Nata a Milano nel 1966, dopo studi di filologia classica all'Università degli Studi di Pavia comincia a lavorare in libreria. Fa la libraia per 26 anni. Ha collaborato con case editrici quali Astoria, come lettrice dall'inglese e dal francese e per Giunti per cui ha scritto una guida on line sulle città europee. Ha collaborato con articoli e recensioni al blog SulRomanzo e al blog di approfondimento culturale Zona di Disagio. Suoi articoli sono apparsi sul sito della società di formazione Palestra della Scrittura. Ha curato blog di carattere economico e, per anni, ha lavorato come web content writer. E' autrice di due libri: Guida sentimentale alla Tuscia viterbese, una serie di brevi reportage di narrazione dei territori e Mors tua vita mea, un libro di racconti pubblicato da I Quaderni del Bardo Edizioni. Un suo racconto è pubblicato all'interno del libro Milanesi per sempre, Edizioni della Sera. Dirige la rivista L'Ottavo

Mentre in molti aspettano l’uscita de La ferrovia sotterranea di Colson Whitehead, noi abbiamo riletto il suo Il colosso di New York, un libro assoluto. New York, soggetto usato e abusato da tante storie, letterarie e cinematografiche, acquista qui un sapore tanto inedito quanto potente. Sono tredici istantanee, tredici fotografie letterarie in cui la città viene raccontata come fosse un organismo vivente, in sintonia discorde con le vite di chi la abita, di chi la percorre, di chi la vede per la prima volta.
Il libro ha, forse anche per la sua ritmica sincopata, una struttura molto più complessa di quanto possa apparire ad una prima lettura. Un insieme di suggestioni letterarie, filmiche e musicali che sono la cifra della scrittura di Whitehead ma anche della stessa New York. Ciò che più appare interessante di questo libro è come lo scrittore più che raccontare storie sembri, molto di più, sbatterci in faccia prospettive e insoliti angoli di ripresa.
New York non può essere raccontata in maniera oggettiva, neanche dall’alto. Bisogna sporcarcisi. E questa modalità di racconto si fa stile di scrittura. Come rappresentarla? Non si può. Ognuno se la porta addosso e se la costruisce e ricostruisce da sé.
Non importa da quanto ci abiti, sei newyorkese la prima volta che dici: Là c’era Munsey’s, oppure: Lì una volta c’era Tic Toc Lounge. E prima che si insediasse l’internet cafè, qui ti facevi risuolare le scarpe dal ciabattino. Sei newyorkese quando quello che c’era prima diventa più concreto e reale di quello che c’è adesso.” Già questo frammento, proprio alla prima pagina del libro, sembra dare una chiave di lettura di questo Il colosso di New York. Perché mette in campo, da subito, la potenza di una scrittura che dice come tra un luogo e chi lo racconta ci sia una sorta di reciproca conoscenza. La città che era prima è più concreta di quella che è ora, come spesso accade di considerare i noi stessi di prima più reali di quelli di ora. A ciascuno la sua New York, tanto che, qualche pagina dopo, Whitehead scrive: “Ci sono otto milioni di nude città in questa nuda città…si scontrano, battibeccano. La New York in cui vivi tu non è la mia, come potrebbe esserlo?”
Un libro, questo, che propone un altro modo di fare “letteratura odeporica”, cioè letteratura di viaggio. Con uno sguardo quasi da guida sacra che ci accompagna, più che nei luoghi della città, nei suoi misteri, nelle sue follie, nelle sue fughe che sono i misteri, le follie e le fughe delle persone. New York come simbolo dunque, quasi in un viaggio dantesco in cui il Virgilio della situazione è l’anima di ciascuno, le sue ferite e le sue aspettative. E anche un viaggio in autobus diventa metafora: “Indipendentemente dalla città di partenza e dai motivi che li hanno spinti a infilare le banconote nello sportello della biglietteria, sull’autobus sono tutti uguali.”
Un testo che, per la verità, appare metaforico in ogni pagina. E quale città, più di New York è metafora? Metafora del mondo intero. Anche con i suoi sotterranei, fisici ed esistenziali, così ben resi da parole taglienti come quelle dedicate alla metropolitana della città: “Ecco il favoleggiato viaggio sotterraneo, gente, e andrà parecchio peggio, prima di andare meglio. Sul binario del vicino, quello di fronte, l’erba è più verde […]. La metropolitana non solo come luogo di viaggio ma, soprattutto come luogo dell’attesa e dei bilanci, di una giornata o di una vita intera: “Su quale carrozza salirai. Fai la tua scelta.” E pare di ascoltare un monito che va ben oltre la scelta della carrozza.
Come ben più che racconto sono le pagine dedicate a Broadway, con alcune righe che arrivano come una frustata tra le scapole: “Camminare. Mani in tasca o mani che remano tra le onde. Non importa. Niente sfoggi di furbizia. Soltanto gli stronzi cercano di fare il doppio gioco a Broadway, e finisce sempre con un biglietto di uscita dalla città.” La città come specchio, che inganna solo chi non sa guardare e pensa che tra etica ed estetica vi sia uno stacco. E invece no.
Si può scrivere un libro inedito su New York pur partendo da luoghi tutt’altro che inediti. I titoli dei vari capitoli evocano Prt Authority, Central Park, il Ponte di Brooklyn, Times Square, l’aeroporto JFK. Luoghi non certo sconosciuti. E la scommessa dello scrittore è proprio questa: a rendere inediti i luoghi sono le parole e la sequenza con cui sono messe. Perché si vive come si parla. E New York lo sa. Per questo può essere paradiso e inferno.
Grande, grandissimo libro

Il colosso di New York Book Cover Il colosso di New York
Colson Whitehead
Letteratura americana
Mondadori
2004
150