. Laureato in storia. Studioso di storia dell'editoria, editor e curatore di collane editoriali

Non si può essere troppo seri

Di Antonio Celano

L’ultimo romanzo di Paolo Marati, Non si può essere troppo seri (EIF, 2024, 296 pp.) narra, in prima persona, le vicende di Patrizia Mariani, un’adolescente romana, orfana di padre e alle prese – nell’arco di undici mesi, dall’agosto del 1981 al luglio del 1982 – con un’importante fase di elaborazione del suo lutto. Di qui un continuo corpo a corpo con i suoi coetanei, con la generazione degli adulti (soprattutto la madre, la nonna e lo zio Mario) e con sé stessa in un dialogo interiore sui fatti che le occorrono fino a cogliere una via di nuova maturità rispetto alle ubbie, alle incostanze e alle nette dichiarazioni di principio tipiche della sua età. Un confronto serrato che finisce per investire anche la Roma di quegli anni con la sua topografia, la sua dimensione socio-politica, i suoi miti.

Tuttavia, il romanzo prende le mosse da Lavinio, sede di vacanza della famiglia di Patrizia. Qui, la ragazza, tra coppiette e serate goliardiche, finisce per dividersi tra il bello e vacuo Stefano e lo spiritoso Lollo che esercita sulla sedicenne prima rifiuto, poi un misterioso fascino allo stesso tempo vitale e crepuscolare. Patrizia, dopo alcune valutazioni, rompe con Stefano e inizia una sofferta relazione con Lollo, soprattutto a causa del futuro trasferimento della famiglia di quest’ultimo a Bruxelles. L’ultima mattinata di mare Patrizia scende in spiaggia per confrontarsi con il suo amico, ma Stefano la prega disperato e la ragazza è costretta a fingere di poter ripensare al rapporto a patto che se ne torni a casa. Gli dà poi un perfido appuntamento, di sera, al cinema, un’ora dopo la sua partenza per Roma. Con Lollo, invece, dopo i primi baci, promette di scriversi tutti i giorni e di telefonarsi ogni settimana, in attesa delle vacanze di Natale.

Tornata a Roma, con l’avvicinarsi della ripresa scolastica – vissuta male da Patrizia per l’angosciante trapasso dal Ginnasio al Liceo – più incalzante si fa il confronto con la madre, donna tuttora attraente, ma con una strana piega trasandata e retrò, dalla vita piuttosto piatta, tra ufficio e casa, abitata nel primo sud trasteverino. Si intuisce, così, come anche la donna sia alle prese con la difficile elaborazione della morte del marito; un processo, però, che in lei, al contrario di Patrizia, resterà bloccato nonostante il fidanzamento con un uomo scialbo e grigio, esatta fotografia della condizione presente e arresa della vedova.

È tra queste pagine che si fa avanti, dalle quinte, il quartiere di Trastevere, dove Marati ambienta la vita di Patrizia. Un luogo, attraversato di solito in motorino, molto diverso da come potremmo valutarlo oggi, proprio perché l’autore ne rispetta la distanza antropologica consumatasi in un quarantennio. Un atteggiamento prezioso, perché nel romanzo del Secondo dopoguerra è andata facendosi più carsica la riflessione sui ceti piccolo-medio borghesi capitolini, chiamata ormai a tornare in auge solo nelle scritture che, proponendone – si diceva – una ricostruzione collocata nei decenni passati, ne restituiscono spesso un’immagine immota nel tempo o troppo sfumata. Un contesto, quello piccolo-borghese romano, che presenta, tra l’altro, caratteristiche sue proprie rispetto a tante altre realtà italiane: oggi davvero vasto, precarizzato, più incolto di un tempo e angosciato dal suo stesso declino; ma che, invece, nei primi anni Ottanta del secolo scorso, mostrava una sua ben precisa collocazione tra classe operaia (e sottoproletariato urbano) e alta borghesia: classi articolatesi a seguito del robusto sviluppo delle carriere e del terziario richiesto in specie dopo la ricostruzione post-bellica. Una classe media che, in quegli anni, esprimeva ancora aspirazioni, ambizioni, e posizionamenti politici sia pure sempre più residuali e vessilliferi, e che Marati ricostruisce con accuratezza storica e di situazioni.

Ecco, dunque, gli amici del quartiere e di scuola: tutti o quasi tutti di una sinistra già più dichiarata che esperita, espressa con contrapposizioni più verbali che di sostanza o d’atteggiamento (il “Manifesto” in tasca o certi vestiti da “zecca”, la schitarrata al grido di El Pueblo unido ecc.). Una gruppalità “residuale” nella quale si insinua qualcosa di nuovo: le ragazze con vestiti dai colori fluo, con scolli e tacchi vertigo, troppo disinvolte in certi casi anche con i professori a scuola, certo, ma contemporaneamente una ricerca degli amori e un’amicalità più fragile perché più disarmata, senza più molti miti o riferimenti ideologici, velleitaria, in qualche modo esposta o indifesa. È in questo contesto che Patrizia incontra e rifiuta, nelle sue relazioni sentimentali, più ragazzi. Di più, tronca le relazioni prima che possano avere ulteriore sviluppo e fa della sua castità una sorta di baluardo a sé stessa, ai suoi dubbi e alle sue diffidenze: elude il palestrato Stefano, dimentica la misteriosa goliardia di Lollo (il romanticismo insostenibile della distanza); cerca un amore nella maggiore, apparente sicurezza, dell’introverso (e si scoprirà, fascista) Nicola solo per sperimentarne la delusione e il tradimento con l’amica del cuore; rifugge con durezza dalla proposta di un amore femminista e lesbico che finirà poi per capire; ha un transfert molto forte con un severissimo professore di italiano e latino che veste sempre di nero e del quale, solo in seguito, si scoprirà la tragedia familiare. Insomma è, in tutta questa contrazione, non la ricerca di improbabili promiscuità, bensì la paura di andare oltre, di sperimentare pienamente qualcosa di vivo, che non sia a un certo punto sorpreso dall’angoscia della possibilità della morte o, per converso, come per una superstizione, che un eccesso di vitalità o di levità sia la maschera sotto cui possa nascondersi la sua nemesi.

È già in Patrizia come nella sua generazione, dunque, sia pure nel percorso della sua elaborazione della perdita, l’alba di un ritorno ai padri, a figure che la quasi inedita fragilità generazionale dei suoi coetanei maschi non può facilmente surrogare o edulcorare. Con, in più, la finale e amara coscienza che l’adolescenza non è poi una fase della vita così innocente e, forse, a guardare il suo pestifero cugino, nemmeno l’infanzia.

Quale via d’uscita allora a questo corto circuito? Dopo la gita di fine scuola (a Pisa) e altri amori velleitari e senza sugo (mentre attorno a Patrizia fioriscono coppie e relativi gioie e problemi), più forte si fa l’esigenza di ribaltare tutta la pesantezza dell’adolescenza e della mancanza in qualcosa di lieve, di auto-ironico, di meno serio – propiziata dai bagni nell’acqua certo gelida della prima nuova estate (e, del resto, ma questo Patrizia non dà a vederlo, sono gli anni di Kundera e delle elaborazioni dell’ultimo Calvino). Acque dove poter sciogliere il peso verticale della scelta in un rapporto invece orizzontale, vivace, tra pari, che stemperi l’ombra pesante di una condizionante assenza-presenza. Patrizia deve andare al cinema con tre amici. Prima di uscire, la madre la ferma per ufficializzare che a ottobre si sposerà con Leonardo. Patrizia teme che dovranno trasferirsi a casa dell’uomo, che abita più a sud di Trastevere, all’Eur. Decide di andare a piedi al cinema, per riflettere meglio, per meditare sulla solitudine futura, sul rapporto tra i vivi e i morti, e teme che la madre sia rimasta incinta. Ma trova Stefano, che l’aspetta nella piazza in cui l’anno precedente gli aveva dato il falso appuntamento e che le ricorda timidamente che sono le ventuno e che sta aspettando ancora la sua decisione. Non sappiamo con quanto romanticismo ma, almeno, senza lontananze.

Non si può essere troppo seri Book Cover Non si può essere troppo seri
Narrativa
Paolo Marati
Letteratura
Il Foglio
2024
300 p., brossura