può prendere come figura emblematica Medea, immortalata da Euripide nell’omonima tragedia, cui egli ha conferito una personalità scissa e duplice, sospesa tra momenti di follia pura e altri di lucida razionalità: consapevole di tutto ciò che le è accaduto, non può metabolizzarlo e soprattutto non può soffocare le pulsioni feroci e prorompenti che si impadroniscono del suo spirito. Medea abbandona patria e famiglia, uccide il fratello per aiutare l’argonauta Giasone nella conquista del vello d’oro, gli dà dei figli, ma poi è ripudiata per la figlia di Creonte, re di Corinto da cui riceve l’ingiunzione di abbandonare la città. La donna finge di accettare questa ingiusta punizione ma medita la sua terrificante vendetta. Ragione e passione scuotono ferocemente il suo spirito, ella domina la tragedia in maniera possente, affronta Giasone con parole accorate in cui emerge il risentimento più atroce per la promessa infranta, lei è sola in una terra straniera, dove si sente una barbara, ripudiata, estranea. Perciò medita l’uccisione della rivale, di suo padre, il re che le ha comminato l’esilio, e dei figli avuti da Giasone. Nonostante le esortazioni del coro a desistere, vuole un ultimo confronto con Giasone in cui si dimostra pentita e decisa a una conciliazione, pronta ad accettare le sue nozze di convenienza con la figlia di Creonte cui dopo invierà dei doni nuziali, che le procureranno la morte, insieme col padre, tra atroci sofferenze. Medea vuole colpire Giasone in modo esemplare, non certo la sua persona, ma tutto ciò che potrebbe donargli la felicità, la nuova sposa, i figli che hanno avuto insieme e quelli che avrà dalle nozze. La tragedia però non rappresenta soltanto vendetta e gelosia ma ha risvolti sul piano sociale: Giasone rimane stupito dalla gelosia di Medea perché dal suo punto di vista non agisce ingiustamente, avrà nuove nozze e figli legittimi e pertanto la sua posizione si uniforma alle leggi ateniesi del tempo, che prevedevano una sorta di esclusione sociale per i figli generati da un coniuge straniero, oppure per chi non dava figli alla città. Medea rappresenta una cultura barbara, ma allo stesso tempo incarna le ragioni del cuore e del sentimento, Giasone si identifica in una società di tipo patriarcale, rappresenta una cultura maschilista: le due posizioni risultano inconciliabili e portano all’esplosione della ferocia assassina di Medea e del freddo calcolo di Giasone che vuole attenersi alle leggi umane e non a quelle del cuore. In questo dramma non c’è alcun intervento divino, né alcuna giustizia, ma rimane solo la strage dei figli innocenti come emblema di un conflitto di natura antropologica. La lezione euripidea nel rappresentare il personaggio di Medea con una complessa psicologia, come figura istintiva, carnale, impulsiva, penetra anche in Apollonio Rodio, che con le Argonautiche innova il poema epico tradizionale, tramite l’inserimento della vicenda d’amore, (che diventa soggetto dominante), visto nei suoi sviluppi più tormentosi e patologici, elemento caratteristico della poesia di età ellenistica. Medea rappresenta il passaggio da una cosiddetta “civiltà di vergogna” arcaica, in cui dominava il conformismo per essere accettati nella comunità, a una “civiltà di colpa” secondo cui si agisce in modo contrario al codice di comportamento imposto dalla società e si predilige coltivare la sfera individuale. Perciò anche in quest’opera sulla figura di Giasone, che appare sbiadita, domina Medea con i suoi sogni premonitori inquietanti. La Medea di Euripide è ripresa fedelmente, nella cultura latina, da Seneca che ne conserva la trama ma le conferisce toni ancora più cupi, infatti, lo spettatore è messo di fronte a Medea che fa strage dei figli, in conformità con il gusto dell’orrido e del macabro tipicamente senecano che ama mettere in scena episodi raccapriccianti, ma soprattutto manifestare gli effetti devastanti della mente ottenebrata che ormai ha perduto completamente la lucidità: la radice di ogni male è pertanto la malattia dell’anima che acceca la ragione e rende capaci di compiere qualsiasi nefandezza. La vendetta di Medea si configura come un completo rovesciamento di ogni legge umana e divina, infatti, quando fugge sul carro tirato da draghi alati Giasone afferma che ormai neppure nel cielo esistono dei. Il folle amore di Medea diventa perciò smisurato odio, rappresenta il caos dell’eterna notte, nessuna forza può eguagliare quella di una sposa ripudiata, commenta il coro, così con le sue arti magiche ella chiama a raccolta tutte le forze malefiche degli Inferi, della terra e del cielo per attuare la sua efferata vendetta. Catullo, ancor prima di Seneca, aveva di certo presente, (lo dimostra con l’utilizzo della poetica allusiva), la Medea di Euripide e quella di Apollonio Rodio, nel celebre episodio del carme LXIV in cui espone il lamento di Arianna abbandonata da Teseo nell’isola di Nasso dopo aver aiutato Teseo nell’uccisione del Minotauro. Si serve di un genere particolare, un epillio, costruito con una struttura a incastro in cui in un filone narrativo principale, con la tecnica ellenistica dell’ekfrasis, (digressione), introduce un episodio secondario, dopo aver aperto l’opera con le nozze felici di Peleo e Teti, nella cui coperta nuziale è istoriata la vicenda di Arianna. Le due storie d’amore sono in forte contrasto, quasi a voler rilevare la liceità delle nozze regolari di Peleo e Teti e la violazione delle leggi umane da parte di Arianna e Teseo, la cui unione presenta analogie con la vicenda di Medea, prima tra tutte la colpa per aver abbandonato la propria famiglia, l’uccisione del fratello, i giuramenti infranti che anche lei e Teseo si sono scambiati e sono stati violati da lui con indifferenza. È evidente l’utilizzo di quest’episodio da parte di Catullo anche per esprimere il suo dolore per i tradimenti di Lesbia, per la violazione della fides, di un patto sacrale fondato sul bene velle che vale ancor più dell’amare. Catullo rappresenta pertanto risvolti sociologici nell’analisi dei valori legati alla sfera dei rapporti familiari che devono rifuggire l’empietà e rispettare il volere degli dei. Infatti, l’epillio si chiude con il rimpianto del poeta per il tempo lontano in cui gli dei si mostravano agli uomini e si facevano garanti della fides, valore assoluto. A un sistema di valori tradizionali si può a buon diritto collegare la figura di Enea nel suo rapporto con la regina Didone, nel IV libro dell’Eneide. È chiaro che Virgilio si allinei con la tradizione del topos dell’amante abbandonata, ma gli conferisce una precisa connotazione e soprattutto un significato perfettamente confacente allo spirito del poema: Enea non può seguire il suo cuore e amare la regina, ma deve obbedire a una volontà più alta che lo sovrasta, ottemperare al valore della pietas, mostrare devozione assoluta agli dei, portare a termine una missione non di gloria personale ma di grande responsabilità per apportare un beneficio collettivo che supera l’individualismo e i suoi sentimenti privati. D’altro canto anche Didone deve affrontare i suoi conflitti interiori: ha giurato fedeltà alle ceneri del marito defunto Sicheo, ha rifiutato tutti i pretendenti della terra libica, ma alla fine si abbandona a un amore non voluto, insperato, definito infandum perché le convenzioni sociale e morali lo rendono indicibile. Nel riconoscere i segni dell’antica fiamma, è consapevole che l’incendio sta per divampare e più ella tenta di reprimerlo tanto più devastante e irreversibile diviene. La sua disperazione le toglie ogni padronanza di sé fino a condurla al suicidio dopo aver maledetto Enea e la sua stirpe. È evidente la rappresentazione di un nuovo modello di donna, introdotto da Catullo e dai neoteroi, che pone l’amore sopra ogni altro valore in netta contrapposizione con i valori arcaici propugnati da Enea e che la politica augustea vuole riportare in auge per una restaurazione del mos maiorum, aureo principio identitario del civis romanus autentico. Mondo greco e romano pertanto, tramite figure femminili dalle passioni estreme hanno rappresentato l’eterno conflitto, tra leggi umane, volere degli dei e naturali pulsioni del cuore.

L’immagine di copertina è Il bacio di Gustav Klimt. Foto presa da dueminutidiarte.com