Autore di romanzi, racconti e sillogi di poesia: - Jacob Rohault I giorni di Venezia, edito da CTL Livorno e finalista per il Premio Internazionale Indipendente Cesare Pavese 2016. - L’ intruso nelle vecchie stanze (Pubblicato da Solfanelli editore nel 2017), già finalista per il Premio “Il giovane Holden” 2016 come inedito. - Con gli occhi di Arianna (Pubblicato da CTL Livorno 2018) - Il venditore di pensieri altrui (Segnalato dalla giuria del Premio Charles Bukowski e Pubblicato da Elison Publishing nel 2018) - Diari sospesi (Romanzo Inedito) - Libro di racconti: Viaggi prestati alla scrittura (inedito) - Racconto: Matilde, il viaggio, il cigno nero (Inserito nella raccolta “I sogni muoiono all’alba” edito da Tabula Fati 2018). - Silloge di poesie: Menzione di merito per il Premio Afrodite 2018 e pubblicazione nell’antologia dell’Editrice Montecovello. - Racconto: Prima dell’alba (inserito nella silloge Raccontami l’Abruzzo 2019 Tabula Fati Editore) - Racconto: Il pranzo di Bozsik (inedito) - Racconto: La vacanza (inedito) - Racconto: Virginia, Burley & Latakia (inedito) - Racconto: La via riscoperta (inedito) - Racconto: Eden in città (inedito) - Poesie e nuove poesie (inedito)

                                       Il pranzo di Josef Bozsic

                                                    Racconto

Di Paolo Massimo Rossi

                                                                          I

Il telefono squillò al mattino presto, non erano ancora le sette. Bozsic sollevò la cornetta e Dezsö Budái disse semplicemente che due giorni prima Sándor Kòcsis si era ucciso.

Bozsic, dopo un attimo di silenzio, chiese com’era successo.

E Budái: “Si è buttato giù da una finestra del suo appartamento a Barcellona, al settimo piano.”

“Viveva solo?”

“Sì, da qualche anno, ormai, gli avevano diagnosticato un cancro.”

“Non lo sentivi da molto?”

“Non ricordo con precisione, ma devono essere passati due o tre anni, almeno.”

Non domandò come avesse saputo della tragedia.

“Pensi che lo seppelliranno in Spagna?”

Budái non rispose e Bozsic chiese ancora: “Lo riporteranno a Budapest?”

“Sarà impossibile, credo, anzi ne sono certo, considerando tutto.”

“Ci porteremo dietro queste storie per sempre!” Disse Bozsic sottovoce, quasi parlando a se stesso.”

Budái non aggiunse altro e Bozsic sentì il click della cornetta dall’altro capo della linea.

Tornò in camera da letto e indossò una vestaglia sul pigiama: si era a metà  luglio, ma quella mattina la temperatura era stranamente bassa.

Ripassando per il corridoio, guardò per un attimo il telefono appeso sulla parete, come indeciso su cosa fare, poi entrò in cucina per prepararsi un caffè e mangiare qualche biscotto secco. Restò seduto al tavolo per un po’, aggiungendo qualche goccia di latte al caffè per addolcirlo: non usava più lo zucchero per cercare di eliminare il sovrappeso.

Fuori, il cielo era coperto da nuvole basse e Bozsic si alzò per guardare dalla finestra la strada con le rotaie nel mezzo e la lunga fila di fabbricati di fronte, tutti uguali.

Era domenica e in giro non c’era nessuno: anche i tram passavano a intervalli molto più lunghi che nei giorni feriali.

Si chiese se fosse il caso di comunicare la notizia allo scrittore Sándor Márai che, così gli era stato detto, viveva a Salerno, in Italia, ed era stato amico di Kòcsis.

Sapeva che si erano conosciuti a Berna, subito dopo il cinquantasei, quando Kòcsis era fuggito in Svizzera per chiedere asilo politico.

Erano passati quasi vent’anni e quella storia non aveva più grande significato, adesso.

Márai, in quel periodo, aveva aiutato Kòcsis, e questi aveva conservato un sentimento di riconoscenza e affetto per lo scrittore.

Kòcsis gliene aveva parlato in occasione dei campionati in Svezia quando, per la prima volta e per poche ore, si erano incontrati dopo la fuga.

Forse Màrai era già a conoscenza della notizia; ma Bozsic, senza un preciso perché, avrebbe voluto informarlo personalmente, forse per dare alla vita un senso di continuità che le vicende di quegli anni avevano spezzato e disperso.

Era così per tutti loro? Per tutti quelli che, per alcuni anni, erano stati miracolosamente uniti da un cameratismo sportivo?

Si rendeva conto che sarebbe stato molto difficile trovare Márai, che viveva da alcuni anni in Italia, e riuscire a parlargli per telefono, non sapeva neanche se avrebbe accettato di ascoltarlo.

D’altra parte, riuscire a partire e andare in Italia poteva essere molto più difficile, eppure era questo il pensiero che, lentamente, si stava formando nella sua mente. Forse sarebbe stato impossibile: ma quante volte, sui campi calcio, aveva vinto sfide apparentemente più difficili? Intanto avrebbe dovuto procurarsi un permesso per uscire dal paese, magari come turista.

La via burocratica lo spaventava: sarebbe stata certo lunga e penosa, e le garanzie di riuscita veramente minime.

Entrò in bagno per radersi, il piccolo specchio portatile, appeso al muro sopra il lavabo, gli rinviò l’immagine di un viso stanco, con pochi capelli, le guance cadenti e le borse livide sotto gli occhi. Un viso così lontano e diverso da quello delle foto ufficiali dell’Aranycsapat, la squadra d’oro.

Sul mobile della piccola stanza adiacente la cucina ne aveva una senza cornice, appoggiata al muro e un po’ accartocciata. In quell’immagine in bianco e nero appariva scuro, con tanti capelli, segaligno, con gambe corte e spalle larghe, più basso dei suoi compagni, molto più piccolo del gigante Kòcsis che era il penultimo a destra della fila.

Immaginò il corpo pesante e grosso che volava giù dal settimo piano, probabilmente muto e con gli occhi già chiusi.

Erano stati compagni di squadra, uniti dagli stessi sogni e dalla stessa idea confusa del futuro. Certo, non grandi amici, ma questo non significava nulla: avevano condiviso, in ogni caso, una grande avventura.

Bozsic non aveva più molti amici a Budapest: l’unico privilegio era stato quell’appartamento con una stanza da pranzo, in un fabbricato lungo e con soli tre piani, lontano dal centro e nella periferia a nord est della città. Non poteva lamentarsi, con il piccolo vitalizio per meriti sportivi si permetteva una vita dignitosa. Per il resto, poche persone si ricordavano di lui.

Finì di vestirsi indossando una camicia a quadri con maniche corte e, sopra, un giubbetto di finta pelle nera con cerniera lampo.

Sarebbe andato in centro a cercare István, il vecchio farmacista in pensione che, tra le varie attività, si occupava anche di permessi di soggiorno ed era in buoni rapporti con le autorità.

Scese la scala stretta che portava all’androne e uscì sul viale.  Attraversò una parte della carreggiata e si fermò sull’isola in cemento rialzato che fungeva da fermata del tram.

Almeno avesse preso un giornale per distrarsi nell’attesa.

Il tram arrivò dopo un quarto d’ora. Bozsic salì a bordo, acquistò il biglietto dall’impiegato in divisa e andò a sedersi in fondo. C’erano solo altri quattro passeggeri, intenti a guardare fuori o a leggere delle riviste. Notò che a condurre il mezzo era una donna, come sempre più spesso accadeva in quegli ultimi tempi.

Il tram costeggiò la ferrovia per un lungo tratto, girò a destra lungo l’Arpad e poi a sinistra sino a costeggiare il campo sportivo del Vasas.

Arrivò in centro che era ormai mezzogiorno: Bozsic scese e si avviò a piedi verso il teatro dell’Opera.

Il vecchio István abitava lì vicino, in un vecchio palazzo stile Liberty dell’epoca imperiale.

                                                                          II

L’edificio era sporco, annerito dallo smog, con l’androne buio e polveroso. Bozsic entrò con passo titubante e guardò la pulsantiera nella quale, però, erano riportati solo numeri senza nomi. Da una porta sulla destra si affacciò una donna grassa e anziana che lo guardò con aria interrogativa.

“Cercavo István, il farmacista,” disse Bozsic.

“Cosa vuole da lui?”

La donna aveva capelli lisci e brizzolati, sciolti ai due lati del viso e con la scriminatura nel mezzo, dava un’idea di poco pulito e aveva uno spazzolone stretto nel pugno di una mano.

“Io sono la responsabile delle scale, può dire a me,” continuò la donna, mentre Bozsic restava in silenzio guardandola freddamente.

Poi si decise a parlare:

“Sono un suo vecchio amico,» disse con un tono privo di qualsiasi inflessione.

“Che è vecchio, lo vedo … per il resto Pisti di amici ne ha tanti, e lei non l’ho mai visto; se cerca per l’affitto della camera dovrà aspettare oggi pomeriggio, e poi credo non ce ne siano di libere.”

“Non è per questo,” fece Bozsic, che cominciava a essere infastidito dall’atteggiamento della donna.

“Se vuole, posso farle vedere una stanza nella scala B,” insistette lei.

“No, le ho spiegato che ho solo bisogno di vedere István, e non cerco una stanza.”

“Comunque, è andato in Aeroporto, credo, e tornerà solo nel pomeriggio … o stasera, se non trova nulla. Arriva da fuori? Per il permesso deve parlare con lui, per la stanza possiamo sempre accordarci.”

“Ripasserò,” rispose.

La donna lo guardò con aria sospettosa e rientrò nell’appartamento al pianoterra.

Non gli restava che andare in aeroporto.

Prese la M3 sino all’ultima stazione ancora in costruzione e un taxi per il restante tragitto. Mangiò qualcosa al selfservice e poi cominciò a guardarsi intorno.

Si rendeva conto che aveva viaggiato in balìa di una fretta immotivata: in fondo avrebbe potuto cercare con calma il giorno successivo, magari seguendo la via regolare per i vari uffici.

Ma no! Non poteva cedere, aveva bisogno di partire subito, di raggiungere quella meta così poco ragionevole e di parlare con Márai.

Guardò il grande orologio posto in alto, sulla parete di fondo, di fronte alle porte d’ingresso: erano le tre del pomeriggio.

Lo vide che mangiava un panino seduto in una delle panche allineate nel centro del grande atrio d’attesa.

Ebbe un momento di indecisione, poi si avvicinò e lo chiamò per nome:

“Posso salutarla, dottor István?”

L’altro lo guardò con aria sorpresa, volgendosi subito indietro, come se Bozsic avesse parlato a qualcun altro. Poi tornò a scrutarlo e si rilassò credendo di capire che doveva trattarsi di un amico.

“Non mi riconosce? Bozsic!”

“Oh! Il vecchio Bozsic: Helsinki 1952, forse?”

“Non sapevo che c’era stato!”

“Non ci sono stato, in verità! Ma chi può dimenticare?”

Parlava continuando a masticare, come per dare una minima importanza a quell’incontro.

“Bè, io ho quasi dimenticato,” disse Bozsic, per creare una forma di confidenza e la voglia di continuare a parlare.

“Male, l’Aranycsapat non si dimentica!”

“Qualche rischio che accada però esiste!”

“Bozsic, Lorant, Zakarias, o sbaglio?”

“E’ così, però ne è passato del tempo!”

“Ero in farmacia e tenevo accesa la radio nel retrobottega, lo facevano quasi tutti, allora.”

“Eravamo giovani e inconsapevoli!”

“E gli altri?”

“Non mi dica che avrebbe voluto una visita collettiva?”

“A un povero vecchietto?”

“Dottor István! Lei non è povero e neanche un vecchietto!”

Si pentì di averlo detto e sperò che István non si mettesse sulla difensiva.

Ma il dottore si era rilassato, dopo un primo momento di sospetto, e ora aveva l’aria di essere contento di vederlo.

“Abitavate di fronte alla farmacia, mi sembra,” disse spostandosi lungo la panca per far posto a Bozsic.

“No, in fondo alla strada; ma passavo di fronte alla farmacia ogni giorno, quando andavo agli allenamenti.”

“Se ci fosse ancora quella Honved! Un vero peccato che allora non esistesse la Coppa, come si chiama?”

“Già, proprio un vero peccato!”

“Bè, visto che sei qui, parlami un po’ di te,” disse, passando ad un tono più confidenziale e mettendo da parte ogni residuo atteggiamento difensivo.

Poi continuò: “Ti ricordavo con più capelli e meno pancetta!”

“E io ricordo i suoi baffoni neri!” disse Bozsic sorridendo.

“Va bene, va bene; dimmi di cosa hai bisogno dal vecchio Pisti.”

“Sono stato nel suo condominio e …”

“ … e la vecchia intrigante ti ha spedito qui, vero?”

Decise di essere sincero: “È così,” rispose.

“Parlami con il cuore in mano!”

“Sa, dottor István, ho bisogno di andare in Italia.”

“Non voglio conoscerne il motivo, come sei messo con la lingua?”

“A dire il vero, non bene, ma qualcosa riesco a dire e capire.”

“Non ti troveresti in grande difficoltà, allora?”

“Cercherei di arrangiarmi, a ogni modo.”

“E hai bisogno di una giustificazione per partire?”

“E’ così.”

“Il vecchio István una soluzione potrebbe trovarla, devi solo aspettare un giorno o due … che ne dici?”

“Che ho una brutta faccia, ma il sorriso mi viene ancora naturale, malgrado tutto.”

“Siete sempre stati dei privilegiati, voi dello sport!”

“Lo sa bene che è una favola, dottor István.”

“Ma non sei stato anche deputato al parlamento, una volta?”

“Per poco tempo, poi caddi in disgrazia, meglio tacere.”

“Va bene, hai ragione, ma adesso devo lavorare, c’è un mucchio di turisti in arrivo, devi spettare qualche giorno, potrei avere qualcosa di interessante.”

                                                                            III

        Il dottor István telefonò dopo due giorni.

“Ti aspetto sulla scalinata del teatro, oggi alle tre,” nient’altro.

Bozsic pensò che, ormai, quel viaggio non aveva più senso: certo Màrai era venuto a conoscenza della morte di Kòcsis: avrebbe fatto un viaggio inutile.

Uscì e percorse il solito tragitto da casa in centro.

Si sentiva stanco eppure, inspiegabilmente, il cuore restava attaccato a una speranza che la mente rifiutava di approfondire.

Riandò col pensiero al 25 novembre del 1953, era una giornata grigia, con nuvole basse e cariche di pioggia incipiente su Wembley.

Erano tutti lì, a camminare sul prato per raggiungere il cerchio centrale, gli onesti pedatori magiari, come un giornale li aveva definiti, affiancati dai maestri inglesi in bianco.

Il pallone, colpito di testa da Kòcsis, era finito sul palo e gli era rimbalzato davanti, d’istinto lo aveva colpito al volo: era il quinto gol e gli inglesi erano rimasti muti. Quell’attimo era rimasto chiaro e lucido ai suoi occhi e si sovrapponeva alle immagini delle strade che scorrevano all’indietro.

Si sentiva più solo del solito: almeno avesse avuto una famiglia!

Scese dall’autobus e si avviò verso il Teatro dell’Opera, c’ era stato una volta, anni prima, invitato, insieme ad altri atleti di tutti gli sport, ad ascoltare il Coro dell’Armata Rossa.

Salì la grande scalinata cercando l’anziano farmacista: non era ancora arrivato, poi sedette su un gradino in alto per avere una visuale migliore.

Non aveva parlato con nessuno dopo quel pomeriggio all’aeroporto e, improvvisamente, sentì come stupidamente velleitario quel progetto di andare in Italia per parlare con Márai, magari non lo avrebbe neanche ricevuto.

Si fosse sposato allora, subito dopo Helsinki! Adesso avrebbe un figlio di almeno ventidue o ventitré anni. Avrebbe fatto il calciatore anche lui? O magari il violinista nell’orchestra di stato e, qualche volta, lo avrebbe incontrato proprio lì, su quella scalinata.

Non sarebbe stato scuro di capelli e di carnagione, ma biondo come Eva, la ragazza che abitava nel suo stesso caseggiato e che aveva corteggiato sognando di sposarla. Sarebbe successo dopo i mondiali di Berna, nel cinquantacinque probabilmente, poi tutto era precipitato e il mondo si era frantumato insieme all’Aranycsapat.

Rimase seduto sino alle sette, mentre sentiva aumentare addosso il nervosismo per il ritardo del vecchio István. Lo vide arrivare che ormai era quasi buio e stava per andar via.

István salì i gradini e guardò Bozsic con aria bonaria: “Avevi perso la speranza?”gli chiese.

Bozsic avrebbe voluto rispondergli male, ma si trattenne per non irritarlo.

“Allora, allora – continuò István – ci sarebbe una possibilità presso la nostra Ambasciata in Italia, qualcosa che ha a che vedere con le nostre attività sportive, posso provare a farti inserire nel gruppo.”

Fine mese! Ma allora Màrai avrebbe già saputo tutto e lui non gli avrebbe detto nulla che già non sapesse, pensò Bozsic.

Il vecchio István continuò: “Sei stato un personaggio importante per il nostro calcio … sempre privilegiati, voi sportivi, e poi tu non sei fuggito; credo che potrai partire con il gruppo, che te ne pare? Il vecchio István trova sempre la soluzione!”

                                                                        IV

József  Bozsic giunse a Roma all’inizio di agosto e prese servizio presso l’Ambasciata, in una zona tranquilla tra Viale Regina e Nomentana.

Gli fu trovato un alloggio in vicinanza: un monolocale in una palazzina in stile primo novecento. Iniziò il lavoro d’ufficio.

Ma i suoi pensieri erano tutti dedicati al desiderio di arrivare sino a Màrai.

Riuscì a telefonare dopo qualche giorno: Màrai viveva da qualche anno a Salerno con la moglie Lola.

Fu lei a rispondere.

Non si era preparato un discorso e riuscì solo a dire che era József  Bozsic, un ex giocatore della nazionale di calcio ungherese, e che avrebbe voluto incontrare lo scrittore.

Lola rispose: “Siamo due persone anziane” e, dopo una lunga pausa: “Anzi vecchi, e non vogliamo parlare né incontrare nessun ungherese.”

Aveva un tono irritato, stanco e, in qualche modo, sfuggente.

Bozsic non riuscì a non provare un senso di vergogna, in un attimo pensò di essere stato semplicemente inopportuno e velleitario.

“La prego, sono József  Bozsic, giocavo nella nazionale ungherese negli anni cinquanta, ma non voglio parlare dell’Ungheria. Se chiede a suo marito … lei è la moglie, immagino, penso che mi ascolterà.”

“Richiami domani, le farò sapere.”

La comunicazione s’interruppe di colpo.

Richiamò il giorno dopo.

Rispose ancora Lola, questa volta con tono più accomodante e gentile.

“Signor Bozsic, lei può dirmi perché vuole vedere mio marito?”

“Vorrei parlargli di un comune amico, una persona che è venuta a mancare qualche giorno fa, nulla di politico.”

“Quale amico?”

“Sándor Kòcsis.”

“Ungherese, evidentemente; ma io non conosco nessuno con questo nome.”

“Suo marito lo conosceva e, penso, gli fosse anche affezionato.”

“Potrebbe dargli un dolore, allora.”

“Non saprei, per me è stato certo un dolore, gli volevo bene anch’io.”

“Prima o poi, accade a tutti di perdere le persone a cui si vuol bene. E spesso le ferite restano per anni …”

Bozsic la interruppe: “Non voglio intristire suo marito, vorrei solo raccontare come è successo, forse vorrà saperlo.”

“Può dirlo a me.”

“La prego, è importante, per me.”

“Come mai si trova in Italia?”

“Sono un semplice impiegato dell’Ambasciata, ma non so sino a quando resterò in servizio.”

“Richiami domani, cercherò di fissarle un appuntamento.”

Il giorno era appena iniziato e Bozsic non era ancora uscito per visitare la città. Aveva due mete da raggiungere, l’altare della patria e lo stadio olimpico. Non lo attiravano le antichità, per quanto famose, e neanche il Vaticano.

Non sapeva perché, ma voleva visitare l’altare della patria, sarebbe stato la prima meta.

Raggiunse Piazza Venezia a piedi. La costruzione monumentale gli sembrò brutta, eppure, misteriosamente, esercitava su di lui uno strano fascino, forse per il biancore delle pietre e dei marmi.

Aveva ancora tutto il pomeriggio a disposizione e prese un taxi per andare allo stadio olimpico. Lì tutto era diverso: in quello stadio aveva giocato una delle sue più belle partite, il diciassette maggio del 1953. I due gol di Ferenc, l’idolo e il maestro, erano stati costruiti con i suoi passaggi; aveva sempre pensato che quella partita era stata facile e allegra. Guardò lo stadio dal piazzale antistante, con pochi passanti in giro.

In quel momento fu preso da un’improvvisa consapevolezza: l’allegria era una sua illusione. In un attimo di lucidità seppe che quella squadra era triste, che le vittorie erano state ottenute in un tempo indecifrabile, in un buco nero della storia dello sport, forse oggi non le ricordava più nessuno.

Il campionato mondiale dell’anno precedente si era concluso con la vittoria della Germania: ancora loro, i tedeschi, i drogati. Adesso, da qualche anno, la sua Ungheria non si qualificava neanche per la fase finale.

Si sentì svuotato: pensò che i suoi ricordi erano solo sogni di un vecchio che costruiva storie di fantasia. Eppure, il desiderio di incontrare Sandor Màrai non era forse quello di un bambino?

Guardò ancora lo stadio e ricordò quel giorno del mese di maggio del cinquantatré. Un pomeriggio di sole, l’Aranycsapat in maglia bianca, la vittoria schiacciante. E poi, in novembre, ci sarebbe stata Wembley: una vittoria ancora più bella perché ottenuta contro i presuntuosi inglesi.

Smise di ricordare e sognare, era l’ora di tornare a casa.

Prima di dormire sentì che tanto più cresceva il desiderio di incontrare il vecchio scrittore, di pari aumentava la sensazione di velleità del suo proponimento, che cosa si aspettava da Màrai?

Cominciò a leggere un vecchio romanzo, L’eredità di Eszter, del 1939. Lesse in una delle prime pagine: “Non so che cosa mi riservi ancora il Signore. Ma prima di morire voglio narrare la storia del giorno in cui Lajos venne per l’ultima volta a trovarmi e mi spogliò di tutti i miei beni.”

Non sarebbe stato un nuovo Lajos, non voleva portar via nulla allo scrittore, solo dargli qualcosa: un ricordo, una nostalgia da condividere.

 Lui, un vecchio calciatore, poco avvezzo alla letteratura, cercava un ruolo diverso, uno sconosciuto alter da sé.  Riuscendo a parlare di ciò che confusamente aveva nell’anima, sperava di scoprire un mondo diverso che in gioventù gli era stato negato e, magari, sapere, attraverso le parole dello scrittore, chi sarebbe potuto diventare.

Sentì il peso, amaro e inevitabile, di aver avuto una sola vita, come quella che aveva vissuto Sándor Kòcsis. Il suo compagno di tante partite si era arreso davanti a questo vuoto: sarebbe stato così anche per lui?

Eppure, prima, avrebbe voluto immaginare come sarebbe stata la sua esistenza se gli fossero state offerte altre possibilità e se avesse avuto la sensibilità di capire e l’abilità di prenderle al volo.  Solo un grande scrittore come Màrai poteva trovare le parole per descrivere un immaginario e diverso destino: scoprire la possibile esistenza di un altro mondo che non aveva saputo scegliere lo avrebbe consolato delle occasioni mancate.

Allora sì, avrebbe recuperato quella specie di forza primordiale che ogni uomo potrebbe avere dentro di sé, ma che il caso, l’educazione e le circostanze, troppo spesso indecifrabili, finiscono per vanificare.

Sarebbe tornata alla sua memoria la sensazione di un’allegria indomabile che tanti avevano attribuita all’ Aranycsapat e che a lui sembrava, al momento, solo un’invenzione di estensori di cronache politiche e sportive.

Sarebbe stata la sua eredità e nessun Lajos gliela avrebbe portata via.

                                                                      V

Il giorno successivo il centralino dell’Ambasciata gli passò una telefonata.

“Signor Bozsic, una certa signora Lola Màrai chiede di parlare con lei. Devo passargliela?”

“Sì, la passi pure, immagino che ascolterete la conversazione.”

“ E’ la prassi, questa persona, dal nome, sembra ungherese e noi non sappiamo chi sia, dovremo ascoltare per capire.”

“Mi passi la comunicazione.”

“Parla Bozsic, signora Màrai.”

“Mio marito è d’accordo a riceverla domenica, abbiamo scelto quel giorno pensando che sarà più libero per venire sino a Salerno e tornare a Roma comodamente.”

“Grazie, sarò da voi nella tarda mattinata.”

Pensava che avrebbe avuto difficoltà col servizio di sicurezza dell’Ambasciata, ma nessuno face osservazioni o domande.

Alle dodici della domenica, Bozsic salì la scala esterna della villetta sulla collina.

Gli aprì la porta la signora Lola che lo accolse con una stretta di mano.

“Capirà che dobbiamo sempre avere un atteggiamento di ragionevole precauzione nell’incontrare chiunque, lei sa che mio marito è dovuto partire dall’Ungheria per motivi, diciamo così, politici, non ci giudichi semplicemente diffidenti o sospettosi.”

“La mia visita non ha nulla a che vedere con la politica, può stare tranquilla” rispose Bozsic con un accenno d’incertezza nella voce.

“Mio marito ha deciso di fidarsi, senza un motivo particolare, venga di là in salotto, l’aspetta.”

Boszik entrò mostrando un atteggiamento di istintiva deferenza; Màrai si alzò dalla poltrona. Seduto, sembrava molto vecchio, in piedi solo magro e severo.

Indossava una giacca grigia di lana e al collo aveva una cravatta a farfalla rossa con disegni stilizzati di piccoli quadratini gialli.

Guardò Bozsic con occhi freddi e, in qualche modo, indagatori, ma la stretta di mano fu ferma e cordiale.

Poi disse: “Suppongo che lei sia venuto a trovarmi per chiedermi qualcosa.”

Bozsic non trovò subito le parole per rispondere, si guardò intorno quasi per sottrarsi allo sguardo dello scrittore che continuò:

“Vedo che è incuriosito da questa stanza, lo so, può apparire come un museo in cui si conservano oggetti d’uso caratteristici di un tempo ormai tramontato.”

Bozsic ascoltava in silenzio, fissando un vaso di cristallo, spesso e pesante, e da cui s’innalzavano delle sterlizie, posto al centro di un tavolo.

Si fece coraggio: “Vorrei parlarle di un comune amico.”

“Si accomodi; non si faccia condizionare dal timore di deludermi, possiamo offrirle un aperitivo?”

Lola portò un vassoio con due bicchieri pieni di un liquido rosso velato da bollicine.

Bozsic lo prese e disse: “Prosit” prima di portarlo alle labbra.

“Sta cercando di rintracciare qualcuno?” chiese Màrai.

“No, vorrei parlarle di Sándor Kòcsis, lei ricorderà.”

“Non sono sicuro, mi spieghi meglio.”

“Era un giocatore della Honved e della nazionale.”

Màrai taceva e Bozsik continuò:

“Non lo incontrò in Svizzera dopo il cinquantasei?”

“Forse sì.”

“Le chiese un intervento presso le autorità di quel paese per avere un visto per la Spagna.”

“Sì, adesso ricordo.”

Lola entrava e usciva dalla stanza: “Resta a pranzo con noi?”

     “Non vorrei disturbare” rispose Bozsic.

“Ma no, che dice, Ci parlerà un po’ di lei, è molto che lavora all’ambasciata?”

Si accomodarono al tavolo da pranzo e Lola servì un piatto della cucina italiana.

“Perché voleva parlarmi?” chiese Màrai.

“Volevo solo dirle che Sándor Kòcsis si è ucciso a Barcellona.”

“Pensa che la cosa sia importante per me?”

“Non so, pensavo che Kòcsis fosse suo amico.”

“In qualche modo lo era.”

“Ma se era suo amico, la cosa dovrebbe darle del dolore.”

“Mi dà del dolore, è vero, ma preferirei non provare più sofferenze come queste, ne ho già provate tante.”

“Forse ho fatto male a venire qui.”

“Se è venuto per provocare qualche tormento, per far tornare alla coscienza fatti e persone che preferirei dimenticare, allora ha fatto male.”

“Lo metti in imbarazzo” osservò Lola.

“No, è l’ultima cosa che vorrei. È che la mia patria non esiste più, anche se, io credo, la patria sia qualcosa che non si può cambiare, si possono cambiare i documenti, poi si può partire, per la Svizzera, l’Italia, l’America. O anche ancora più lontano.”

Bozsic era rimasto in silenzio. Fu Lola a parlare:

“Più lontano dove?”

“Nel tempo. Allora, forse, si potrebbe parlare dell’amicizia, quello che il nostro Bozsic vorrebbe, non è così?”

Bozsic tacque, come in attesa di altre parole.

“È per questo che lei è venuto da Budapest a Roma e da Roma a Salerno, non per mettermi al corrente della morte di un giocatore di calcio. Io sapevo già della morte di Sandor Kòcsis e lei era cosciente che io non potevo non sapere, a rifletterci è così, non crede?”

“Sì” ammise Bozsic.

E Màrai continuò: “Dunque, lei pensa, anche in modo confuso, che io possa essere in grado di dare un senso a qualcosa che, probabilmente, lei percepisce come una dannazione del vivere. Perché ha scelto proprio me?”   

“Molti anni fa, a Budapest, avevo letto un suo romanzo, Le braci. Onestamente non lo ricordo bene adesso, però mi è rimasta l’idea che parlasse dell’amicizia, è questo che mi ha spinto.”

“Un sentimento, da quanto capisco, di cui lei sente adesso la mancanza.”

“E’ vero, è così.”

“In qualche modo, lei vuole usarmi. La notizia della morte del suo compagno di squadra è solo un pretesto, un grimaldello per scardinare le mie difese contro una sorta di invasione nei miei pensieri più intimi e riservati. Lei ha bisogno di essere confortato da un sentimento di amicizia che la protegga, un sentimento che non riesce più a trovare nel mondo in cui vive. Se non avessi paura di pronunciare delle parole che fanno parte dei più banali tra i luoghi comuni, direi che sta cercando un padre!”

“Stai aggredendo un ospite con una maleducazione che non ti conosco” intervenne Lola.

“No, suo marito sta illuminando una parte di me, mi fa comprendere cose che, in fondo, erano nascoste nella mia coscienza” disse Bozsic, che continuò rivolto a Màrai: “Però lei non deve pensare che volevo usarla, questa è una brutta parola, una brutta cosa che non era nelle mie intenzioni.”

“Lo so, e mi scuso per aver frainteso la sua buona fede. È che, certe volte, arriva il momento in cui non si sa più cosa ci succede, né cosa stia avvenendo intorno a noi, allora ci si può sentire perduti: in quei momenti c’è chi ammazza qualcuno, altri si uccidono.”

Bozsic ascoltava in silenzio, cercando di mangiare per non mettere in imbarazzo i suoi ospiti.

Màrai riprese a parlare, guardando nel vuoto, e come se non avesse più avuto interlocutori: “È una ben strana coincidenza, la sofferenza che lo ha spinto a venire qui e il fatto che io stia rivedendo il mio romanzo Le braci per prepararlo all’edizione italiana. Sarà il mio ultimo lavoro: sono vecchio ormai e, casualmente o forse no, il romanzo parla proprio dell’amicizia, esattamente come lei ricorda.”

“E sarà pubblicato presto, in Italia?” Chiese Bozsic.

“Non so, se può farle piacere, le dico che la sua visita e gli argomenti che, incredibilmente, ci stanno guidando nel parlare, sono importanti e renderanno più facile la pubblicazione. In fondo, lei era venuto qui affinchè il peso delle sue pene svanisse e, invece, accadrà che sarò io a chiarirmi a me stesso.”

“Dice questo per consolarmi!”

Lola portò in tavola un vassoio pieno di fragole al vino e delle ciotole di cristallo in cui servirle.

Bozsic, improvvisamente, si rese conto che era ben accetto, che la sensazione di rifiuto iniziale che aveva sentito negli atteggiamenti e nelle parole dello scrittore non aveva più ragion d’essere. Si sentiva lusingato dall’ultima frase di Màrai.

“Lei, Bozsic, ha mai riflettuto a fondo su cosa sia l’amicizia?”

“No, credo solo di essere stato amico di qualcuno e che questo qualcuno, a volte, mi ricambiava con la sua amicizia, certo non sempre è stato così.”

“Allora, può comprendere che al mondo esistono anche altre cose oltre all’egoismo e alla passione, soprattutto oltre alla vanità, l’amicizia è una di queste. Pensa che con i suoi compagni di squadra abbia vissuto questi sentimenti?”

“Penso di sì e, oggi, mi piace ricordare.”

“Con tutti i suoi compagni?”

“No, è vero, non con tutti, qualcuno mi giudicava chiuso e scostante.”

“Accade sempre, eppure, si può riuscire a scoprire qual è la verità, quella verità che, troppo spesso, è occultata dai ruoli e dalle circostanze della vita: bisogna essere onesti con se stessi prima che con gli altri.”

“Mi chiedo se Kòcsis avesse mai riflettuto e avesse avuto coscienza di tutto questo.”

“Non potremo saperlo,” osservò Màrai, sorridendo per la prima volta da quando avevano cominciato a parlare.

E aggiunse: “Mi rendo conto che il mio atteggiamento iniziale le abbia provocato una sgradevole sensazione di rifiuto, adesso l’avrà superata e, magari, si sentirà stanco.”

“No, non sono affatto stanco.”

“Può accadere a tutti di avere l’inattesa coscienza di aver trascorso una vita intera preparandosi a qualcosa e, quando meno la si aspetta, questa improvvisamente si avvera.”

Il giorno s’inoltrava nel pomeriggio e una leggera brezza estiva faceva ondeggiare le tende delle finestre che si affacciavano sul declivio della collina.

A Bozsic sembrava di non aver più nulla da dire e allora, quasi a spezzare un silenzio che lentamente si insinuava tra loro, Màrai continuò:

“Mi dica la verità, nella necessità di dare un senso alla sua vita e di dimenticare le sue delusioni, voleva raccontarmi una storia triste, evocante gioie e dolori, per elemosinare la consolazione che può dare un padre o un maestro generoso. Sperava di addolcire il mio carattere burbero con le parole, usandole come fece Orfeo con la musica per ammansire le belve; ma io non sono una belva, sono solo un vecchio che ha la fortuna di saper scrivere e usa la scrittura per riflettere su di sé e sugli altri uomini.”

“Più che altro, mi rendo conto che volevo qualcuno che mi aiutasse a capire.”

“Il suo passato?”

“Sì, anche il mio passato.”

“Lei preferirebbe che tutto fosse come in passato?”

“A volte mi piacerebbe, ma poi mi rendo conto che è solo una sciocchezza.”

“Subiamo il fascino di fatti trascorsi che, in realtà, non sono affatto come li ricordiamo, i fatti non sono la verità: ne rappresentano solo una parte.”

“Una parte che è reale!” disse Bozsic di getto.

“Ammetto; a questo mondo c’è sempre qualcosa in comune tra tutte le cose.”

“E’ questa la sua lezione? Quella che, senza saperlo, cercavo?”

“No, lei è venuto da me non per acquisire una diversa coscienza di sé, è venuto per uccidere qualcosa che da qualche anno le alligna nel cuore e nella mente e, per far questo, cercava un padre, un maestro, certo, ma anche un boia.”

“Un boia? Ma per uccidere chi?” chiese Bozsic stupìto.

“Forse la rassegnazione, la voglia di piangere sulla sua noia, sulla sua inadeguatezza, sulle sue delusioni: non sarò io l’assassino. Lei ha nel cuore il senso dell’amicizia, la mia esortazione è di usarla come fine, non come mezzo per arrivare ad altro.”

“Credo di capire, adesso.”

“No, lo ha sempre saputo, lei si è rivolto a una persona cui attribuiva qualità senza averne certezza, una persona che poteva essere indifferentemente buona o cattiva, senza che l’intensità di questi sentimenti dipendessero dalle sue azioni o dai suoi intendimenti.”

                                                            VI

        Josef Bozsic prese un treno della notte per tornare a Roma. Avrebbe voluto essere contento e soddisfatto del suo incontro, eppure un senso di incompiutezza affiorava lentamente nei suoi pensieri. Forse, Sandor Màrai aveva avuto da lui più di quanto lo scrittore gli avesse dato a sua volta. Non era riuscito a parlare di Kòcsis, aveva solo ascoltato una lezione sull’amicizia.

E sentì che l’amarezza, accompagnata da un sentimento di delusione, gli cresceva dentro, sino a trasformarsi in rabbia.

Màrai non aveva mostrato il minimo interesse per il suo desiderio di raccontare una storia, per il suo viaggio così pieno di difficoltà e per i suoi sentimenti. Tutto si era dissolto in belle parole, scivolose e troppo letterarie per lui.

Si sentì preso in giro, anche se il rispetto che provava per Sandor Màrai gli impediva ogni rancore. Si sentì colpevole, inadeguato, velleitario: come aveva potuto pretendere, da parte di un grande scrittore, una partecipazione alle sue nostalgie!

Sospettò che Màrai aveva solo voluto sondare il terreno per capire se lui, Bozsik, fosse una spia, un inviato dell’Ambasciata o di qualche apparato dello stato magiaro che voleva semplicemente fare dei controlli politici.

Eppure, riflettendo durante il viaggio, non tardò a rendersi conto di essere ingiusto nei giudizi e scacciò quei pensieri; le cose potevano essere diverse: l’interpretazione dei fatti era, evidentemente, molto più difficile di quanto poteva sembrare.

Ripensò ad alcune delle parole che Màrai gli aveva detto: “I fatti non sono la verità: ne rappresentano solo una parte.”

Erano state pronunciate in un diverso contesto, ma come non riuscire a capire o giudicare?

Allora, ebbe lucida la coscienza che, durante l’incontro, si erano rivelate la fragilità e la mancanza di chiarezza interiore che avevano accompagnato confusamente il bisogno di parlare di sé. In qualche modo, quanto di latente era celato nei suoi desideri si era compiuto: aveva ringraziato il vecchio scrittore per l’aiuto dato a Kocsis all’epoca della sua fuga in Spagna.

Màrai, da parte sua, gli aveva fatto comprendere il valore dell’amicizia al di là di ogni possibile e superficiale cameratismo; quel viaggio era stato fatto per conto di un morto che, indirettamente e in nome di quel valore, aveva onorato il dovere di ringraziare.

Dunque, gli era stato lanciato un messaggio; a lui, al povero Bozsik, così lontano dalla cultura del vecchio scrittore: “L’uomo non può accontentarsi dell’acquiescenza al semplice vivere, ma dovrebbe conoscere di più per accettarsi e per accettare il proprio destino.”

Si chiese se era questo il significato ultimo che avrebbe dovuto comprendere, ma si rese conto che non avrebbe trovato dentro di sé le parole a cui affidare una risposta.

L’immagine di copertina è L’amicizia di Pablo Picasso