Sono nata a Vicenza, città che ha visto la mia partenza e il ritorno, dopo anni passati a Roma, prima all’università e poi a confrontarmi con il mondo del lavoro. Ho fatto l’attrice, la presentatrice televisiva, l’adattatrice dei dialoghi per il doppiaggio. Sono passata sulle tavole dei palcoscenici, negli studi televisivi, tra le scenografie di Cinecittà, sono entrata nelle case di grandi maestri, conosciuto la vita di artisti e di piccoli artigiani, percorso le strade della città eterna. Ho avuto molti giorni felici nella capitale, incontrato tante persone, dalla più umile alla più boriosa, respirato l’aria di una città elefantiaca e affascinante, guardato mille tramonti con la quinta di un colle punteggiato di pini dagli alti fusti o attraverso archi e fori della sua grandezza. Ho fatto progetti, mi sono disperata, ho stretto amicizie, le ho perdute. Fino al momento in cui è diventato tutto più chiaro: abbandonare Vicenza significava abbandonare un’idea di creazione attraverso la scrittura. Non so perché ma è stato così. Oggi tutti desiderano scrivere, molti lo fanno, sembra facile, meno semplice è crearsi gli strumenti adatti, far crescere un talento mai affinato. Così ho lasciato Roma per Milano e Milano per Vicenza, la mia città. Ora esploro le mura del mio studio. Il resto lo trovate sul suo sito rossellapretto.com

Le due voci di Tove Ditlevsen

Di Rossella Pretto

Due voci – ne ha due Tove Ditlevsen, poetessa e scrittrice copenaghense classe 1917 (e morta suicida nel 1976), ormai saldamente inserita nel canone dei classici danesi e scoperta in America o riscoperta in Europa negli ultimi anni soprattutto grazie alla sua Trilogia di Copenhagen – è il 2021 quando il «New York Times» la indica tra le migliori pubblicazioni dell’anno.

Ne hai scritto sempre per «L’Ottavo» a proposito del primo titolo della Trilogia, Infanzia, abbinandolo a Il ballo di Irène Némirovsky per comprendere quelle due bambine maltrattate e sole. In una quartina della poesia “Luci scintillanti” della Ditlevsen leggi: «Nella notte dell’infanzia lunga e oscura / ardono piccole luci scintillanti / come tracce d’un ricordo che perdura / mentre il cuore sente freddo e non va avanti». O in questi altri versi: «C’è odore di catastrofe / l’infanzia esce / a frotte dagli armadi».

Ha due voci, Ditlevsen, come due sono i cavalli armonizzati dalla Nemesi che, spietata sul suo carro, li guida seguita dai due genietti di Punizione e Ricompensa. Questa l’opera di Bertel Thorvaldsen che hai visto al Museo di Copenhagen dedicato allo scultore, sull’isola di Slotsholmen – dove si trova anche il castello di Christiansborg e il nucleo più antico della Biblioteca nazionale (che tra l’altro custodisce anche i manoscritti di un’altra straordinaria danese: Karen Blixen), le cui finestre si affacciano sul bel parco con la statua di Kierkegaard.

E così hai fatto una panoramica su alcuni grandi artisti che quella terra ha regalato al mondo. Solo che Thorvaldsen e poi Blixen furono i testimoni e cantori del tramonto di un’epoca, mentre Tove Ditlevsen fu poeta del nuovo, di ciò che aveva preso la scena dopo l’affondo del sole. Il mito è affogato, come le splendide case sono finite sott’acqua. Si affaccia la Copenhagen dei sobborghi, i quartieri affaccendati, rumorosi e pieni di crepe (sui muri, nell’anima di chi fatica a tirare avanti e dire una parola che sappia di rotondità).

«Ci sono due voci nel mio cuore», scriveva Ditlevsen, due combattenti fieri e mai domi, due guerrieri che si contendono il campo e sfiancano per quel loro duello all’ultimo sangue. Solo una cosa può fermarli: l’amore. «Soltanto quando amo, la lotta si ferma. / Allora il mio cuore batte voglioso e leggero. / Allora ambo le voci coincidono / in un duetto felice e puro» scrive Tove.

Sarà per questo (e per altre ragioni) che Giulia Longo, curatrice e traduttrice di una scelta di poesie che per la prima volta appaiono in Italia per le edizioni Joker, nella collana Parole del mondo (Tove Ditlevsen, Una ragazzina che non vuole morire, Edizioni Joker, 2023, euro 16), la contrappone al filosofo dell’aut-aut, essendo lei invece la donna dell’et-et. Voleva tutto, Tove Ditlevsen, voleva l’amore che coordina il cuore – quattro matrimoni e una vita disordinata. Non c’è stoffa per lei nell’idillio, scriveva, perché il motore della sua scrittura è alimentato dalla sofferenza: «Io amo ciò che è difficile e oscuro», recita uno dei suoi versi. La vita ferve inesausta, esigente. Lei la declina fin dentro la tomba. «Quando sarò morta, e tutta la luce del mondo / scomparirà in una scia di stelle / dovete adagiarmi in qualche campo in un fondo / nella terra oscura e molle» si legge in “Per l’ultima volta”, dove la poetessa chiede di non essere rinchiusa in una bara ma di essere lasciata libera di sentire i passi sopra la sua testa. Ricorda in qualche modo i “Bog Poems” di Seamus Heaney, li ricorda perché Heaney li compose guardando il libro di P.V. Glob sugli uomini delle torbiere, quei cadaveri riemersi dallo Jutland, appena poco più in là. Come non pensare alla “Regina della torbiera” di Heaney, quella creatura stellare e incantatoria, quando Ditlevsen si concede alla fantasia del suo corpo dissotterrato e del cranio nelle mani del suo ricercatore, con quell’ultima carezza ai capelli lunghi e chiari?

Ma altrove la bara compare eccome, una bara nera con lei dentro vestita di rosso (perché ha amato la vita!). Sono versi scritti in “Rituale”, una poesia piena di un’energia corroborante e dionisiaca, provocatoria e con una punta di ironia (sarebbero piaciuti alla Blixen), ma senza toni funerei – ché, anzi, la bara è nera solo perché Tove è luminosa e il nero contrasta meglio con quella sua luce.

Ci sono due voci e due volti raccolti nello specchio della Ditlevsen: (due cavalli – obbediente e disobbediente – e) due donne – una donna e una ragazzina: la ragazza di un tempo, quella della strada dell’infanzia, la Istedgade, l’arteria che corre dalla stazione centrale di Copenhagen a Vesterbro, il quartiere operaio, la via dove la piccola Tove vive con i genitori e il fratello. «Dimora in me una ragazzina che non vuole morire, / lei non è più me, ed io non sono più lei, / ma lei mi fissa dallo specchio, nel lago degli occhi, / come se cercasse qualcosa che non trova più». Una delle poesie più belle. Dove sono finiti tutti i suoi sogni, si chiede Ditlevsen come Villalta si chiedeva dove sono gli anni. E continua: «i tuoi semi fini e fruttuosi sono caduti sul selciato / la sera in cui la realtà irruppe nel tuo cuore». E poi:

Avevi un sogno da ragazza di un figlio e di un marito,

e hai ottenuto quello che volevi, ma eri ancora sola,

allora sei tornata nel paese delle meraviglie dell’infanzia

mentre io mi aggiro ed esisto in un mondo di pietre

Ed è la tua forza e consolazione che tu non sia morta

Ma vivi da qualche parte come un’ombra sottile e sfuggente,

sebbene io abbia svenduto i tuoi sogni per una casa e del pane

e ti abbia risucchiato in un dolore che ricorda la felicità.

Un dolore che ritorna e non lascia in pace. Solo uno il giorno della piena felicità che da piccola rammenta di avere visto sul volto dei genitori, quel giorno al parco di Søndermarken. Un dolore che è come una retribuzione, la Nemesi che guida le due creature che battagliano: i due volti, le due voci e un destino che chiama e chiama: non ti allontanerai mai troppo dalla strada dell’infanzia… e l’amore (anche negli eterni tre) non sarà mai abbastanza…

Sedevamo in fondo alla notte,

in fondo a tutti i danni,

lì un dolore ci vagava accanto

portandosi via tutta la nostra redenzione.

È una mancanza che non si placa mai. Una vita che sa di cenere e stupefacenti. Divorzi, distanza. Il tentativo bulimico di averne ancora, avere qualcosa che sedi l’ansia della solitudine, l’angoscia di qualcosa che (forse) non è mai successo. L’assenza, quel vuoto. Dove siete tutti, dove sei tu? Che cosa rimane? Rimangono le parole:

Sì, sono bambina di nuovo, e tutto era un sogno,

ora sono sveglia, muta e senza sogni,

trasportata sulle correnti dell’eterno

diventerò una nota in quel grande spazio.

Una ragazzina che non vuole morire Book Cover Una ragazzina che non vuole morire
Parole del mondo
Tove Ditlevsen. Cura e traduzione di Giulia Longo
Poesia
Joker
2023
180 p., Ill brossura