Nata a Milano nel 1966, dopo studi di filologia classica all'Università degli Studi di Pavia comincia a lavorare in libreria. Fa la libraia per 26 anni. Ha collaborato con case editrici quali Astoria, come lettrice dall'inglese e dal francese e per Giunti per cui ha scritto una guida on line sulle città europee. Ha collaborato con articoli e recensioni al blog SulRomanzo e al blog di approfondimento culturale Zona di Disagio. Suoi articoli sono apparsi sul sito della società di formazione Palestra della Scrittura. Ha curato blog di carattere economico e, per anni, ha lavorato come web content writer. E' autrice di due libri: Guida sentimentale alla Tuscia viterbese, una serie di brevi reportage di narrazione dei territori e Mors tua vita mea, un libro di racconti pubblicato da I Quaderni del Bardo Edizioni. Un suo racconto è pubblicato all'interno del libro Milanesi per sempre, Edizioni della Sera. Dirige la rivista L'Ottavo

Perché parlare di un libro del 2015? Perché questo testo, non solo non ha perso un grammo della sua attualità ma, anzi, sembra divenire ogni giorno più urgente, più “sul pezzo” di un documentario in tempo reale sui signori “buoni e giusti” del cibo sano, possibilmente a chilometro zero. Un profluvio di parole. Perché, nella maggior parte dei casi, di questo si tratta. Secondo la fissazione di uno dei maggiori protagonisti del capitalismo gastronomico mascherato di retorica: Oscar Farinetti. Una occupazione del campo semantico, come giustamente l’ha chiamata l’autore del libro Wolf Bukowski, che con una martellante “narrazione” spaccia per buono ciò che proprio buono non è.
E così si entra tra le pieghe (e le piaghe) di una serie di fenomeni mistificatori in cui la sinistra (se così possiamo chiamarla) non ha fatto altro che riproporre i soliti meccanismi ultraliberisti sciacquati però in salsa buonista. Slow Food, Eataly, Coop. Pulpiti da cui narrare, appunto, predicare bene e razzolare male. Fingendo, da una parte, di difendere una certa agricoltura senza modificare di una virgola le regole della grande distribuzione. Anzi, facendo di essa, il principale partner/complice di un sostanziale mantenimento dello status quo.
Un libro che resta attuale perché altro non è che una fotografia, lucida e perfetta, di come il re sia nudo, sempre, quando si presenta come il difensore dei contadini, dei piccoli produttori, dell’autenticità locale, delle vocazioni territoriali. Una gigantesca retorica dell’eticità del cibo, fatta da chi di eticità ne ha ben poca.
Una enorme mistificazione giocata, sempre più, sulla pelle di chi lavora, confezionata ad arte con un packaging in cui l’unica cosa che conta è il contenitore, fatto di slogan e narrazione, o storytelling come va di moda oggi. Giocata su quanto di più importante dovrebbe esserci, il cibo. Che diviene merce di scambio, né più né meno di qualunque altra merce. Con l’aggravante di diventare un’ulteriore elemento di divisione sociale. Con corredo di nani e ballerine che assumono, di volta in volta, le sembianze di venditori di pentole trasformati in chef oppure produttori artigianali oppure contadini di ritorno. Turbocapitalisti trasformati in paladini dell’autentico da una sola cosa: la narrazione. Insistere su questa parola è importante, e l’autore lo fa, proprio perché è quella la chiave di tutto. Confeziona bene il tuo prodotto, raccontalo pulito pulito, con parole a chilometro zero e il gioco è fatto. Poi usa pure i più classici dei metodi capitalisti. Tanto la faccia è lavata e pulita.
Una logica declinabile in molti ambiti ma che nel cibo ha assunto davvero i contorni della farsa se non avesse, in molti aspetti, quelli della tragedia. In questo libro, che smaschera anche i numeri, i vari Farinetti, Petrini, Coop e compagnia bella, appaiono per quello che sono e per quello che non possono non essere: portatori di finte rivoluzioni che, lasciando inalterati i rapporti di produzione, lasciano inalterati i rapporti di potere. Il loro potere.
I piccoli produttori sono altra cosa e difficilmente trovano vero e autentico sostegno in realtà che vorrebbero eliminare la politica (noioso impiccio) salvo però servirsene per poter perpetuare le loro logiche. Gustose (visto che si parla di cibo) le pagine che raccontano la nascita di Slow Food e di Eataly, quell’entusiasmo giovanilistico tutto sorrisi e proclami, prediche sul ritorno alle origini, sull’agricoltura buona, pulita e giusta. Blindata però dietro regole che di buono, pulito e giusto hanno molto poco.
Legami, intrecci, claustrofobici e autoreferenziali sostegni da parte di alcuni intellettuali politicamente corretti, molti di area renziana o comunque con un identico modo di muoversi tra le contraddizioni e i conflitti. Perché il conflitto è ciò che spaventa di più questi signori del cibo che, non a caso, soprattutto nelle parole di Farinetti, aspirano ad avere “un paese normale”; definizione pericolosamente coincidente con quella di Confagricoltura. E pensate davvero che i sostenitori del “cibo lento” siano del tutto contrari agli ogm? Allora dovete leggere davvero questo libro. Attuale più che mai.

La danza delle mozzarelle Book Cover La danza delle mozzarelle
Wolf Bukowski
Saggistica
Alegre
2015
158