Ho 55 anni, sono nato a Palermo, cresciuto in provincia di Agrigento e, da anni, vivo (ostaggio di cinque gatti insieme a moglie e quattro figli) ad Ascoli Piceno dove lavoro nella segreteria di una scuola superiore. Mi vanto di essere un montalbanologo, soffro di ricciardìa, leggo, quando posso e tutto quello che posso, principalmente i "gialli". Ogni tanto - e non solo "se son d'umore nero" - scrivo.

Le avventure del commissario Martinez

Di Enzo Di Vita

«Carmelo carissimo!»

Martinez aveva sperimentato che, quando il questore lo chiamava per nome, c’era una qualche seccatura in arrivo. Così, in quella mattina di marzo avanzato – che già, di suo, era problematica assai: lunedì; il cielo grigio; l’ improvvisa convocazione nell’ufficio del superiore;  la macchia sulla camicia bianca che,  vestendosi,  non aveva notato – sentendolo esordire a quel modo, ne ebbe paura.

 «Tu sai che Fausto Montalto andrà in pensione tra tre mesi e mezzo.»

  «Eccoci qua!», pensò.

 Il suo collega Montalto dirigeva il commissariato di Donnafugata, e più di una volta, in discorsi diretti o per allusioni, il questore gli aveva detto, o lasciato intendere, quanto desiderava che a prenderne il posto fosse lui, Carmelo Calogero Martinez.

«Quello che ancora, invece, non sai è che ieri pomeriggio, non avendo meglio da fare, Fausto si è dato la zappa sui piedi.»

Martinez trasalì.

«In che senso, signor questore? Non capisco»

 «Letteralmente, Carmelo carissimo, letteralmente. Un colpo di zappa sul piede sinistro. Frattura del malleolo e una trentina di punti di sutura»

Gli spiegò che, come ogni domenica dopo pranzo, Montalto  si era dedicato a piccoli lavori di giardinaggio nella sua villetta di contrada Pizzillo. Lavori semplicissimi, ripetuti più e più volte, che gli impegnavano, e stancavano,  il corpo lasciando vagare il pensiero; e dai quali, dunque, traeva autenticamente riposo.  Il pomeriggio del giorno prima, però –   neppure lo stesso Montalto aveva saputo spiegare il perché – ad un tratto, calcolandone  male l’inclinazione, anziché la zolla di terra, con la zappa egli aveva colpito la sua  caviglia sinistra, all’altezza del malleolo, appunto: che s’era frantumato.

Malgrado la drammaticità della situazione, Martinez sorrise.

 «Lei sa, questore, che qui chiamiamo il malleolo “ossu pizziddu”, come la contrada dove Montalto s’è ferito?

 Il questore era abituato ad uscite  poco convenzionali di Martinez, ma quella volta lo guardò male.

 «C’è poco da scherzare, Carmelo. Montalto trascorrerà il tempo che gli rimane per la pensione tra ospedale, convalescenza e riabilitazione. Ma per la nomina del suo sostituto occorrerà che egli sia già stato collocato a riposo: odiose formalità burocratiche, lo so. Io, però,  non posso aspettare, non è possibile lasciare Donnafugata scoperto tutto questo tempo»

Il questore fece una lunga, interminabile pausa. Si alzò e prese a camminare in su e giù per la stanza, dalla finestra alla porta e dalla porta alla finestra, le mani dietro la schiena e il capo chino: tutti altri pessimi segnali, per Martinez.

«Mi occorre un sostituto “a scavalco”. E ho pensato a te.»

Altra pausa, brevissima, durante la quale il Questore tornò a sedersi.

« Lo so che non vuoi lavorare a Donnafugata: l’ho capito da solo anche se tu, apertis verbis, non me lo hai mai detto. Ma si tratta di una soluzione temporanea, sta’ tranquillo. Allora:  da oggi stesso sei comandato a Donnafugata. Organizzati come meglio credi col tuo servizio ordinario, ma almeno mezza giornata a Donnafugata passacela.»

La pensata del questore, questo doveva riconoscerlo, era giusta.  Da circa un anno Martinez era alla guida del piccolo commissariato di Manfria, alla periferia est del territorio di competenza della questura di Montelusa, in un paese relativamente tranquillo: e con relativamente poco lavoro. In più, nonostante fosse abbastanza giovane, era già sufficientemente esperto: tant’è che veniva spesso utilizzato per coperture provvisorie di suoi pari grado e  per incarichi che il questore riteneva particolarmente delicati. Infine, conosceva benissimo Donnafugata. Tutto ciò faceva di lui il candidato ideale per la sostituzione temporanea del commissario Montalto. Maretinez, però,   di andare a lavorare nel paese dove era cresciuto, dove tutt’ora viveva sua madre e dove aveva buona parte delle sue amicizie, non aveva proprio voglia. La considerava una minaccia alla sua libertà, ai suoi spazi privati, alla  stessa sua  serenità lavorativa.

«Ma, signor questore… a Donnafugata ho amici, parenti, in certa misura ci vivo… non mi pare…corretto mischiare le cose»

Il questore si incazzò, battè una manata sulla scrivania.

«Martinez, è un ordine!»

Martinez. Con tanti saluti al “carissimo Carmelo”.

 Uscito dalla Questura,  Martinez andò  immediatamente in ospedale a trovare Montalto.

Era un collega che stimava, dal quale riteneva di avere imparato molte cose, nel periodo in cui avevano lavorato insieme nel commissariato di Càmico, senza che l’altro gli desse mai l’impressione di volergli insegnare qualcosa. Era nata una amicizia sincera, coltivata con frequenti contatti telefonici, quasi mai per ragioni lavorative, e periodici incontri a pranzo o a cena.

Montalto fu contento di vederlo.

 «Carmelo, fammi capire una cosa: dunque, secondo te,  devo ritenermi fortunato di non avere casa in contrada…che so… Patedda, o peggio ancora Cannarozzo. È così?»

 «Pare di capire che D’Alessandro ti ha già telefonato»

«Fastino, ma lo sai che cosa ha fatto il tuo collega, quando gli ho riferito del tuo incidente?» disse Montalto imitando la voce del questore «Se n ‘è uscito con una delle sue battutine…»

 Malgrado scherzasse, Montalto era visibilmente sofferente, provato, forse anche imbarazzato per il modo ridicolo in cui aveva, di fatto, chiuso la carriera.

«Speriamo che ‘sta cosa non si sappia molto in giro… sai le risate»

«Fausto, ma a te delle risate della gente non te n’è mai importato nulla, o sbaglio?»

«Carme’, ora sono invecchiato. E guardo le cose da un’altra prospettiva. Pirandelliana, se vuoi»

«Pirandelliana?»

«Ma si: il padre, nei “Personaggi”, quando sostiene che non è giusto essere associato ad una singola azione, poco bella, dopo una vita condotta egregiamente. Ora, non dico di essere stato esemplare ed integerrimo per tutta la vita. Però…»

«…però essere ricordato come quello che si zappò il piede ti darebbe fastidio»

«Diciamo che mi scasserebbe la minchia, si»

«Come a me lavorare a Donnafugata»

«Carme’, per piacere… non farmi sentire in colpa. E soprattutto non farti film troppo catastrofisti. A Donnafugata, credimi, non si lavora male. E poi tu, è vero che hai famiglia ed amici, ma ormai sei considerato poco meno che un forestiero. Uno di quelli che tornano al paese d’estate o nei fine settimana.»

Lo mise  al corrente di alcuni aspetti particolari della situazione lavorativa che avrebbe trovato, assicurandogli  la sua piena disponibilità, non appena il dolore avrebbe iniziato a dargli tregua, ad aiutarlo in qualsiasi difficoltà avesse dovuto incontrare.

«Ma sono sicurissimo che te la caverai brillantemente da solo. Come al solito.»

Uscito dall’ospedale, telefonò a Manfria, parlò con l’ispettore Macaluso – il poliziotto di grado più alto e con la maggiore anzianità di servizio in quel piccolo commissariato – e lo mise al corrente delle novità.

«Come pensa di organizzarsi, dottore?»

«Ne parlavo poco fa col collega infortunato Se per te e per Maniscalco,  il tuo collega di Donnafugata, va bene, io starei a Donnafugata lunedì, mercoledì e venerdì e anche la domenica mattina, e a  Manfria gli altri tre giorni. Però restando a dormire direttamente a Donnafugata: così ogni mattina prima di venire a Manfria passo anche da lì, e il questore D’Alessandro è contento.»

«Per me va bene, dottore. Salvo emergenze» 

«Salvo emergenze e necessità, certo. Allora ci vediamo nel tardo pomeriggio, ora vado a Donnafugata.»

Il nome di Maniscalco glielo aveva fatto Montalto. Lo conosceva di vista, qualche volta si erano sentiti telefonicamente. Parlarono a lungo, poi l’ispettore gli presentò tutto il personale del commissariato. Quando, verso le sei del pomeriggio, andò a salutarlo prima di partirsene per Manfria, Maniscalco gli raccomandò di stare attento alla guida e, con buona pace di Montalto – e di Pirandello – di  tenersi lontano dai lavori di giardinaggio.

«Non si può mai sapere, dottore.»

Nelle quarantott’ore successive Martinez fece un piccolo trasloco, attrezzando la casa estiva di Gibildolce, quella che amava più di ogni altro posto al mondo, per comode permanenze notturne. Il monolocale di Manfria,  che aveva in affitto lo avrebbe utilizzato, in quei tre mesi, come appoggio. E, aprendosi brevemente al positivo pensare, considerò che si sarebbe ogni sera addormentato cullato dal suono del mare, e che il mare avrebbe visto ogni mattina svegliandosi.

«Tre mesi passeranno in fretta», finalmente pensò.

I primi quaranta giorni scorsero davvero velocissimi, e senza grossi grattacapi né nell’uno né nell’altro commissariato. Amministrazione più che ordinaria: carte da firmare, furtarelli, liti famigliari, permessi da rilasciare per manifestazioni o pubblici spettacoli. 

Le cose cambiarono improvvisamente alla metà di maggio, un venerdì mattina verso le undici, ora, per Martinez, del secondo caffè della giornata. L’agente in servizio alla porta lo chiamò col telefono interno.

«Dottore, c’è don Domenico che vuole parlarle. Dice che era già passato ieri»

«Fallo passare. Anzi, no: vengo io»

Qualche volta sua madre gli chiedeva di accompagnarlo a Messa, e Martinez la accontentava. Aveva così avuto modo di conoscere don Dominique Kendho, congolese, in Italia da una decina d’anni: e da quattro parroco del Crocifisso. Da tutti i donnafugàti chiamato “Patri Domè”, il sacerdote era persona simpaticissima, nell’aspetto e nei modi di fare,  e sempre volentieri Martinez si fermava a parlare con lui, talvolta avventurandosi anche in lunghi ragionamenti su questioni religiose o legate alla fede: ma questa è un’altra storia. Gli andò incontro, dunque,  contento di vederlo, e gli propose, se ne aveva tempo e voglia,  di accompagnarlo al bar a prendere il caffè insieme a lui. Il sacerdote accettò.  Fu poi don Domenico a proporgli di fare due passi, anziché tornare in ufficio e, camminando, con pacatezza,  gli espose il problema per il quale era andato a cercarlo: qualcuno lo aveva minacciato di morte.

«Vedi commissario, a Donnafugata ci sono tante chiese ma ci siamo  pochi parrìni. E ognuno di noi dice Messa in più posti. Io, in questo periodo, mi divido in tre chiese: la nostra parrocchia»  – calcò  l’accento sul “nostra” per lasciare intendere a Martinez che lo considerava un suo parrocchiano  –   «quella di San Traspadano e il Monastero.»

            «Ma a San Traspadano non c’è don Giacomo?»

 «Don Giacomo è fuori per alcuni mesi. Deve completare un percorso di studi. Il Vescovo, dato che anche in diocesi i parrini non sono molti, mi ha chiesto di sostituirlo provvisoriamente. Diciamo che è la stessa cosa che stai facendo tu, commissario.»

«Va bene, padre. Ma…»

«Ecco, arrivo: le minacce vengono dalla chiesa di San Traspadano».

 Il lunedì di quella stessa settimana, cioè il 13 maggio, alla fine della messa (poco dopo le otto del mattino), mentre stava svestendo i paramenti, il sacrestano lo aveva avvisato che qualcuno lo cercava al telefono. Ne fu un po’ sorpreso, data l’ora. Una voce maschile, profonda e perentoria, gli assicurò morte violenta se avesse celebrato messa nella settimana successiva.  Pensò si trattasse di uno scherzo: di qualche stupido, o, più probabilmente, di uno dei parrocchiani suoi amici. Finì ben presto per non pensarci, e la notte dormì tranquillo. Ma la telefonata, stessa voce e quasi identiche parole, ci fu anche l’indomani, sempre a San Traspadano, sempre dopo la messa delle 7 e mezza: “Vidi ca nun stammu babbìannu. A simana ca trasi tu missa ‘ccà un ci n’ha diri.”

 «Un momento, padre. Le hanno detto proprio così? Cioè hanno specificato che non deve dire messa “qua”, cioè a San Traspadano?»

«Si, commissario. Ha detto proprio “missa ccà.”. L’avevo notato anch’io. La prima volta aveva parlato più genericamente. La seconda no. È stato più chiaro. Perciò ti dico che le minacce vengono da…qua»

Don Domenico spiegò che la seconda telefonata lo aveva vagamente inquietato. Era riuscito a distrarsi per tutto il giorno, impegnato in mille cose,  come sempre. Ma alla sera non era stato capace di pensare ad altro: e la notte aveva dormito poco e male.  Il giorno dopo, mercoledì, aveva atteso la fine della messa delle sette e trenta con una certa trepidazione: ma,  e la cosa lo aveva sorpreso,  non c’era stata nessuna telefonata.

 «Però, mentre scendevo la scalinata, mi è venuto incontro un bambino e mi ha dato questa».

Porse a Martinez una busta bianca, con scritto “Padre Domenico”. C’era dentro  un foglio quadrettato, e la ripetizione dell’avvertimento: ma  in italiano, stavolta. “Non stiamo scherzando. Se dici la messa nella chiesa di San Traspadano la settimana prossima farai una brutta fine. Stai attento»

 «Poi ieri mattina mi ha telefonato di nuovo. E a quel punto mi sono deciso a venire a cercarti.»

 Martinez rimase in silenzio per un po’.

 «Le chiedo due cose, padre. La prima. Che intenzioni ha? Come pensa di comportarsi?»

 «Che domande mi fai, commissario? Il mio è un…mestiere particolare. Non è che posso mettere un cartello fuori da… dal negozio, dall’ufficio e dire “chiuso”. A parte considerazioni più profonde, che ora ti risparmio. Io ho intenzione di fare quello che faccio: anche perché, come ti ho detto prima, non possono sostituirmi. Significherebbe chiudere la chiesa.»

 «Ne ero certo. Diciamo che ho voluto fare una domanda retorica. La seconda: che succede la settimana prossima a San Trasapadano? Cioè, perché…»

«Ho capito, Carmelo. Niente di particolare. Ma… c’è una messa di anniversario che… Cioè: ci sono tre anniversari di morte, ma uno in particolare è quello che può esserti utile: quello di Lillo Mezzasalma.»

«Ah.»

 Lillo  Mezzasalma era morto, alcuni anni prima, in circostanze misteriose. Ufficialmente si era trattato di un suicidio. Ma molte persone erano convinte che dietro la sua morte vi fosse la mano di Rosario Ziràfa, detto don Saro,  o di qualcuno della sua famiglia. Perché Mezzasalma, che di Gaetano, figlio di don Saro era stato amico, e  amico fidato, fu ad certo punto sospettato di avere passato informazioni sul suo amico  ai Carabinieri. Informazioni talmente importanti da permettere di imputare  a Tano Ziràfa  una mezza dozzina di omicidi avvenuti in provincia, consentirne l’arresto e favorirne la condanna all’ergastolo.

 «Padre, in tutta franchezza: un capomafia che minaccia un parroco per non fargli  celebrare la messa di suffragio per il traditore di suo figlio…mi pare ipotesi fantasiosa. Comunque… farò il mio dovere. Per curiosità: gli altri due anniversari di chi sono?»

 «Quello di una certa Rosa Calafato, che non so chi sia,  e quello del professor Fiaccabrino, morto l’anno scorso.»

 Rimasero a parlare ancora di altre cose, poi Martinez tornò in ufficio e fece chiamare l’ispettore Maniscalco. Gli raccontò ogni parola del colloquio col sacerdote, gli consegnò la lettera per farla avere alla scientifica, consapevoli entrambi di quanto si trattasse  di una pura formalità procedural, essendo certi che impronte utili all’indagine in quella busta non ne avrebbero trovate. Infine,  telefonò a Montalto, e gli chiese se, nel pomeriggio, poteva passare a trovarlo per un attimo. Per tutta risposta, e con grande gioia di Martinez, il collega lo invitò a pranzo.

«Carmelo, parto da una premessa. Io a tutte le storie sulla mafia vecchia e la mafia nuova, sulla mafia nuova che non guarda in faccia a niente e nessuno mentre quell’altra aveva valori, rispetto per le donne e i bambini e compagnia bella, a tutto questo io non ci credo. La mafia è mafia, e basta. Detto questo, però, io non credo neppure che  il vecchio don Saro Ziràfa possa  minacciare di morte un prete per ulteriore vendetta nei confronti di chi gli ha fatto pigliare carcerato il figlio. Non ci credo proprio. Neppure per un istante, ci credo.»

 «Senti, a proposito di Lillo Mezzasalma: la versione ufficiale fu suicidio, ma mi pare che non ci credette nessuno. Ricordo male?»

 «Ricordi benissimo. Indagarono i Carabinieri, ma il maresciallo dell’epoca, Vetrano mi pare si chiamasse,  riferì parecchie cose a Nuccio Discenza. E Nuccio ne parlò a me, che incominciai a lavorare qui poco tempo dopo. Aveva l’impressione che neppure il maresciallo fosse convinto fino in fondo del suicidio. Ma non c’erano, come dire, evidenze diverse, il magistrato non ci stette a perdere molto tempo, le indagini si chiusero.»

«Nuccio fece qualche suo…controllo autonomo?»

 «Roba molto superficiale, più che altro chiacchierate con il maresciallo, appunto, e riflessioni con i suoi uomini e con qualcuno dei nostri informatori. L’idea sua, e mia, che dopo ho conosciuto bene certi soggetti coinvolti, è che si sia trattato di una vendetta degli Ziràfa. Il loro modo di fare giustizia. E questo, Carmelo, è uno dei tre motivi per i quali sono sicuro che don  Saro con le minacce a don Domenico non c’entra per niente.»

 «Gli altri due?»

  «Uno te l’ho già detto. Il vecchio Ziràfa che se la piglia direttamente coi parrini…Andiamo, non è cosa. Ricordati sempre la premessa che ho fatto: non è una questione di valori, che non c’entrano nulla. Bestie sono, e bestie erano. È una questione di calcolo, non di rispetto.»

 «Nel senso che levare di mezzo uno con la tonaca gli può dare troppo fastidio, intendi.»

 «Precisamente. Se un prete desse loro troppe preoccupazioni, e allora se lo toglierebbero di mezzo in maniera diversa. Che so… una storia di femmine, o di picciliddi, o di intrallazzi vari. La macchina del fango, come si dice ora. E comunque: don Saro Ziràfa le cose non le manda a dire. Le fa, o le fa fare. Ma senza avvertimento.»

  «E questo lo credo pure io: non avvertono, non rivendicano. Non hanno questo interesse. Semmai, lasciano intendere. Dimmi il terzo motivo.»

  «Dottore Martinez, al terzo motivo ci potrebbe arrivare lei da solo. Per letteratura, diciamo. Letteratura siciliana, di livello.»

«Sciascia?»

 «Precisamente. E  le ricordo, esimio collega,  che, tra noi due, l’esperto di Sciascia è vossìa. Dunque…»

 Mettere di mezzo Sciascia, e la sua  presunta competenza in materia, per Martinez era una sfida: lanciata con barocca cortesia, ma sempre sfida. Pur tentando di far funzionare a velocità di decollo cervello e memoria, però,  Martinez proprio non capiva dove il collega volesse andare a parare.

  «Non pensare ai romanzi, Carmelo. Ai saggi, agli articoli, alle recensioni…»

  «Mi hai fatto mangiare assai, Fausto: e sono lento»

  «E allora ti dò un aiutino. Un nome: Henner.»

   «Ah!»

   “Ah!” nel senso di “Luce!” : Henner Hesse. Martinez ricordò immediatamente  le pagine che Sciascia dedica al sociologo, esponendone la teoria secondo la quale il  mafioso non sa di essere mafioso.

 « Sciascia è convinto che Hesse abbia ragione: il mafioso vive in un sistema tutto suo, che  per lui è il sistema giusto, con giuste regole. Gli sbagliati sono gli altri, che quel sistema non vivono e quelle regole non riconoscono. A sbagliare siamo noi, insomma. Ho riassunto bene, dottore Montalto?»

«Alla perfezione»

«Però come tutto questo c’entri con la nostra faccenda, non l’ho capito. Come li  inquadriamo don Saro Ziràfa e le eventuali minacce al prete per non fargli celebrare la messa di un anniversario di morte con questa teoria? O meglio: perché questa teoria dovrebbe spiegarci che le minacce non possono venire dagli Ziràfa ?»

 «Carmelo, seguimi. Quale può essere l’utilità, chiamiamola così, che don Saro e la sua fazione trarrebbero nel caso per  quel pover’uomo non venisse celebrata nessuna messa di suffragio?»

  «Boh. Credo avere una qualche…come dire…garanzia in più che la sua anima continui a soffrire. Che non trovi grazia»

«Oh! Perfetto. Semplifico questioni più complesse, andando giù con l’accetta e la mia razionalità umana, laica:   diciamo che, se celebrare una messa di suffragio può essere utile ad abbreviare la permanenza di un’anima  in purgatorio, il non celebrarla può far si che questa sofferenza si allunghi. Ma di  tutto questo a don Saro quanto credi che gliene possa interessare?»

 «Credo di aver capito il tuo ragionamento, Fausto. Anche tu consideri corretto il pensiero di Hesse e ritieni  che don Saro sia convinto di essere completamente nel giusto. E, conseguentemente,  che per lui è nello sbagliato, completamente nello sbagliato, chi vive al di fuori  dalle sue regole e dal suo modo di comportarsi. Dunque, per esempio, chi fa l’infame e mette nei guai qualcun altro.»

 «Esattamente. Uno che fa la spia, nel loro mondo, è già dannato per l’eternità. Come dice la canzone: “lustru di paradisu un ni vidi”. E, dunque, perché perderci tempo? Hanno già sistemato la faccenda terrena, quella ultraterrena per loro se l’era già rovinata da solo Lillo Mezzasalma.»

«Sofisticato. Ma convincente.»

«Carme’, senti a mia:  Ziràfa non c’entra niente. Tu fai le verifiche che è giusto fare, e che farei anch’io: ma senza perderci tempo oltre lo stretto necessario. E senza tralasciare altre strade»

 «Quali altre strade, Faustino? Non ho in mano niente.»

 Prima di tornare in ufficio, sentì il bisogno di un altro caffè. Decise di fermarsi in un bar vicino alla chiesa di San Traspadano,  che saltuariamente frequentava. C’erano poche persone a quell’ora: un paio di anziani a leggere il giornale, quattro uomini a giocare a carte e a parlare del campionato di calcio. Martinez bevve il caffè con calma, ascoltando distrattamente le loro chiacchiere, a giudicare dalle quali erano tutti tifosi juventini. “Diciamo la verità siamo una squadra troppo forte. Non ce n’è più nessuno. E se torna Pogba…”  “No, Pogba no. Chi n’amma  a fari di Pogba? Poi è nivuru, e a mia i nivuri un mi piacinu. Non sono razzista, ma un mi piacinu.”. Reprimendo un sorriso, Martinez pagò il suo caffè, augurò un generale “buon pomeriggio” e se ne tornò in commissariato.

 Chiamò Maniscalco e gli raccontò l’incontro con Montalto. L’ispettore ricordava bene il caso della morte di Mezzasalma, e conosceva molto bene tutte le vicende della famiglia Schifani: e, in maniera meno sofisticata dei suoi due superiori, condivideva il loro ragionamento. Bisognava percorrere altre strade.

 «Dottore, gli altri due nomi che mi ha fatto sono al di sopra di ogni sospetto, perdoni la frase fatta. Il povero professore Fiaccabrino era una persona pacata, la moglie, mischina, è più pacata di lui. Non avevano figli, hanno una famiglia corta corta,  che non ha mai dato fastidio a nessuno, se mai il contrario. E la signora Calafato era una tranquilla casalinga, vedova, con due figli: uno  vive in continente, l’altro sta qua a Donnafugata, e fa il geometra. Non si ammazza di lavoro, credo abbia avuto una specie di esaurimento nervoso anni fa, ma è persona pacifica, tranquilla. Secondo me non sono queste tre messe particolari il problema»

 «E se si trattasse di uno scherzo, Maniscalco? Uno scherzo di un gusto pessimo, stupido, cattivo… ma sempre scherzo?»

 «Dottore mio, tutto può essere. Anche che c’è qualcuno esagitato che vuole che la chiesa sia chiusa per tutta la settimana, qualche…satanista… che le devo dire?»

 «Domattina se a Manfria non ci sono  problemi resto qua. E prima di venire in commissariato me ne vado a messa. Come ti pare?»

«Mi pare buono. Vuol dire che domenica mattina ci vado io…»

 «Nel frattempo, però, un’occhiata agli Ziràfa diamogliela. Non vorrei essere troppo precipitoso nell’escludere questa strada. Sempre ammesso che non si tratti di uno scherzo. Vediamo se è possibile sapere che fa il vecchio e tenere sotto sorveglianza larga i suoi movimenti e quelli dei suoi scagnozzi. Mettici dietro qualcuno sveglio.»

  «Sarà fatto dottore. Ci piazzo Dalli Cardillo e Schittone.»

  Martinez rimase altre tre ore in ufficio a firmare carte, a fare alcune telefonate, una delle quali a don Domenico. E, poiché non aveva voglia di cenare fuori casa, né di prepararsi da mangiare, telefonò anche ad un altro Domenico, uno dei gestori del bar nel quale si riforniva all’occorrenza di arancine: le più buone del mondo, secondo lui. Ne ordinò un paio, sarebbe passato a prenderle alle otto,  prima di tornarsene a Gibildolce. Domenico, il barista, lo conosceva bene, e anziché due  gliene fece trovare incartate quattro, insieme a due bottiglie di birra gelata. Martinez non obiettò. Le mangiò tutte e quattro, lentamente, assaporando ogni boccone come fosse l’ultimo, guardando il mare al buio.

 Le arancine gli fecero pensare a Giovanni, uno dei più affezionati compagni di università. Da anni non si vedevano, e da mesi non si sentivano. Decise di telefonargli, e rimasero a parlare a lungo, perdendosi nei ricordi degli anni, leopardianamente felici, del collegio universitario palermitano nel quale avevano entrambi studiato. Fecero l’appello degli altri studenti ospiti di quel centro, e dei direttori che avevano conosciuto: e  a lungo parlarono di padre Lo Duca. Giovanni gli disse che,  da Lo Duca,  aveva ricevuto, senza immediatamente rendersene conto, un profondo insegnamento antirazzista. Nel collegio, oltre a studenti provenienti da tutta la Sicilia, c’erano diversi stranieri: e qualcuno africano. Capitò una volta che vi fossero ospiti a pranzo,  e, dovendo indicare ad uno di essi un collegiale congolese di nome Sebastian, che quel giorno indossava un vistoso girocollo di lana rosso, e che, in quel momento, era seduto ad un tavolo con tre studenti nisseni, padre Lo Duca a quegli ospiti lo indicò come “quel ragazzo là, col maglione rosso”. Senza nessun riferimento al colore della pelle: né di Sebastian, né dei tre colleghi siciliani. Ai suoi occhi l’unica differenza degna di nota, l’unico tratto distintivo era il colore del maglione.

 «All’epoca mi scassai dalle risate, Carme’. Mi sembrò una delle tante stranezze di Lo Duca. Minchia chi cristianu strammu! Poi, però, ripensandoci da più adulto, ho capito che cosa volesse dire.»

 Chiacchierarono altro tempo ancora, e non solo di nubi. Infine, ripromettendosi di vedersi e passare insieme una mezza giornata – ma entrambi inconsciamente convinti che non si  sarebbero mai rivisti, se se non per caso –  resisi conto di quanto si fosse fatto tardi, si salutarono.

Martinez   riuscì ad essere alla chiesa di San Traspadano poco dopo l’inizio della messa. Compresi lui e don Domenico, in chiesa c’erano sette persone in tutto. Terminata la funzione si trattenne mezz’ora in sacrestia: non arrivò alcuna telefonata, nessun bambino consegnò buste.       Uscendo da San Traspadanoa incontrò Peppino Parlagreco, compagno di scuola per cinque anni, impiegato al ministero delle finanze. Lo invitò a prendere un caffè,  e andarono nello stesso bar in cui era stato il pomeriggio del giorno prima. Nonostante  la differenza di orario, notò  due dei quattro uomini che  aveva visto giocare a carte. Uno di loro, quello che  il pomeriggio precedente aveva detto di non gradire il ritorno di Pogba alla Juventus, di cui tutti in quel periodo parlavano, prese in giro Peppino, da sempre milanista, per una recentissima sconfitta.

 «Scommetto che non l’hai riconosciuto» gli disse  Peppino quando furono usciti.

 «Chi avrei dovuto riconoscere?»

 «Totò, quello che prima mi pigliava per il culo per via del Milan che ha perso, e della Juve che ha vinto.»

«Ma perché, lo conosco?»

«Certo che lo conosci: giocavamo a pallone insieme. Totò Fina: non ti ricordi? Va bene che è cambiato…»

«Quello era Totò Fina? Pinù, mi sta’ cugliniannu?»

Peppino gli assicurò che non stava scherzando per niente. E, mettendone mentalmente a fuoco alcuni dettagli della fisionomia, Martinez si rese conto che già il pomeriggio precedente avrebbe potuto riconoscere il vecchio compagno di squadra.

«Ma neanche lui mi ha riconosciuto, secondo te?»

«Lui ti ha riconosciuto sicuramente, tu sei rimasto uguale.»

«Ma allora perché non s’è fatto avanti, non si è fatto riconoscere?»

 «Intanto, perché tu  sei uno sbirro, Carmelo: non te lo scordare. E poi, e tutto sommato credo sia la ragione principale, secondo me si vergognava. Ha fatto un calo, sotto tutti i punti di vista. A   Donnafugata geometri ce ne sono tanti e mi hanno detto che lui praticamente non lavora più. Credo cominci a passarsela male anche economicamente»

«Con te però ci ha addirittura scherzato!»

 «Perché ci vediamo spesso, e parliamo di pallone. E poi io non sono un commissario di polizia  ma un semplice impiegato»

 «La prossima volta che lo vedo lo saluto io, così non si mette soggezione: se è come dici tu»

 Martinez credeva poco nelle coincidenze: e che due diverse persone, nell’arco di poche ore, gli avessero parlato di un geometre in difficoltà, gli sembrava fatto da approfondire, anche a prescindere da connessioni con quella strana indagine.          

Arrivato in commissariato, dunque, andò subito a cercare Maniscalco nel suo ufficio.     «Salvatore Fina, geometra: ti dice qualcosa.»

 «Certo, dottore. È uno dei due figli della signora Calafato, quello che vive qua. Ne parlavamo ieri. Perché me lo chiede? C’è qualcosa?»

  «Non lo so. Ma voglio saperne di più su di lui. Ti spiego. Io l’ho visto ieri pomeriggio  e stamattina, e non l’ho riconosciuto nessuna delle due volte. Eppure giocavamo a pallone insieme. Se stamattina un mio amico, altro compagno di squadra, non me lo avesse rivelato, non avrei mai capito che era lui. Irriconoscibile. Gli ultimi ricordi che ho di lui sono del tempo dell’università. Faceva ingegneria, se ricordo bene.  E mi pare anche che fosse abbastanza in regola con gli esami. Poi che è successo?  È questo che voglio approfondire. Tu e il mio amico – Peppino Parlagreco, hai presente? – mi avete parlato di un calo. Tu hai riferito di una specie di esaurimento nervoso… Voglio saperne di più. Non so se c’entra qualcosa con la storia di don Domenico, ma voglio saperne di più. »

            «Sarà fatto,commissario.»

            «Si, vedi che puoi fare. Nel frattempo io faccio un paio di telefonate.»

 La prima fu a Parlagreco, per chiedergli conferma di un suo ricordo: gli era infatti tornato in mente che Salvatore Fina a Palermo divideva l’appartamento con Gioacchino Ingrao. Ottenutane conferma, telefonò a Ingrao, suo buon amico, e gli propose di bersi  un caffè insieme.

«Alle undici, sotto il mio studio. Chi arrivo prima aspetta»

 Lo studio legale Ingrao  e associati era in un antico palazzo di una delle piazze  più belle di Donnafugata,che al commissario piaceva più di ogni altra: piazza Manzelli, dove, tra l’altro,  c’era il bar dove si riforniva di arancine. Arrivò che l’amico era già seduto ad uno dei tavolini all’aperto e guardava l’imponente monastero benedettino e le persone che scendevano dalla scalinata circolare, dopo essere state a messa: erano i giorni in cui,  in quella chiesa,  si ripeteva la secolare tradizione della permanenza, per un mese, di una statua della Vergine solitamente custodita in un vecchio castello a strapiombo sul mare, ad alcuni chilometri di distanza.  Sedette con lui, richiamando l’attenzione del barista e ordinando i due caffè.

Ingrao, s’è già detto, per Martinez era un amico: una  persona intelligente e fidata, con la quale  non c’era bisogno di fare troppi giri di parole. Bevuto il caffè,  il commissario entrò subito in argomento.

  « Gioacchì,  a Palermo tu dividevi l’appartamento con  Totò Fina, giusto? E ora che ci penso, mi pare che foste anche stati compagni di classe.»

 «Giustissimo. Per la precisione eravamo compagni di banco.»

            «Quindi lo conosci bene.»

            «Conoscere bene Totò Fina è un parolone: forse manco lui stesso si conosce. Diciamo…diciamo che l’ho studiato.»

 «Senti. Io l’ho incontrato due volte tra ieri e oggi, al bar vicino San Traspadano, e non l’avevo riconosciuto. Ma che minchia gli è successo? Io me lo ricordo…diverso, vivo, brillante. Diverso anche fisicamente. Giocavamo a pallone insieme, era un mediano infaticabile. E non è che sia passato tutto questo tempo»

 «Brillante. Definizione esatta. Non si ammazzava di studio al liceo, ma brillava. Era arguto, aveva una capacità di sintesi notevole, riusciva a centrare il problema, il punto essenziale. Poi ci girava intorno e, come dire, viveva di rendita. Ma dimostrava intelligenza.»

«All’università studiava ingegneria, mi pare.»

«Ingegneria meccanica. Una bellissima media. Poi…»

  «Poi?»

   «Poi si innamorò.»

   «Ah.»

 «Devi sapere che qui al paese era fidanzato ufficialmente. Una cosa combinata, anche se la ragazza – che poi oggi è sua moglie – a lui, tutto sommato, piaceva. Ma a Palermo si innamorò seriamente. »

«Di  una ragazza che di lui non voleva saperne»

  «Ma quando mai! Lei era più persa di lui. Adiba si chiamava»

   «Straniera?»

  «Congolese, mi pare. Studiava lingue. Si conobbero a mensa, ogni tanto Totò ci andava. Colpo di fulmine, Carmelo, credimi. Totò cambiò tantissimo: diventò più brillante, più…solare. Sempre allegro, senza quegli sbalzi di umore che ogni tanto aveva. Preparò un esame difficilissimo in poco tempo, prese trenta e lode. Era felice.»

«E poi che è successo?»

«Qui entriamo nel campo delle mie supposizioni, caro Carmelo. Perchè Totò di questo non ne ha mai parlato, e io non gliel’ho mai chiesto. Supposizioni mie, ti ripeto. Ci metterei tutt’e due le mani sul fuoco, ma sono solo supposizioni, Carmè, mi spiego?»

«Perfettamente.»

«Io credo che qualcuno, e questo qualcuno secondo me è la madre, lo mise di fronte ad una realtà che Totò aveva del tutto ignorato fino a quel momento: il fidanzamento al paese. La madre a questa realtà lo richiamò bruscamente, senza minimamente immaginare che potesse esservi  disobbedienza da parte sua. Lui per un po’ tentò di prendere tempo. Non voleva troncare con Adiba. Carme’, a parte che era una ragazza bellissima, ti dico che era proprio innamorato veramente. Passava tutto il tempo libero che aveva con lei, gli brillavano gli occhi quando ne parlava… Mi ricordo una cosa. Io ancora non sapevo niente, ma cominciai a sospettare che ci fosse una femmina di mezzo, notando alcuni cambiamenti nel suo modo di fare. Piccole cose, che ti posso dire…la barba fatta tutti i giorni, l’abbigliamento scelto con più cura…la stanza tenuta in ordine e come fosse uno specchio, cosa mai successa. E allora un giorno gli chiesi “ma non è che ti sei innamorato?”. Per tutta risposta mi disse “vieni con me”. Era un pomeriggio, mi ricordo. Mi portò a viale delle Scienze, a lingue. Entrammo in una specie di laboratorio dove c’erano dei ragazzi che studiavano con le cuffie. Mi indicò un banco. “Quella con la camicia verde”, mi disse. E mi colpì molto sta’ cosa, perché era…»

«…l’unica ragazza nera di quel banco»

«Infatti.  Mi disse che si chiamava Adiba, poi le fece dei cenni, lei… lei si illuminò in volto, ci raggiunse… Carme’, scusami se divento smielato, poetico: ma non ho mai visto due persone così visibilmente innamorate. Tu al posto suo che avresti fatto, messo di fronte ad una scelta che scelta non è, non può essere? Prendere tempo era il minimo. Poi… Poi Adiba si stancò di aspettare, e fu lei a piantarlo. Senza più voltarsi indietro. Non ne volle più sapere. E Totò cominciò a cambiare.»

 «Scusami. Hai detto prima che sono tue supposizioni. E allora come fai a sapere che fu lei a lasciarlo? E senza volerne più sapere?»

«Perché una mattina la incontrai. Scura in volto… Va bene, hai capito che voglio dire. Non sapevo nulla, anche se avevo notato che Totò era intrattabile. Ma siccome  sapevo che stava preparando un esame complicato, credevo fosse preoccupato per quello. Mi avvicinai per salutarla. Mi buttò le braccia al collo. “L’ho lasciato”, mi disse. Mi raccontò che sapeva del fidanzamento da un po’, che Totò le aveva detto che lo avrebbe rotto, ma che questa rottura non arrivava mai. Fino a quando gli aveva letto negli occhi che non sarebbe mai arrivata. E aveva deciso lei per lui. “Gioacchino, io non voglio più vederlo. Mai più.”»

 «Il resto me lo posso immaginare.»

  «Ora praticamente lavora il minimo indispensabile per andare avanti. Per il resto sta al bar, . gioca a carte e parla di pallone. Credo che a casa ci stia  il meno possibile. So che ha litigato col fratello che vive a Brescia.»

 Rimasero in silenzio.

«Spero non si sia messo in qualche guaio, commissario Martinez.»

  «Lo spero anch’io, avvocato Mancuso. Lo spero anch’io.»

  Si era fatto mezzogiorno passato. Comparve  Domenico con un vassoio con due birre e una mezza dozzina di mini arancine.

«Sono calde calde. E fredde fredde» spiegò.

Avvertì telefonicamente Maniscalco che non sarebbe tornato immediatamente in commissariato. Sentiva  il bisogno di andare a guardare il mare: la chiacchierata con Ingrao gli aveva messo addosso profonda inquietudine. E,  per esperienza,  sapeva bene che soltanto la vista del mare riusciva ad essere medicina utile ad alleviare il suo malessere. Non si trattava di sola inquietudine professionale, cioè a dire legata all’indagine, se di indagine si poteva davvero parlare,  che stava conducendo. Il racconto dell’avvocato gli aveva procurato infinta tristezza, ma sentiva che c’era dell’altro, ed era necessario che questo altro affiorasse e prendesse forma bene definita. Perciò si diresse a Marina di Donnafugata e fermò l’auto in prossimità del piccolo imbarcadero. Accese la radio a basso volume, e incominciò a pensare: visualizzando un maglione rosso, una camicia verde e lo sbarco sulla luna.

 Padre Lo Duca, coltissimo gesuita,  aveva studiato negli Stati Uniti, a contatto con persone di qualunque etnia. Al tempo dell’episodio che la sera prima gli aveva raccontato Giovanni era uomo fatto, dalle  convinzioni ben radicate. Identificare e  far identificare un nero dal colore di un capo di abbigliamento era, per lui, naturale. Un piccolo, insignificante passettino. Ma Totò Fina, giovincello, nato e cresciuto a Donnafugata, studente universitario ancora imberbe, quando similmente  indicò la nera Adiba a  Gioacchino Ingrao  fece un passo lunghissimo: perché indicava non un qualsiasi studente del collegio da lui diretto, ma la donna che amava. Amava Adiba di un amore talmente forte, assoluto da riuscire a fargli superare qualunque forma di pregiudizio, qualunque difficoltà. Un gigantesco balzo in avanti.  Martinez comprese che lì, in quel giant step,  risiedeva la sua inquietudine di quella tarda mattinata: perché  lui un passo simile non era capace di compierlo. Temporeggiava, accontentandosi di un qualche little step ogni tanto.

Scese dalla macchina, mosse qualche passo verso la scogliera. Ora il mare non soltanto poteva vederlo ma riusciva anche a sentirne il rumore e l’odore. Pensò dolorosamente a Vincenza e, per l’ennesima volta, si disse che non poteva continuare a quel modo. Che una decisione andava presa. Che un passo, nell’una o l’altra direzione, andava mosso.

 Come sempre, si costrinse a pensare ad altro. E avendo individuato il motivo della sua inquietudine, essendo riuscito a costringerla a venire allo scoperto ed invitata a sedersi accanto a lui, riuscì a confinarla in angusto spazio, concentrando il resto della propria attenzione al caso su cui stava lavorando. Si chiese perché, una volta spiccato il volo, Totò fosse bruscamente  tornato a terra. Ma, soprattutto, come questa storia entrasse nelle minacce a padre Domenico. Non seppe darsi risposta.

Tornò in ufficio che erano quasi le due. Maniscalco lo aspettava.

 «Dottore, pare che Fina avesse perso la testa per una sua collega all’università. Alcuni suoi familiari dicono che si prese un vero e proprio esaurimento nervoso. Di più in questo poco tempo non ho potuto fare, anche perché mi sto muovendo con molta cautela. Non so se lei è d’accordo.»

 «Daccordissimo, Maniscalco. Senti, capisco che è sabato… ma…mi interessa sapere almeno questo. Come è morta la madre di Falsone?»

 «Dottore, questo glielo posso dire subito. Con rispetto parlando, ho avuto una botta di culo:  una cugina di mia moglie è sposata con un cugino di Falsone, e qualche cosa ho saputo. Dunque. La versione ufficiale fu infarto. E di infarto in effetti si trattò, tecnicamente. In famiglia, però,  sono convinti che si sia trattato di quello che una volta si chiamava “crepacuore”. Insomma, la causa vera della morte della povera signora sarebbero stati i dispiaceri che si era presa indovini a causa di chi?»

            «Di suo figlio Totò.»

 «Precisamente. E questa è la ragione per la quale dopo la morte della madre i due fratelli praticamente non si parlano più. L’altro, Rosario si chiama, preferisce non tornare al paese per non essere costretto a vedere il fratello. Ha rapporti solo con questo cugino che le dicevo, e con i fratelli e le sorelle di lui.»

 «Maniscalco, hai fatto un lavoro eccellente. Grazie.»

  «Dovere, dottore. Ma… mi dica una cosa: tutto questo c’entra con le lettere a padre Domenico?»

«Mi sto convincendo di si.»

  «E come, dottore?»

 «Ho alcune impressioni, mi sono fatto un’idea anche con le cose che mi ha detto l’avvocato Ingrao. Devo pensarci ancora un po’, e voglio verificare una cosa. Credo che andrò a parlare con Fina, oggi pomeriggio. Poi, se è come penso io, ti faccio sapere. Anzi: ti faccio sapere in ogni caso.»

  «Dottore guardi che io sono curioso assai di mia natura, e lei  così mi sta facendo morire»

  «Ma non devi andare a mangiare?»

     «Ho detto a mia moglie di calare riso. Può aspettare.»

   «Intanto dimmi una cosa, prima che me ne scordo. Il controllo su Ziràfa?»

«Da quello che abbiamo potuto capire è tutto come sempre. Ho cercato personalmente di carpire qualche informazione ai Carabinieri, dato che, e non si è mai capito perché, di questa famiglia continuano ad occuparsene loro. Ho impapocchiato una storia di controlli incrociati, la DIA, statistiche… non so se se la siano bevuta,  comunque non ci sono segnali di attività particolare. Ci ho messo sopra Schittone e Pecoraro, Dalli Cardillo è in licenza e non lo ricordavo. Ma pure Pecoraro è adatto a questo genere di lavori.»

«Va bene. Andiamo nel mio ufficio e mettiamoci a sedere. Potrebbe essere lunga,  la storia.»

 Presero posto entrambi sulle due sedie davanti la scrivania, uno di fianco all’altro.

 «Io all’inizio mi sono concentrato sulle messe. E forse anche tu. Sono convinto di avere sbagliato. Nel senso che dovevo concentrarmi sul prete. O meglio: sul fatto che è nero di pelle.»

Gli raccontò le cose che aveva saputo da Ingrao.

 «Mi sono convinto che come reazione a questa storia d’amore finita male con una ragazza di colore…quant’è brutta questa definizione…però non me ne vengono altre, perdonami… per reazione a questa storia d’amore finita male, dicevo, il povero Totò abbia sviluppato una profonda avversione per i neri.»

  «Dottore mio, ammettiamo che sia così. Ma perché minacciare di morte un parrino per non fargli dire la messa di suffragio per la propria madre?»

  «Questo è il tassello che mi manca. A dirtela tutta, ho una sensazione che però non  riesco ancora a spiegarti, Maniscalco. Che non riesco a spiegarla neanche a me. Ed è per questo che voglio parlare con Totò»

 «Vuole che glielo vado a prendere?»

  «No, assolutamente no. Lo vado a cercare io al bar vicino la chiesa. Se tanto mi dà tanto, sono convinto di trovarlo la.»

 «Come pensa di muoversi, dottore?»

 «Con la mia  macchina, Maniscalco.»

L’ispettore finse di guardarlo male. Ma stava abituandosi ai suoi modi, e  quel commissario un po’ strano, gli piaceva ogni giorno di più. Da parte sua, Martinez aveva risposto a quel modo  un po’ per amore di battuta – sin dai tempi del liceo aveva coltivato una strana, a volte incomprensibile, molto spesso non adatta alle circostanze, ironia – e, soprattutto,  perché non aveva ancora idea di come affrontare il vecchio compagno di squadra. Era convinto di trovarlo al bar poiché, come gli avevano detto un po’ tutti, era quello uno dei suoi luoghi di abituale frequentazione: e probabilmente il principale. Sperava di trovarlo da solo, di avvicinarlo con la scusa di offrirgli un caffè e di iniziare una conversazione provando a condurla dove voleva lui, anche se non gli era del tutto chiaro  dove fosse questo ‘dove’.

«Il calcio, Martinez, il calcio. » disse a sé stesso  «È l’elemento che avete in comune, e, a quanto pare, è il suo attuale argomento di conversazione preferito. Forse anche l’unico.»

Formò di nuovo  il numero di Peppino Parlagreco.

«Pinù, tu te la ricordi la formazione con la quale vincemmo il campionato regionale allievi?»

Si diresse al bar, guidando lentamente per mettere a punto la strategia che aveva deciso di adottare, e sperando che Fina fosse già  al bar. Entrando nel locale, vide che era seduto ad un tavolo, da solo, unico cliente di quel momento. Tossicchiò silenziosamente, e iniziò il teatro.

«Lei lo sa» chiese al barista  a voce molto alta «qual è stata la miglior formazione di ogni tempo della gloriosa  “Polisportiva Tre Palme” ?»

«Beddamatri, commissario! No! È grave?»

«Per un bar che si chiama “dello sport” è gravissimo. Ma non si preoccupi, gliela dico io: Coscarella, Bellia, Zimmile; Fina, Taglialavoro, Sferrazza; Martinez, Scerra, Parlagreco; Scavo, Amenta. »

«Capitano, Martinez; miglior marcatore Amenta.» disse Fina, alzandosi dal tavolo e procedendo verso il bancone. Guardò Martinez negli occhi, poi mise una mano in una tasca della giacca, tirò fuori una foto un po’ sgualcita, la guardò, infine  gliela porse.

« Ieri tu non te ne sei accorto, ma quando sei entrato qua a prenderti un caffè io c’ero. Era tanto tempo che non ti vedevo, ma ti ho riconosciuto subito. Quasi quasi ti volevo venire a salutare, poi mi sembrava brutto… E anche stamattina che eri con Peppino non me la sono sentita di avvicinarti. Però…però mi aveva fatto piacere vederti. Ho pensato ai vecchi tempi di quando giocavamo insieme e allora, quando sono tornato a casa, ho cercato questa foto, e mi sono detto “se ricapita al bar mi faccio coraggio e gliela do’, magari gli fa piacere.»

Martinez era quasi commosso. Abbracciò il vecchio compagno, gli chiese di scusarlo se non lo aveva riconosciuto, e gli spiegò che era stato, casualmente, Peppino Parlagreco a dirgli che dentro al bar c’era anche lui.

«Sono venuto apposta per te, e ho fatto quell’entrata stupida per questa ragione, per rimediare alla malafigura che avevo fatto»

Passarono del tempo a parlare degli altri protagonisti di quell’impresa, indicandoli uno ad uno nella foto al barista, poi sedettero insieme al tavolo a bere un caffè e a chiacchierare di tante cose. Infine, Martinez gli chiese:

«Totò, ma tu fussitu capaci d’ammazzari u parrinu?»

Per nulla sorpreso, Fina lo guardò negli occhi e disse, la bocca atteggiata ad amarissimo sorriso:

«Carme’, iu mancu un surci sapissi ammazzari».

«Andiamoci a fare una passeggiata», Martinez disse dopo un po’.

«Totò, fino ad un certo punto io credo di avere capito come siano andate le cose. Poi, no:  ho un’idea confusa, che  forse non è neppure un’idea. Facciamo così: io parlo, se sbaglio tu mi correggi, e, alla fine, mi dici la parte che manca. Va bene?»

«Va bene»

«Dunque. C’è un ragazzo che si chiama Totò… Parliamo come se fosse  una terza persona, mi viene meglio, se non ti dispiace. Dunque, c’è questo ragazzo che si chiama Totò che va a studiare ingegneria a Palermo. Conosce una ragazza, e se ne innamora, ricambiato, all’istante. È felice, sono felici. C’è un solo problema, ma è un problema grosso: il ragazzo, al suo paese, è fidanzato. È un fidanzamento in qualche misura combinato, forse lui alla ragazza vuole del bene, probabilmente non l’ama. Sicuramente non l’ama più dopo aver visto questa ragazza. Bellissima. E nera. Ma lui del colore della sua pelle non se ne accorge neppure, possiamo dire che se ne fotte proprio. La presenta agli amici, passa con lei tutto il tempo che può. Sono convinto che le riveli di essere fidanzato al paese, e che le dica di risolvere presto la cosa. Solo che questa cosa non riesce a risolverla. E, a un certo punto, si mette in mezzo la madre. È possibile che qualcuno l’abbia avvisata di quello che  il figlio fa a Palermo; ma è anche possibile che se ne sia accorta da sola, notando cambiamenti nel suo comportamento: le donne queste cose le capiscono sempre, figuriamoci le madri. E, naturalmente, è possibile che le due cose si combinino. Come che sia, la madre mette il ragazzo di fronte alla cruda realtà, e gli chiede di fare  una scelta. Anzi: gliela impone, la scelta. E lui è costretto ad ubbidire.»

«In realtà lui non ubbidisce. Non fa in tempo. Perché la ragazza si stanca delle sue promesse, del suo tirarla in lungo, e lo lascia. Ma lo lascia per rabbia, perché non intravede la possibilità di un futuro insieme, perché non si fida più di lui. Non perché non lo ami più. Almeno, questo è quello che capisce lui.»

Totò aveva parlato con voce diversa, sorprendendo Martinez: sembrava essere tornato il Fina di prima, quello che lui ricordava.

«Si. Lo ama ma non può aspettarlo per sempre. E lo lascia. A questo punto lui comincia a star male, probabilmente si deprime, smette di studiare, torna al paese e incomincia a lavorare come geometra… A proposito, Totò: c’è una cosa che non mi quadra. Tu venivi al liceo scientifico, o sbaglio?»

«No, non sbagli. Ero tre anni prima di te.»

«E com’è che poi hai fatto il geometra?»

«Perché al primo anno di università, forse per via delle materia che studiavo, forse per una illuminazione, non so,  decisi di prendere il diploma di geometra da esterno, e l’anno dopo feci l’esame e tutto.»

«Capito. Allora. Torna… torni al paese, e incominci a fare il geometra e poi ti sposi. Fino a qua credo di essere andato vicino a come si sono svolte le cose. Ma da qua in poi… Io credo tu abbia sviluppato una avversione fortissima verso i neri. Credo che all’origine delle telefonate che hai fatto a don Domenico e della lettera che gli hai scritto… perché sei stato tu, vero?»

«Si, Carmelo. Sono stato io. Ma ti assicuro che…»

«Ci arriviamo dopo, Totò. Ora fammi finire. Dicevo, all’origine di queste minacce  io credo ci sia proprio questa avversione. Ma non ho capito perché impedire  la celebrazione di una messa in ricordo di tua madre. E questo vorrei me lo spiegassi tu.»

Erano arrivati ai giardini pubblici, e si fermarono sul belvedere. Martinez guardava gli orti sottostanti e, in lontananza, la campagna e il mare; Fina rimaneva  con le mani in tasca e il capo chino. Ad un certo punto trasse le mani dalle tasche, si appoggiò alla ringhiera e, a bassa voce,lentamente, con tono fermo, cominciò a parlare.

«Io Rosaria non l’ho mai amata. Mi fecero fidanzato i miei genitori e i suoi, si può dire a tavolino,  per una storia che ora sarebbe troppo lunga da raccontare. Inizialmente mi stava bene così. Rosaria era bella, è ancora bella per la verità. Ricordo che pensavo che magari l’amore sarebbe venuto dopo. Poi conobbi Adiba: e le cose sono andate esattamente come le hai descritte tu. Precise precise. Non mi accorgevo del colore della sua pelle, non me ne accorgevo proprio, non mi importava. Mi piaceva tutto di lei, non mi interessava altro. Una cosa è sbagliata nella tua ricostruzione. Io mi ribellai a mia madre. Non subito, questo si. Quando mi disse che qualche bastardo gli aveva fatto sapere che a Palermo io “mi fottevo una negra”, per usare le sue parole precise, io mi incazzai come una bestia. Le dissi che non doveva permettersi di parlarmi così, e di parlare di lei in quel modo. Le dissi che amavo Adiba e che ero pronto a fare qualsiasi cosa per lei. E mia madre mi sfidò: se entro l’indomani mattina non le assicuravo che avrei lasciato Adiba me ne sarei dovuto andare via di casa. “Ti concedo una notte di riflessione”, mi disse.  Non l’avevo mai sentita parlare in quel modo, vista con quella durezza in volto. Non si era mai comportata così. Passai una notte infame. E il coraggio che,  a chiacchiere,  avevo manifestato, la mattina dopo non lo avevo più. Dissi a mia madre che avrei lasciato Adiba. Però, quando tornai a Palermo…quando tornai a Palermo e la rividi mi resi conto che non avrei potuto vivere senza di lei. Le avevo già detto che qui a Donnafugata avevo la fidanzata, e che non l’amavo, e che volevo lasciarla per lei. Le raccontai pure le cose che mi aveva detto mia madre, quello che mi aveva chiesto, e…»

«E ti lasciò lei.»

«Si. Diceva che non avrei mai avuto il coraggio di staccarmi da mia madre. Dalle mie certezze, disse proprio così. E mi lasciò. E quella sera, caro Carmelo, cominciarono i miei guai, cominciai a divenire il rottame che sono oggi.»

Cavò dalla tasca un pacchetto di sigarette, ne offrì una a Martinez, che rifiutò, ne accese una per sé aspirandone golosamente un paio di boccate.

 «Non riuscii a dare più neanche un esame. Tornai a Donnafugata, senza più voglia di andare a Palermo. Per fortuna avevo quel diploma di geometra, avevo anche fatto gli esami per esercitare la professione, e riuscii a cominciare a lavorare. Andò avanti così un anno, si cominciava a parlare di matrimonio. Poi una notte sognai Adiba. Non mi era mai capitato. Ogni tanto avevo sue notizie, ma non ci eravamo mai più sentiti, né cercati. Il sogno mi fece venire voglia di vederla. Una voglia fortissima. Compresi che,  anche se ogni tanto mi sforzavo di non pensarle, e mi illudevo di potere dimenticarmi di lei, la amavo ancora, e ancora più profondamente di prima. E allora, con la stessa calma apparente con la quale ti sto parlando ora, ma dentro agitatissimo, proprio come sono ora, andai a parlare con mia madre e le dissi: io ad Adiba non l’ho dimenticata, a Rosaria non l’amo: la lascio, lascio questa casa e me ne torno a Palermo a vivere con Adiba. Andai a dire la stessa cosa a Rosaria, l’indomani mattina presto dopo aver caricato in macchina alcune cose me ne partii per Palermo. E andai a cercare Adiba.»

Fina tacque. Strinse forte le mani intorno alla ringhiera, Martinez vide i polsi serrati, i tendini tesi come corde.

«Assittammuni Carme’.»

Presero posto su una panchina, dalla quale si riusciva a vedere il mare attraverso le maglie della ringhiera. Totò rimase a guardarlo a lungo in silenzio, e Martinez lo lasciò fare poiché intuiva la drammaticità del momento, e la tensione dalla quale il suo antico compagno di squadra in quel momento era attraversato.

«Adiba viveva ancora nella casa dove abitava quando ci eravamo conosciuti, nella quale tante volte ero stato. E nella quale… » Arrossì, ampie lacrime gli solcarono il volto. Rimase ancora del tempo in silenzio, Martinez non intervene.

«Disse di essere  contenta di vedermi, ma… Ebbi subito l’impressione che c ‘era qualcosa di cambiato in lei. Mi sembrava fredda, evitava di guardarmi negli occhi, arrivò a scostare la mano quando cercai di prendergliela…  Le dissi tutto quello che avevo fatto nei mesi in cui non c’eravamo visti, in cui eravamo stati distanti. Le raccontai il sogno, le riferii quello che avevo deciso e che ero andato via di casa.  “Hai sbagliato a venire” mi disse. “Dovevi farlo prima, ora non serve a niente”. Mi disse che non aveva alcuna intenzione di riprendere la storia con me. Non mi amava più. Anzi: amava, riamata, un altro, da qualche mese.»

Si fermò di nuovo, più a lungo, stavolta, piangendo copiosamente: eMartinez distolse lo sguardo, stavolta, per rispettarne almeno in parte l’intimità che per altri versi era costretto a violare.

«E tu, allora, che hai fatto?» gli chiese dopo un po’, con tutta la dolcezza che sentiva di potere esprimere.

«Che dovevo fare, Carmelo? Andai a cercarmi un posto dove dormire quella notte, mi ubriacai, l’indomani, appena fui in condizioni di guidare tornai a Donnafugata. Mio fratello, appena mi vide, mi prese a legnate, nel senso letterale. Lo dovettero fermare in quattro, perché altrimenti mi avrebbe pure ammazzato. Mi spiegarono che mia madre era in ospedale, ce l’avevano portata il pomeriggio prima. Morì quella sera stessa, e tutti dissero che l’infarto gliel’avevo causato io. E credo avessero ragione. Il resto, te lo puoi immaginare. Mio fratello smise di parlarmi. Passato il lutto stretto andai a cercare Rosaria, le chiesi di perdonarmi, chiesi scusa a tutti i suoi familiari arrivando ad umiliarmi, umiliarmi pesantemente. Di lì ad un anno ci sposammo. Non la amavo, non la amo ma in qualche modo le sono riconoscente.»

Martinez si alzò e comincio a camminare fino alla ringhiera e ritorno, una dozzina di volte, le mani in tasca. Poi tornò a sedersi di fianco a Totò.

«Dopo la morte di tua madre cominciasti a nutrire rancore verso Adiba. E avversione verso tutti i neri. Per caso il nuovo innamorato di Adiba è nero anche lui?»

«Non ne ho idea, non so chi sia, e non me ne fotte un cazzo.».

«E fai bene. A ben pensarci, non ha importanza. Credo che il tuo ragionamento, anche se forse è improprio parlare di ragionamento: dev’essere stato qualcosa di irrazionale, di viscerale. Comunque. Credo che tu abbia pensato di avere sacrificato la vita di tua madre per una donna che credevi ti amasse almeno quanto tu amavi lei. E di avere improvvisamente compreso di avere completamente sbagliato.»

«Si, quando era troppo tardi.»

«Credo anche che questo tuo, scusami Totò, vivere da schiffaratu, senza uno scopo apparente, riempiendola vita di minchiate tipo il pallone e le carte al bar,  sia una sorta di punizione che ti sei auto inflitta. Ma qui ci vorrebbero competenze e conoscenze che io non ho. E mi interessa fino ad un certo punto approfondire questo aspetto. Quello che mi interessa è capire perché le telefonate a don Domenico, anche se un’idea molto più precisa ora ce l’ho.»

«E allora parla tu, perché io faccio fatica, Carmelo. E non è una finzione, non è una maschera.»

«La prima volta che ti ho visto al bar, ieri, parlavi male di Pogba. E hai detto che i neri a te non piacciono. Non perché tu sia razzista, ma perché non ti piacciono. Credo sia un ragionamento esattissimo. Se Adiba fosse stata americana, di pelle bianca, tu diresti che non ti piacciono gli americani. E lo stesso per i cinesi, gli spagnoli, gli australiani… Ma Adiba è congolese. E  pure padre Domenico lo è. E allora io credo che da qualche parte della tua testa s’è ficcata l’idea che non è possibile, che non è giusto che sia un prete congolese a celebrare la messa per tua madre, che è morta a causa di un’altra congolese. Sbaglio?»

«No, credo di no.»

«Totò, se Adiba ti avesse riaccolto le cose sarebbero diverse? Nutriresti rancore per lei? Avversione per i neri?»

«No, credo proprio di no.»

«Però tua madre sarebbe morta lo stesso. Perché ha avuto l’infarto quando tu sei andato via di casa. Non quando Adiba ti ha lasciato, cioè non ti ha più rivoluto. Ho ragione?»

Totò rimase a lungo a pensare.

«Si. Hai ragione. È così»

«Tua madre è morta, e niente potrà farla tornare. La ragazza non c’entra nulla. E tu hai pagato abbastanza. Non è il caso di fare cazzate, altre cazzate. Siamo d’accordo?»

«E per le cazzate che ho fatto?»

«Se ti riferisci alle due telefonate e alla lettera anonima, ti dico sinceramente che io non ho molta voglia di perdere del tempo a scrivere rapporti, spiegare le cose al magistrato e altre cose di questo genere. Per me la cosa finisce qui, in questo momento. Ad una condizione.»

«Quale?»

«Che andiamo insieme da don Domenico, e gli dici tutto. E poi il giorno della messa in chiesa ti ci porto io. E ti marco stretto.

«Tu a marcare non sei mai stato bravo. Eri un’ala brillantissima, ma in fase difensiva, fattelo  dire, lasciavi molto a desiderare.»

«E pure questo è vero. Ma ora giochiamo ad un altro gioco, però…»

«Carmelo, ti ho già detto prima che io non sarei capace di fare del male nemmeno ad un animale selvatico. Don Domenico non  volevo solo spaventarlo. Nel senso che il mio intento era di non fargli dire quella messa, tutto qua. Mi vergogno tanto, però:  è proprio necessario che parli con lio?»

«Si. Ci andiamo insieme. E dopo saremo tutti più tranquilli»

«E per me non ci saranno conseguenze?»

«Te l’ho già detto. Nessuno saprà niente, tranne due miei colleghi, che non ne parleranno con nessuno.»

Don Domenico fu sollevato di apprendere come un reale pericolo non vi fosse mai stato. Ringraziò il commissario, abbracciò Totò Fina.

Maniscalco, che l’indomani era di riposo, e temeva di doversi comunque alzare presto per montare di guardia a San Traspadano,  fu felicissimo di potere godersi tutta la domenica dormendo fino a tardi. E si complimentò col commissario per l’intuito e l’umanità – così disse – che aveva dimostrato.

Montalto, che invitò Martinez a cena – cosa che  il commissario aveva sperato – si dilungò ad esaminare  i risvolti psicologici della strana faccenda.

            Martinez, a notte fonda, seduto a guardare il mare dal terrazzino della sua casa di Gibildolce, era incapace di prender sonno.

«Hai mangiato troppo», si diceva, ed era vero: del resto, la signora Assunta Cumbo, sposata Montalto, era cuoca sopraffina. Martinez aveva fatto ampiamente onore alla tavola, ma non era questo – o non era soltanto questo – a tenerlo sveglio. Quella sera si sentiva particolarmente solo. Quella sera avrebbe voluto essere altrove. Ma quell’altrove era sempre più distante.

L’immagine di copertina è una veduta di Scicli, presa da viaggi.nanopress.it