Sono nato a Orvieto il 21 agosto 1985. Laureato in filologia moderna all'università della Tuscia. Sono giornalista pubblicista. Le mie passioni sono musica, letteratura e cinema. Amo le contaminazioni e la ricerca di nuovi stili da adattare a questa assurda modernità. Ho scritto anche un libro: Inverni. La città che muore, Sette Città editore

La terra sta spirando. L’uomo ha anche smesso di chiedersi il perché. Non è più un problema capire se sarà o non sarà vittima della propria stupidità. Uccidere, inquinare, appiccare incendi, tirare bombe… ormai non importa. Il punto di non ritorno è stato superato.
La strada” è il tempo dell’apocalisse. Quel momento che c’è tra la normalità, per come la conosciamo noi, e la fine di ogni cosa. Ci sono gli ultimi uomini. I sopravvissuti.
L’immagine è quella dell’inquietudine, il colore dominante è il girgio. Poca luce, una strada tra gli inutili states. In lontananza un uomo e un bambino trascinano un carrello che contiene tutto quello che hanno.

Quando si svegliava in mezzo ai boschi nel buio e nel freddo della notte allungava la mano per toccare il bambino che gli dormiva accanto. Notti più lunghe del buio e giorni uno più grigio di quello appena passato. Come l’inizio di un freddo glaucoma che offuscava il mondo. La sua mano si alzava e si abbassava a ogni prezioso respiro. Si tolse di dosso il telo di plastica, si tirò su avvolto nei vestiti e nelle coperte puzzolenti e guardò verso est in cerca di luce ma non ce n’era.

Con questo incipit Cormac McCarthy catapulta il lettore in una nuova condizione di vita.
Lo scenario è chiaro. Boschi, buio, freddo.
Quel gesto primordiale di allungare la mano verso il figlio per controllare se sia ancora in vita. Come un neogenitore ancora incredulo del fatto di avere tra le mani una nuova vita. Così fragile, si accerta che sia reale. Il bambino si muove.
Vive, sopravvive.
In questa storia la fragilità è uno stato perenne. Non è l’immagine di un neonato ma quella ogni uomo sul punto di morire. Tutti. Uomini, donne, bambini.
Poi il grigio che come una malattia infetta i giorni e le esistenze.
Il respiro è prezioso.
Un telo di plastica lercio sopra i corpi crea l’immagine dello squallore.
Svanisce ogni speranza che, come l’alba a est, sembra non voler più farsi vedere.

Freddo e silenzio. Le ceneri del mondo defunto trasportate qua e là nel nulla da lugubri venti terreni. Trascinate, sparpagliate e trascinate di nuovo. Ogni cosa sganciata dal proprio ancoraggio. Sospesa nell’area cinerea. Sostenuta da un respiro, breve e tremante. Se solo il mio cuore fosse pietra.

Le forze devono essere ben dosate. Il mondo ha cominciato a morire e alcuni uomini devono lottare per la sopravvivenza della specie. Ci sono i buoni, portano il fuoco. Tutti gli altri, uccidono i buoni. L’aria è più cenere che ossigeno.
La letteratura non può permettersi giri di parole. E’ necessario scandire ogni momento facendo attenzione a dosare bene l’ossigeno. Nella traduzione di Martina Testa le dissonanze e la spigolosità delle consonanti riproducono quell’atmosfera cinerea e quello scenario aspro che il lettore si terrà dentro per tutta la strada.
L’umanità è stanca e morente. L’acqua è inquinata.
Un vecchio distributore automatico conserva l’ultima lattina di coca cola.
La strada, l’asfalto corroso e sporco, sembra essere quanto di più naturale possa offrire il pianeta.
Verso Sud. Verso l’origine della vita. L’oceano. Solo per vedere se può generare ancora. L’importante è sopravvivere fino al prossimo momento. Qualcuno ce la farà, altri no. Qualcuno uccide, c’è chi riesce a difendersi e chi no.

L’uomo e il bambino hanno una pistola. Un solo colpo per uccidere la brutalità.

Afferrò la mano del bambino e ci ficcò la pistola. Prendila, sussurrò. Prendila. Il bambino era terrorizzato. Lui lo abbracciò e lo tenne stretto. Era così magro. Non aver paura, gli disse. Se ti trovano lo devi fare. Hai capito? Shh. Non piangere. Mi ascolti? Lo sai come si fa. Te la metti in bocca e punti in su. Veloce e deciso. Hai capito? Smettila di piangere. Hai capito?

Rimasero a terra, in ascolto. Ce la farai? Quando sarà il momento? Quando sarà il momento non ci sarà tempo. E’ questo il momento. Bestemmia Dio e muori. E se si inceppa? Non può incepparsi. Ma se si inceppa? Saresti capace di fracassare quel cranio adorato con un sasso? C’è un essere simile, dentro di te? Di cui tu non sai nulla? Ci può essere? Tienilo stretto. Ecco, così. L’anima è un soffio. Abbraccialo. Bacialo. Svelto.

“La strada” di Cormac McCarthy è già un classico.
La brutalità dei personaggi è sconvolgente perché il lettore riesce ad osservarla, impaurito e in affanno, nascosto dietro un cespuglio neanche tanto folto. Sconvolge, anche se tutto quello di cui si parla appartiene anche a questa, di condizione. La violenza, il cannibalismo, la fame, il più forte che domina sul il più debole… la storia della nostra società. E’ tutta farina del nostro sacco. McCarthy proietta il tutto in un altro scenario e lo racconta con una scrittura che è quella giusta di questa epoca. Senza pause. Senza respiro. Parole che sono frammenti di umanità. Parole che arrivano dirette. Taglienti. Che pesano, che feriscono, che non lasciano spazio al distrazioni e non concedono fraintendimenti. Rimane ancora poco da vivere e serve fare economia di energie. Anche i dialoghi sono secchi, brevi e sintetici. Non viene scritto più di quanto si deve. Il tempo è poco, la vita breve, non ci si può permettere una subordinata.

Ce la caveremo papà?
Sì. Ce la caveremo.
E non succederà niente di male.
Esatto.
Perché noi portiamo il fuoco.
Sì. perché noi portiamo il fuoco.

La strada Book Cover La strada
Super Coralli
Cormac McCarthy
Letteratura americana
Einaudi
2007
218