Anita Mancia, nata a Roma, ha lavorato 20 anni presso l'Istituto Storico della Compagnia di Gesù come assistente bibliotecaria ed Archivista. Ha collaborato con la rivista storica dell'Istituto con articoli sulla Ratio Studiorum, la pedagogia dei gesuiti, i gesuiti presi prigionieri dai pirati e recensioni. Presso l'editore Campanotto di Udine nel 2007 ha pubblicato un volumetto di poesie.

“… La forza che fa crescere la vita è l’abnegazione. E una vita che non è sacrificio nel suo nucleo più profondo è arrogante e sacrilega e conduce alla morte.” Gunnar Gunnarsson, Il Pastore d’Islanda.
Chi scrive aveva tredici anni al tempo della guerra del Vietnam e ricorda le immagini televisive delle bombe americane sganciate sul Paese e, in particolare, la foto di una bambina che scappava dalla morte in un villaggio. Foto destinata a diventare famosa, a quei tempi. Ricordo, inoltre, la gioia e il senso di liberazione provati a vedere sul giornale le foto dei soldati americani che ammainando le loro bandiere lasciavano il Vietnam del Sud nel 1975. La guerra del Vietnam ha accompagnato quasi giornalmente tutta la mia adolescenza fino all’università. Poi il Vietnam è progressivamente sparito, ma sempre, in un angolo della mia coscienza sono rimaste due domande: come ha fatto a sopravvivere il popolo vietnamita a quella guerra? Come sta il Vietnam (quest’ultima domanda alla vista di immagini di agenzie di viaggio proponenti viaggi turistici in quella terra)? A mio parere il viaggio di Stefano Calzati risponde a queste due domande, anche se non è un libro di storia o di economia, non contiene percentuali, nè numeri.  Il suo scopo è, come scrive Stefano nel preambolo: “Non si tratta tanto di conoscere e scrivere, ma di vivere e restituire un sentimento”. Ecco ciò che fa l’autore, restituisce un sentimento. E lo fa molto bene, con una lingua precisa, elegante, un vocabolario scelto. Ma scrivere bene non è altresì il fine di Stefano. Contano molto di più i fremiti, “il corpo, il senso oltre il significato. Ecco allora, che in queste pagine compaiono anche l’inglese -lingua internazionale par excellence -e il francese – the old colonial language – oltre ad alcune incursioni nel vietnamita; tutte forme linguistiche implicate nella disarmonia del viaggio, le quali, se da un lato si sottraggono all’omogeneità della prosa, dall’altro riaffermano l’inevitabile distorsione di cui l’incontro con l’Altro si sostanzia”. L’irruzione soprattutto dell’inglese nel testo e nel senso (si veda a questo riguardo la robustissima presenza del verbo to realize, coniugato in italiano com realizzare, ho realizzato, realizzo, specialmente al presente) è inevitabile alla ricerca di ciò che questo libro è: incontri con gli altri, vietnamiti, russi, americani, italiani. Le conseguenze sulla scrittura sono evidenti: “… E la scrittura si sbriglia, gradualmente, dalle corde del reale per diventare sinuosa, liquida, sismografo delle vibrazioni dell’animo.” Si sarebbe tentati di dire che con una scrittura così vibrante, che enuncia se stessa come sismografo delle vibrazioni dell’animo, è inevitabile l’inserimento dell’inglese e del francese negli incontri con l’Altro – e ce ne sono di belli e pulitissimi, specie quello con la dolce Cham, ma non solo lei – un inserimento necessario, tale che il lettore si domanda se le cose dette in inglese o in francese avrebbero potuto essere dette in italiano ugualmente. Dati i presupposti temo che la risposta sia no. L’inglese e il francese prorompono necessari dal sentimento dell’autore, dal suo cuore che vibra in quelle lingue. Il viaggio di Stefano comincia con una sua logica: si dipana da Ho- Chi Minh-City, un tempo Saigon, e procede a Mui Ne, a Nha Trang, ancora nel sud, fino a salire a Hoi An, a Hué, per arrivare alla zona demilitarizzata e proseguire fino ad Hanoi ed alla baia di Halong. L’ultima città è appunto la capitale Hanoi, per un totale di 1600 chilometri. Il mezzo non prescelto – l’autore dopo la prima dura esperienza del viaggio da Nha Trang a Hoi An avrebbe preferito il treno, ma non ha potuto perchè i treni erano tutti prenotati con largo anticipo – ma obbligato, il pulmann, altrimenti detto il bus, farà una esperienza più accettabile da Hué ad Hanoi. In realtà il pulmann mette chi viaggia a contatto con la gente del luogo ma è spossante. Basta leggere quello che Stefano scrive a pagina 107: “A bordo di un bus di linea in condizioni decisamente opinabili, lascio Ho Chi Minh City quando il torrido del mattino ha già infestato la città. Il viaggio verso Mui Ne… non è scevro di disagio soprattutto perchè seduto nel back del bus, ogni irregolarità dell’asfalto si ripercuote lungo tutta la schiena, provocandomi un crescente irrigidimento di muscoli e di articolazioni. Cham (la sua guida a Cu Chi)… mi aveva avvertito: attraversare il paese su gomma – siano le gomme di una bici, di uno scooter, di un’auto, o di un bus- è un’esperienza fertile di astonishment. Proprio così aveva detto: astonishment: Sbigottimento”. Se è un percorso breve, passi (forse), ma se è un percorso lungo come da Nha Trang ad Hoi An Stefano passa una prova psicologica. Le condizioni dei viaggi in bus producono un irrigidimento alla colonna vertebrale di  Stefano che, giunto ad Hué deve ricorrere alle cure di un chiroprata. Abbastanza esilarante il modo per far intendere ciò che desidera all’albergatore: non si tratta di un massaggio per fare sesso, ma di un massaggio terapeutico, che comunque avrà buon esito, rimettendolo in sesto. Ma torno alle due domande essenziali, almeno per me, da dove era partita la ricerca: come sta il Vietnam? Come è potuto sopravvivere e come ha potuto continuare a vivere dopo la guerra? A pagina 53 trovo una prima risposta nel tempo di una descrizione della vita a Ho-Chi-Min city:“… Eppure mi affascina questo sereno prodigarsi che è loro proprio, giacchè è scevro di autocommiserazione, o di qualsivoglia impeto pietistico. Il sorriso, in effetti, non manca mai“. Il sorriso è una chiave per comprendere l’atteggiamento vietnamita verso il mondo, assieme al buddismo. Dà levità alla vita, alle pagine di Stefano (non a quelle sugli autobus di linea!), soprattutto a quelle su Cham. Ma il sorriso non è una modalità edulcorata in cui leggere il tempo del Vietnam. Il tempo è letto in una dimensione più autentica e più profonda:“I giorni qui parranno forse tutti uguali, ma il tempo non è mai neutrale nel suo inapparente incedere: si carica di detriti e ne abbandona altri, plasma indolenze e virtù, contagia, svilisce, rigenera. E allora la verità è che il presente non è che una dimensione temporale atomizzata, appena reale. Fino alla prossima guerra” .  Significativo della riscossa vietnamita e della liberazione dall’occupante nel 1975 è il museo della Riunificazione, che Stefano guarda però con disincanto: “E tuttavia, nonostante esso simboleggi, ora, la fraterna riscossa del paese e del suo popolo, non può in egual misura, celebrare la fine dell’influenza imperialista: se è pur vero, infatti, che dopo il 1975 le truppe statunitensi abbandonarono il sud del Vietnam, è altrettanto vero che dal 1991 i capitali si sono riappropriati, metro dopo metro, città dopo città, del paese tutto, attraverso una coatta e pervicace inseminazione di beni, bisogni e fabbisogni del tutto voluttuari. È con questo amaro pensiero, dunque, che mi accingo a pagare i quindicimila dong d’ingresso“. Qui la riflessione si fa storia e cita due date significative della storia del Vietnam: la fine dell’occupazione del sud (1975) e il ritorno dei capitali e del capitalismo consumistico (1991) per poi ritornare alla dimensione sua del viaggio in atto. Ho scritto che questo è un libro di incontri, di viaggio e perciò di incontri, di apertura agli altri. Non posso descriverli tutti, ovviamente, ma ne segnalo due che certo colpiranno il lettore: quello con la guida Cham che accompagna Stefano a Cu Chi, ovvero ai cunicoli della resistenza vietnamita agli occupanti , e al delta del Mekong e che ritroviamo alla fine del libro ad Hanoi, quasi per caso o per destino, per chiudere il libro con un ritorno e la vita in Vietnam con un esito circolare, arricchito dall’amore, amor vincit omnia. Altro incontro molto bello è quello con Chien, che accompagna Stefano alla Sorgente delle Fate e alle Dune a Mui Ne. Chien propone di accompagnare Stefano alla sorgente a condizione che lui lo aiuti a portare dei barili contenenti acciughe essiccate e seppie che saranno trasformate in una speziata salsa di pesce. La mescolanza, nel discorso dei pronomi tu, io, noi, soprattutto il noi, intriga Stefano che accetta la proposta fatta onestamente senza chiedere nulla in cambio. Il Vietnam socialista non è solo “capitalista”, contiene anche una diversa sostanza di gente che vive secondo ritmi locali:“… un mondo insomma, animato da persone la cui prodigalità immacolata non domanda nulla indietro, ma chiede, quello sì, di essere rispettata. In fondo, si tratta solo di un approccio differente alla vita” . Anche questo è il Vietnam.Il libro termina e si richiude su Hanoi. C’è il ritorno di Cham ad Hanoi per la festa del Tet, capodanno vietnamita. Cham fa tante domande a Stefano. E a quella, perchè sei venuto in Vietnam, risponde: per te. Non è una scappatoia a una risposta razionale, ma la verità del sentimento e del libro. Cham come corpo, sintesi viva e sorridente del Vietnam. Arrivederci a Stefano aspettando altre prove di qualità come questa. Non ho fatto critiche negative al libro, un tutto compatto senza foto, a parte la delicata copertina. C’erano due refusi tipografici. E forse sì una critica. Io sarei partita da Hanoi due giorni dopo la festa del Tet, per decantare le emozioni. Ma questa è un’altra storia.

In Vietnam. Digressioni di viaggio Book Cover In Vietnam. Digressioni di viaggio
Stefano Calzati. Prefazione di Simona Cigliana
Reportage di viaggio
Prospero Editore
208
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