Vive a Reggio Calabria. Dopo anni passati fuori per lavoro, è ritornato nella sua città. Blogger, appassionato di fotografia, musica e cinema. Presidente dell'associazione culturale Fahrenheit 451. Vincitore del concorso fotografico “Calabria-back to the beauty” (Calabria Contatto). Ama la letteratura, con una predilezione per gli scrittori di fine Ottocento e Novecento. E’redattore del magazine Suddiario e collabora con Relics-Controsuoni (rivista musicale). Si pone come obiettivo quello di condividere la valorizzazione del territorio e del mondo visto con gli occhi della gente del Sud.

Fear X e la psicosi visionaria di Refn

Di Giovanni Vittorio

Nicolas Winding Refn è uno dei registi più poliedrici che abbia mai conosciuto. Sempre alla ricerca della sperimentazione, sin dagli esordi con la trilogia di Pusher, in cui la violenza diventa metafora del male dell’uomo, al di là di ogni luogo ed epoca.
Nell’immaginario di Refn sono spesso presenti idee di Michael Mann, Kenneth Anger, Jean-Pierre Melville, David Lynch, il primo Barry Levinson, Walter Hill, il Kim Ji-woon di Bittersweet Life come tanti altri che il regista danese rilegge e rimodella facendone corpus nuovo, ricreando un registro del tutto personale, in cui si mescolano iperrealismo e visionarietà. Si passa da antieroe innamorato e senza nome in Drive, a un progressivo disfacimento, come in Solo Dio perdona.
Si può notare che il suo stile, dapprima acerbo, specie nella trilogia di Pusher, si fa più elegante col passare degli anni, pur mantenendo una sua coerenza tematica.

Con il recente Too Old to Die Young si arriva a soluzioni più estreme. Il cinema del danese diventa ipervisionario, i simbolismi aumentano, come anche i cromatismi estetici, sempre amati e funzionali alla narrativa dei suoi film. Il “noir metropolitano” viene riletto anche qui con il suo stile ormai diventato un marchio di fabbrica.  Piani sequenze interminabili, movimenti lenti di camera si alternano a improvvise scene action, che spiazzano lo spettatore, il quale viene davvero rapito grazie ad uno stile unico.
Una delle tematiche affrontate dal cineasta danese è la violenza, vero tormento ed ossessione, declinata in tutte le sue forme. Violenza come annichilimento (Neon Demon), violenza come atto punitivo (Solo Dio perdona), oppure violenza estetizzante (Drive).

Nicolas Winding Refn (Foto da comingsoon.it)

Refn ormai è pura stilizzazione, pura estetica. Le macchine, le sedie e le luci al neon contano quanto le persone, se non di più. E qui, a prescindere dagli evidenti riferimenti all’America trumpiana, se esiste un’urgenza in questo noir metropolitano composto da corpi nudi, manichini e giustizieri indistruttibili è racchiusa nella sua pura superficie. Da questo punto di vista è un cinema davvero disperato per come cerchi bagliori e punti di fuga esclusivamente sulle possibilità dell’estetica.

Sempre sopra le righe anche quando viene intervistato.
Il piacere per la provocazione è un’altra sua caratteristica, come quando, interrogato sulle implicazioni etiche di una scena di cannibalismo fra modelle in The Neon Demon, rispose: “Quando mi chiedono un’opinione su qualcosa che divide il pubblico penso, non l’avete ancora capito? Con l’avvento di internet sono spariti i guardiani. C’è solo il contenuto. Per sopravvivere non importa più cosa fai, ma cosa rappresenti. Io sono il glamour. La volgarità. Lo scandalo. Il gossip. Sono il futuro. Sono la controcultura. Sono la realtà commerciale. Sono la singolarità artistica”.


Uno dei film più interessanti ma anche più sottovalutati è Fear X, prodotto in terra americana, e probabilmente quello che più di ogni altro influenzerà i successivi film.

Con Fear X, Refn ci porta dentro atmosfere visionarie, con una storia mistery che parla di solitudine e ossessione. L’ossessione di Harry Cain (John Turturro) causata dalla perdita della moglie, per motivi a lui ignoti, e proprio per questo indaga da solo alla ricerca delle verità nascoste. La narrazione mostrata dal regista danese proietta lo spettatore dentro un clima di ansia ovattata, di angoscia silente che finisce per seminare dubbi sulla sue percezione sui fatti realmente accaduti. Si perdono gli omaggi e citazioni dei grandi maestri del noir, come Barton Fink (la scena dell’ascensore), oppure l’atmosfera scura che rimanda a Twin Peaks. Ottima la fotografia con i giochi di ombre e luci, il rosso utilizzato per sovrapporre realtà e incubo. Ma su tutti emerge la grande prova attoriale di Turturro, che con il suo sguardo, spento e allucinato insieme, sa trasmette con equilibrio il senso di angoscia che aleggia per tutta la durata del film.
Grandissimo il finale che ci spiazza, ponendoci di fronte ad un interrogativo: è stato un complotto organizzato ad arte oppure è una storia di psicosi, tipica dell’uomo moderno? 

(Fonti ondaciema.it; sentieriselvaggi.it; esquire.com)