Nato a Como, di origine salentina, Alessandro Vergari vive da diversi anni a Bari dopo essersi laureato in Filosofia all'Università Statale di Milano, con una tesi sul rapporto tra guerra e giustizia. Una geografia complicata? Forse. Alessandro scrive recensioni e articoli su diversi blog. Cinema, letteratura, musica e cucina (in qualità di consumatore finale) le sue principali passioni. Ama il sole e il mare. Sulla politica attualmente non si pronuncia. "Ho dato abbastanza", queste le sue dichiarazioni in materia.

Storie di clima. La resistenza al tempo del global warming

Di Alessandro Vergari

Nel dicembre 2017, al termine di un anno caratterizzato da impetuosi uragani, vaste inondazioni e furiosi incendi favoriti da una durevole siccità, l’ex presidente Donald Trump commentava così, ovviamente in un tweet, l’anomala ondata di freddo che stava colpendo alcune aree degli Stati Uniti: «Sulla costa Est potrebbe essere il Capodanno più freddo mai registrato. Potremmo usare un po’ di quel riscaldamento globale, per difenderci dal quale il nostro Paese, ma non altri Paesi, stava per pagare trilioni di dollari. Copritevi bene!» Più di recente, durante la campagna elettorale per le Elezioni Presidenziali 2020, Trump ha ribadito il concetto davanti ai funzionari pubblici della California: «Non preoccupatevi, farà più freddo». Anche nel 2020, anno che sarà ricordato dalle generazioni a venire per la diffusione della pandemia, gli eventi riconducibili al climate change hanno lasciato il segno. Nel quadrante geografico della Pacific Coast, ad esempio, si è registrata una situazione sconvolgente: una superficie di 20mila chilometri quadrati di terreno bruciata in dodici Stati, decine di morti, cittadine polverizzate dalle fiamme, mezzo milione di sfollati in Oregon, la cappa di fumo sulle città di San Francisco, Portland e Seattle. A completare l’opera, nel novembre 2020, un Trump da poche ore sconfitto da Biden decide di rimuovere dal suo incarico Michael Kuperberg, il climatologo a capo del Global Change Research Program (Usgcrp), programma federale responsabile della pubblicazione del rapporto annuale sul cambiamento climatico, punto di riferimento per la produzione legislativa finalizzata a combattere il fenomeno. L’ultimo rapporto curato da Kuperberg, alla luce delle stime di scienziati interni ed esterni all’amministrazione, avvertiva di seri rischi per il territorio degli Stati Uniti.

Il mantra del sovranismo in termini di politiche ambientali è: siamo scettici rispetto alle conclusioni degli scienziati che imputano esclusivamente, o in gran parte, all’azione umana il progressivo aumento delle temperature medie mondiali, perché le prove non sono sufficienti. Secondo il negazionismo trumpiano i cicli climatici naturali contribuiscono in misura significativa al global warming. In questa visione prossima ai deliri del complottismo, i media sono manipolati da un’élite di “socialisti” antipatriottici, nemici del popolo che vanno a braccetto con gli ecologisti radicali, una setta di fanatici sempre pronta ad alzare la voce non appena la colonnina di mercurio si innalza o piove troppo, solo allo scopo di alimentare il catastrofismo e mettere una camicia di forza alle prospettive di sviluppo economico della nazione. Il presidente brasiliano Bolsonaro, non a caso, ha escluso che l’Amazzonia possa far parte del patrimonio dell’Umanità. L’ha requisita nei confini del Brasile, ad uso e consumo interno. La scrittrice Rebecca Solnit ha sintetizzato così il principio-guida dei sovranisti: “niente è davvero collegato al resto, quindi nessuno ha alcuna responsabilità nei confronti di niente”. È un pensiero amorale che smantella ogni legame tra la causa e l’effetto. “Il messaggio alla base dell’allarme sulla crisi climatica – cioè che quello che facciamo determina conseguenze a lungo termine per il pianeta – offende il loro senso di autonomia”.

In Storie di clima, testo pubblicato dalla casa editrice Ediciclo di Portogruaro, con prefazione di Luca Mercalli, è offerta al lettore una visione “dal basso” del gigantesco problema, attraverso una collezione di voci raccolte in Italia e nel mondo. Roberto Barbiero e Valentina Musmeci, i due autori, hanno costruito il volume puntando sulle rispettive competenze e campi d’indagine, ovvero le due angolature, diverse e complementari, della scienza e della fotografia. Le testimonianze dirette raccolte convergono sul fatto che qualcosa di irreversibile stia accadendo. Il racconto di sé e del proprio lavoro si dispiega in un ventaglio di spiegazioni tecnico-scientifiche e annotazioni empiriche di assoluto interesse. Ognuno degli intervistati documenta la sua specifica esperienza, che si integra in un quadro generale segnato dall’emergenza. Nella presentazione, il fisico Barbiero e l’artista, nonché scrittrice, Musmeci usano parole chiare: “Il mutamento del clima in atto sta interagendo nella vita del nostro pianeta con impatti sempre più devastanti per le comunità umane, animali e vegetali. Cause di questi cambiamenti climatici sono le emissioni di gas serra, dovute all’utilizzo di combustibili fossili, all’allevamento e all’agricoltura intensivi, alla deforestazione, al cambio di uso del suolo: il riscaldamento globale, sin dall’inizio dell’era industriale, è attribuibile alle attività umane”. È il nostro stile di vita consumistico (consumo di risorse, di energia, di cibo) ad aver innescato la crisi del clima e dell’ambiente. Il sistema capitalistico eretto a sistema (e pensiero) unico sta divorando la Terra. A dimostrazione dell’interconnessione e potenziale interdipendenza dei fenomeni, con buona pace del vandalismo negazionista di Trump e soci, Barbiero rammenta che “la devastante azione dell’uomo sulla natura, l’intrusione sempre maggiore in un numero di ecosistemi vergini e la modifica degli habitat dei vettori animali dei virus sono riconosciute tra le possibili cause della trasmissione del coronavirus Covid-19”.

Storie di clima è una “narrazione dell’insicurezza”, per adottare un’espressione utilizzata dall’autrice Valentina Musmeci. Giulio Gelardi, imprenditore siciliano specializzato nell’estrazione della manna dal tronco dei frassini, rileva “l’assenza della primavera”. Le alterazioni dell’ambiente sono molteplici. Piove meno di un tempo e nel centro dell’isola, a causa dell’estensione spropositata della monocultura del grano, i fondovalle non sono più fonte di umidità e si ritrovano ora “colline su colline senza un albero, senza difese, senza licheni, senza muschi”. L’industria intensiva ha soppiantato antiche pratiche e modificato il rapporto dell’uomo con la terra. “Fino a cinquant’anni fa non si piantavano alberi da frutto, queste sono colline dove non si piantavano alberi da frutto, queste sono colline dove non si piantavano i meli, che vogliono una quantità d’acqua incredibile, c’erano solo i peri, che sono piante da siccità… Ora i mandorli sono spariti perché le mandorle rendevano così poco che i contadini non hanno più seguito i loro alberi”. Logiche economiche votate al profitto contro antiche forme di sapienza, arida contabilità contro puntuale presa di coscienza del territorio: oltre alla minaccia universale del climate change occorre saper leggere le particolari linee di tensione che attraversano le singole aree geografiche. Sempre in Sicilia, Antonio Scannavino, biologo marino soprannominato “il giardiniere del mare”, ci porta a conoscenza dell’insostituibile ruolo delle praterie di Posidonia oceanica nel processo di ossigenazione dei fondali: “Il sequestro a lungo termine di carbonio effettuato da un chilometro quadrato di prateria di Posidonia equivale a quello di circa 40 chilometri di foresta tropicale”. E se è vero che gli economisti stimano il valore delle praterie marine cento volte superiore a quello delle praterie terrestri, è altrettanto vero che negli ultimi decenni “il 34% della Posidonia oceanica mediterranea è andata persa”.

In queste pagine il lettore non incontrerà visioni astratte, ideologiche o preconfezionate bensì solo il resoconto della dura necessità del presente. Dimentichiamoci qualsiasi approccio romantico al problema, roba vecchia. Qui si tratta ormai di prendere atto di cifre in rosso, di variazioni percentuali negative del fatturato annuale, del ricorso all’indebitamento per sopravvivere, di investimenti seriamente in pericolo, di posti di lavoro svaniti. La sensibile variazione dei cicli naturali dovuta all’impazzimento del clima e la devastazione degli habitat causata dall’azione antropica diretta si traducono in perdita di capitali, migrazioni forzate e trasformazioni sociali repentine. “Negli ultimi anni ciò che sta creando problemi a noi agricoltori sono le rapide e diverse anomalie meteorologiche”, commenta Barbara, viticoltrice dell’Oltrepò Pavese. “L’anticipo dell’attività vegetativa ha lasciato scoperte le piante dalla normale protezione garantita da una specie di cera che avvolge le gemme nella loro prima fase di crescita”. Per gli agricoltori uno dei grandi problemi futuri sarà la gestione del fenomeno della tropicalizzazione,”soprattutto in maggio e giugno, cioè l’alternanza tra pioggia e caldo”, testimonia Elisabetta, proprietaria di un’azienda vitivinicola trentina, che si è affidata ai principi e alle pratiche biodinamiche per fondare una nuova cultura agricola sostenibile e ripristinare così la fertilità della terra. “La pianta cresce molto rapidamente ma si sviluppano anche i funghi”. Fitopatie e infestanti, con le temperature elevate, proliferano. L’agricoltura non convenzionale, a differenza di quella industriale, punta sulla creatività, sull’intuizione, sul fare rete con la comunità e i produttori locali. “In linea generale la percezione è che dovremo osservare sempre di più, essere molto flessibili e reattivi”.

Animali e piante in fuga verso quote elevate, lavoratori agricoli costretti a utilizzare creme protettive e cappelli a  falda larga per difendersi da raggi solari cocenti, ondate di caldo estremo alternate a precipitazioni brevi e violentissime, specie scomparse nel giro di un decennio.  “Ho vissuto sulla mia pelle le inondazioni che hanno colpito le zone a nord della città di Rio Ceballos, specie quella del 2015, e ho visto famiglie vicine a me perdere completamente la propria casa”, racconta Lourdes Nathalie, attivista vegana di Córdoba, Argentina. “Le stagioni sono cambiate, le estati sono molto calde mentre gli inverni miti; solo pochi anni fa per far bere gli animali bisognava spaccare il ghiaccio che si formava sulle fontane, e la neve in inverno scendeva copiosa, ma leggera come zucchero. Ora, a volte a maggio e spesso a giugno, si raggiungono temperature  un tempo abituali a luglio. Gli animali in estate vanno lasciati liberi in campi più grandi perché possano trovare riparo dai forti raggi del sole sotto l’ombra dei boschi, dove l’erba non si secca e l’acqua degli abbeveratoi non si prosciuga subito” spiega Roberto, moderno allevatore di pecore sull’isola di Cres, in Croazia. “La cosa più evidente che ho notato al mio rientro è stata la trasformazione della vegetazione”, afferma Mohamed Bagdi, ex minatore e sindacalista in Francia, ritornato in Marocco una volta andato in pensione. “Anche le palme da datteri sono seriamente in pericolo, non ci sono più frutti. Di conseguenza non c’è più un posto dove socializzare: una volta l’oasi dei datteri era un luogo dove la gente si ritrovava per chiacchierare, e così facendo manteneva vivo il tessuto sociale”. Arriviamo a un punto focale del reportage: i mutamenti climatici incrinano assetti sociali e comunitari vecchi di secoli.

Nella Navajo Nation, Arizona, un tempo la neve scendeva in abbondanza e si scioglieva lentamente. Non è più così. “Nella mia infanzia portavamo avanti l’allevamento delle pecore con cavalli e asini, c’erano molte sorgenti nella prateria, l’acqua non era un problema, gli animali si dissetavano da soli. C’erano diverse lagune che si allargavano durante le piogge. Tutte queste sorgenti sono lentamente scomparse”. Sono parole dell’ottantenne Ruby, una donna che non si è mai spostata dalla sua terra aspra e selvaggia. Le scelte governative peggiorarono gli standard di vita dei Navajo fin dagli anni Quaranta del secolo scorso. Oggi “ci sono pipeline di acqua sotterranee lunghe migliaia di miglia” a supporto esclusivo delle imprese dedite all’estrazione mineraria nella regione. L’inclemenza della siccità è aggravata dalla miopia della politica, incapace di vedere le metamorfosi ambientali, o, peggio ancora, cinica complice del tracollo ecologico generalizzato. “Una pianta con i fiori rossi, ad esempio, tradizionale della nostra medicina, non si è più vista”. Culture muoiono, lingue si estinguono, alle minoranze etniche sono sottratti diritti che parevano intangibili. I Sami, unico popolo nativo del continente europeo, incardinano i propri ordinamenti su una visione del mondo olistica. L’anima della neve è denotata da un bagaglio di duecento parole. Il loro sistema di pesca è complesso, improntato ad un rispetto sacrale del periodo riproduttivo e della dimensione dei salmoni, compreso il divieto di catturare gli esemplari più giovani. Con il pretesto di voler salvaguardare il salmone atlantico, minacciato dall’innalzamento delle temperature dei fiumi e dall’invasione di una specie non autoctona, “i governi di Finlandia e Norvegia hanno emanato una nuova legge, senza il consenso del parlamento sami, creando un grande problema nella regolamentazione della pesca nei nostri territori”. Niillas Holmberg, artista e attivista, rivendica l’importanza del fattore dell’autodeterminazione indigena: “anche studiosi e ricercatori occidentali concordano sul fatto che più le popolazioni indigene hanno accesso alla terra e al potere di decidere sul suo uso, meglio è per il clima e quindi per tutti coloro che vivono su questo pianeta”.

L’interrogativo è quindi sempre il fatidico: che fare? Il Recovery Fund pare accentuare il lato verde delle politiche europee. Il 12 dicembre 2020, al termine di una estenuante notte di negoziati, il Consiglio Europeo ha raggiunto l’accordo su una riduzione delle emissioni nocive di almeno il 55% entro il 2030. Il nostro continente si propone di raggiungere la “neutralità climatica”entro la metà del secolo. Si tratta, finalmente, del radicale cambiamento di paradigma atteso da molti? Di certo, occorre agire in fretta e andare oltre le buone intenzioni. Il pianeta si sta riscaldando a una velocità impressionante. I regolamenti tecnici attuativi dell’Accordo di Parigi del 2015, ricorda Roberto Barbiero, sono tuttora oggetto di negoziazione tra le parti. Storie di clima, nel tastare idee, metodi e ipotesi di resilienza, sbocciate in varie parti del mondo, apre comunque una breccia alla speranza. Utilizzare vecchie conoscenze e tradizioni frettolosamente riposte in soffitta, integrare saperi differenti e apparentemente antitetici, rispettare la specificità del lavoro femminile in ogni ambito, responsabilizzare gli attori locali: ecco alcune leve su cui fare pressione. Ciò che conta è non cedere allo sconforto, non restare soli di fronte alla brutalità degli eventi. Le singole esperienze raccolte nel volume si collegano ad associazioni e progetti, di cui sono riportati, in sintesi, storia, missioni, finalità e relativo indirizzo internet. Il libro stesso rappresenta un punto di partenza. Il viaggio continua su www.storiediclima.it “Le storie curano, le storie aiutano a capire, a pensare”, scrive Valentina Musmeci, “l’introspezione è un fattore chiave dell’essere umano. Ho fiducia”.

Credit Valentina Musmeci. “Johan Erik Valle distribuisce cibo alle renne della sua fattoria, nel centro di attività ecologiche e tradizionali attiguo al Deatnu Restaurant”
Storie di clima. Testimonianze dal mondo sugli impatti dei cambiamenti climatici Book Cover Storie di clima. Testimonianze dal mondo sugli impatti dei cambiamenti climatici
Roberto Barbiero; Valentina Musmeci
Saggistica
Ediciclo
2020
P., 208 brossura