Nato a Como, di origine salentina, Alessandro Vergari vive da diversi anni a Bari dopo essersi laureato in Filosofia all'Università Statale di Milano, con una tesi sul rapporto tra guerra e giustizia. Una geografia complicata? Forse. Alessandro scrive recensioni e articoli su diversi blog. Cinema, letteratura, musica e cucina (in qualità di consumatore finale) le sue principali passioni. Ama il sole e il mare. Sulla politica attualmente non si pronuncia. "Ho dato abbastanza", queste le sue dichiarazioni in materia.

Lea e Rivka, due bambine, un solo ricordo che tenta una fuga.

“Nella geografia e nella storia d’Europa questo sterminio di massa è sempre presente” (George Bensoussan, Storia della Shoah).

Immaginiamo due bambine ebree di sei anni, Lea e Rivka, una triestina, nata da genitori laici, l’altra polacca, cresciuta nella mistica gioiosa della tradizione chassidica. Due bambine con i loro giochi, risate, emozioni, sulla faccia nuda della terra. Poi, la bufera. La guerra bussa, la guerra scalpita, e con essa irrompe l’annichilimento programmatico delle minoranze, dei non puri. La violenza antisemita si abbatte su Lea e su Rivka. Due, eppure una sola.

Millenovecentrentotto, settembre diciotto, Benito Mussolini parla “dal municipal balcone” nel cuore nobile di Trieste e davanti a centomila persone “scaglia / all’ebreo un sasso / ne nasce una slavina”. Il processo politico e ideologico, anticipato e teorizzato nel “Manifesto della razza” soltanto un paio di mesi prima, diviene attuale, armato di banal burocrazia, equipaggiato di timbri e sanzioni. Salto temporale. Millenovecentoquaranta, il ghetto di Lublino esercita già segregazione e apparecchia le pratiche della soluzione finale. Due bambine, e un’epoca della Storia, di infinita, non-finita, crudeltà. Due bambine unite da destini convergenti, in transito, tappa obbligata via del Monte, sede di una scuola ebraica, rifugio in attesa di una ripartenza (per dove?). Due, eppure una e una sola bambina, una qualunque.

Matteo Moder, poeta nell’animo prima che nella parola scritta, ci regala questo diario di viaggio, due sguardi che riflettono il mondo vasto e terribile, due volti che si specchiano, due occhi per due, alla ricerca un accordo musicale dissonante, una fenomenologia della tragedia, esperita nelle carni dell’innocenza e dissolta nella fiamma mistica dell’Uno. Lea e Rivka, due sorelle non di sangue, legate dalla forza bruta degli avvenimenti, accomunate dalla permanenza sui medesimi banchi, sebbene in momenti diversi. “Un frullare di voci nella classe / Lea ha i calzini bianchi / persi nelle scarpe basse” (1938)… “Rivka è / una bimba-valigia / ha il ritmo del treno” (1940).

Moder poggia lo sguardo sui passi incerti, incantati delle bambine, sulla loro meraviglia, sulla follia che le azzanna dall’esterno, isolando le visioni, il flusso di coscienza, i ricordi e le domande emerse, spontaneamente, sul perché degli eventi, sul cosa stia accadendo, qui e ora. Il male produce stupore. Se le risposte degli adulti appassiscono in certezze, i punti interrogativi del poeta Moder fioriscono nel vasto campo del dolore universale. Ecco l’Assurdo del Novecento, incastonato in intuizioni, in respiri amari e cristallini. Ecco la pluralità della cultura, della sapienza, depauperata dall’orrore. Una piccola ebrea qualunque si dipana in poesie che attraversano il fare, il dire, lo stare: comandi, punizioni, movimenti, tradimenti, pensieri, nostalgie, gesti amichevoli e ostili, in sintesi capitoli di vita. È un precipitare rapido, da una stasi di ombre mobili, verso il buio. “Ebrea le grida / l’amica Maria / una spinta veloce e via / giù dall’altalena”… “Come sei qui a Trieste come? / sarà per la stella / che non sai di portare?” Sono poesie leggere come piume, strappate e agitate nell’aria da un vento impetuoso. Il libro è pubblicato dalla casa editrice Battello Stampatore, sensibile al discorso storico, sempre battagliera e indomita nel segnalare l’importanza della memoria. Grafica e caratteri sono quelli di un quaderno di scuola, una scelta che accentua l’intimità della lettura.

Molto intensa fu la “pulizia razziale” nella zona d’operazione del Litorale Adriatico, istituita da Adolf Hitler con un’ordinanza all’indomani dell’8 Settembre. Come è noto, già a partire dall’immediato primo dopoguerra la Venezia Giulia era stata interessata  da un processo di ‘snazionalizzazione’, ovvero di epurazione delle minoranze slovene e croate da tutte le istituzioni pubbliche. Le scuole furono italianizzate, i cognomi ‘normalizzati’, gli insegnanti ‘stranieri’ pensionati in anticipo o allontanati dal territorio, le associazioni politiche e i circoli culturali soppressi. L’uso dello sloveno venne proibito. Oltre cinquecento tra sloveni e croati affrontarono un processo davanti al Tribunale speciale per la difesa dello Stato. Nel settembre 1943, con l’occupazione nazista, l’ebreo, lo slavo e il bolscevico furono innalzati a nemici da sterminare simultaneamente, in linea con il progetto della Nuova Europa, arianizzata e dominata dalla superiore stirpe germanica. Odilo Globocnik, responsabile dell’apparato di polizia e sicurezza del Litorale Adriatico, direttamente nominato da Heinrich Himmler, si distinse per durissime azioni repressive, nell’intera Zona, ribattezzata nel novembre dello stesso anno Bandenkampfgebiet, ‘territorio di lotta alle bande’, decisione che comportava una sostanziale equiparazione tra popolazione civile e partigiani. I rastrellamenti si intensificarono. Su ottomila deportati, circa millecinquecento erano ebrei, settecento dalla sola comunità di Trieste. Di questi, ne tornarono indietro, a guerra finita, solo trentanove… La città giuliana ospita l’unico lager italiano, la Risiera di San Sabba, monumento nazionale dal 1965.

“Nella vecchia fabbrica per la pilatura del riso, costruita nel 1913 alla periferia di Trieste, in località San Sabba, nel 1943 s’insediarono i nazisti. All’interno delle mura della ex fabbica si trova un complesso di edifici, una piccola città, quasi del tutto conservata da un punto di vista architettonico, sicché ai tedeschi bastano piccoli interventi per trasformare questi edifici in una prigione, in un lager, nel cosiddetto ‘lager di transito’ dal quale i reclusi dapprima partono per lunghi viaggi in treno fino a Auschwitz e a Dachau, poi per tragitti più brevi, in modo veloce e efficace, dalle proprie celle al forno crematorio, a nemmeno dieci metri di distanza. Circa centocinquanta persone, italiani, sloveni, croati, ebrei, rom, partigiani, bambini, omosessuali – l’età non conta, la Polizia e le truppe delle SS non vanno troppo per il sottile, fanno passare chiunque sia a portata di mano -, circa centocinquanta persone al giorno dunque scompaiono nel forno nuovo di zecca. […] Tra le tre e le cinquemila anime sono state soppresse secondo regole prefissate, ordinatamente…” (Daša Drndić, Trieste. Un romanzo documentario, Bompiani, 2015).

Una piccola ebrea qualunque affonda le radici nel grumo insanguinato di queste vicende storiche, al centro di tentativi di riscrittura, se non di spudorata rimozione, da almeno una trentina d’anni. I versi di Moder puntano a esplorare, con la consueta leggiadria profonda che lo contraddistingue e con la malinconia amara del suo verbo poetico, il tema della fragilità umana al cospetto del nichilismo estremo dell’ideologia di morte incarnata dal nazifascismo. “Lea persa nella luna piena / marea che scende che sale / memoria d’acqua / attrazione universale”… “Lo scudo di davide al collo / non azzurro cucito alla giacchetta / Rivka si perde per trieste / accarezzando la berretta / che il nonno rebbe / le ficcò in testa alla stazione”.

Elias Canetti, insuperato osservatore del fenomeno delle “masse” nella modernità, descrisse il processo di trasformazione della “muta da caccia”, da orda spinta dal bisogno di cibo, nella remotissima preistoria, a massa aizzata, nella nostra epoca “civilizzata”: molte persone scagliate contro poche o al collo di una sola (linciaggio, pogrom…) Lea e Rivka, nel loro peregrinare accorto, nel timido accostarsi agli eventi della giornata da dietro i vetri opachi di una casa, devono schivare la famelica voracità dei branchi organizzati e tecnicamente avanzati. “Dalla finestra aperta / un ballabile di angelini / swingato dall’orchestra / alla radio dei vicini / agli ebrei l’etere non è concesso / sono nemici / sono stranieri / hanno solo il permesso / di essere meno di zero”. Il corpo dell’ebreo, la sua mera presenza, anche fantasticata, è l’eccezione su cui poggia l’intero impianto del potere sovrano, l’asse del crimine sublimato in legge. “any la jodea / io non so / direbbe Lea / se si sentisse pienamente ebrea”. Il fascismo necessita di un nemico pienamente formato, identificato, connotato, semplificato, scevro da sfumature di significato. Non lo sai, Lea?

humt mamele humt / vieni mamma vieni / con il tuo calore polacco di neve / a calmare / il dolore di Rivka / ebrea troppo piccola / per il secolo breve”. Matteo Moder plasma il messaggio attingendo a una ricca placenta di parole, combinando italiano ed ebraico, prima e terza persona, invocazioni e lamenti, evocazioni di un recente passato familiare, quasi mitico, e registrazioni fedeli del duro presente. Se l’antifascismo è prassi aperta, non conclusa, di libertà espressiva, culturale, civile, allora l’opzione di mescolare le grammatiche, gli idiomi, gli accenti non è forse l’atto politico antifascista per eccellenza? Nell’esaltazione della lingua pura il nazionalismo coltiva le sue ossessioni. Puntuale è, ad esempio, la disamina di Martin Pollack sulle dispute linguistiche, esplose tra sloveni e tedeschi nella Bassa Stiria di fine Ottocento, nel recente Il morto nel bunker (Keller, 2018), tensioni individuate come prologo dei massacri futuri.

“lamah imma / perché mamma perchè / mi hai gettata in questa mancanza di senso / di esseri cose / recise rose carminio / da uomini allo sterminio comandati / Lea sta con i non nati”. Ritmi, rime, assonanze sprigionano mondi, e cullano idee, sensazioni, rimembranze: la freschezza dell’autore sta in questa rigenerazione incessante della scrittura, nel suo essere ballata di sale e di vento, di mare e di tempesta, di felicità e, purtroppo, di maledizione. L’osceno, incontrollabile, absolutus Leviatano apre le fauci, oscurando (ah, Paul Celan…)il cielo di antichissime stirpi, l’orizzonte di interi popoli. È una realtà impossibile da pronunciare, un accadere che sbriciola tutti i nomi. “goles esilio non fare rumore / Rivka dorme / dalla parte del cuore / immersa nel profumo / di buccia di mandarino”…. “Lea si abbraccia / non sa i milioni / che non saranno storia / Lea ebrea / scheggia vita / memoria”.

Il prossimo 5 maggio, alla Risiera di San Sabba, ore 10,30, Una piccola ebrea qualunque lievita, si espande, per tramutarsi in spettacolo (imperdibile!), con il patrocinio del Museo Ebraico. Matteo Moder, coadiuvato dalla fedelissima Nina e dalla altrettanto fedele band, sarà accompagnato da due ragazzine della comunità ebraica, che presteranno per l’occasione la voce a Lea e a Rivka, da un amico attore e da un’amica attrice, Lorenzo Zuffi e Sara Galiza. Uno leggerà “fascisticamente” i provvedimenti per la difesa della razza italiana (prima gli italiani?), l’altra pronuncerà i numeri del passaggio degli ebrei da Trieste verso la Palestina tra il 1920 e il 1943, un esodo reso possibile grazie agli sforzi congiunti dell’agenzia ebraica locale, del Lloyd e di numerosi privati, silenziosi eroi. E poi la ninna nanna scritta da Ilse Weber, le poesie scritte dai bambini reclusi a Terezin, il suono del violino e molto altro ancora… e ancora…

(Matteo Moder, Una piccola ebrea qualunque, Battello Stampatore, 2019)

Una piccola ebrea qualunque Book Cover Una piccola ebrea qualunque
Matteo Moder
Poesia
Battello Stampatore
2019
96 p., Brossura