Stefano Vespo, insegna lettere al liceo di Nicosia. Si occupa di poesia e ha recentemente pubblicato un volume con la casa editrice La Vita Felice. Ha pubblicato alcuni articoli su Strade on-line.

Ciò che lo spettacolo nasconde

Riflessioni intorno a La democrazia dei followers di Alberto Maria Banti

“Chi non fa che guardare per sapere il seguito,

non agirà mai: proprio così dev’essere lo spettatore”

Guy Debord, Commentari sulla società dello spettacolo.

La fiaba neoliberista

Di Stefano Vespo

“Nulla sarà più come prima”, ha affermato Bill Gates a proposito della pandemia in una recente intervista, riproponendo l’assioma che rimbalza continuamente nei talk show televisivi di tutto il mondo, secondo il quale il processo storico, superiore alla volontà degli uomini, va accettato con la consapevolezza della sua ineluttabilità e immodificabilità, insomma, con una sorta di passivo, rassegnato realismo. Poi, nel perfetto stile profetico di cui da sempre si ammantano i magnati della rete, ha proseguito lanciandosi nella descrizione di un mondo in cui tutte le relazioni sociali, dal lavoro all’istruzione, verranno interamente mediate dal sistema di internet: un mondo in cui non sia più necessario né viaggiare, né uscire di casa, né avere contatti diretti con altri esseri umani. Insomma: un mondo a misura di Microsoft.

Ma la sostanza delle cose è ben diversa. Anche in questo momento, le cose continuano ad essere esattamente come prima. Il processo storico ha una continuità disarmante. Secondo Banti, nulla è mutato nelle strutture fondamentali dal 1979 ad oggi. Egli ravvisa in quella data cruciale, anno in cui diviene primo ministro del Regno Unito Margaret Thatcher, l’inizio di quella politica neoliberista che ha informato di sé i decenni successivi: fino ad oggi. Seguendo in questo Thomas Piketty, grande analista della disuguaglianza originata dal nostro sistema economico, Banti sottolinea quale sia stata la decisione cruciale che ha fondato l’attuale disuguaglianza sociale: la riduzione del peso del prelievo fiscale sui redditi dei più ricchi. Una scelta che nelle intenzioni avrebbe dovuto rilanciare gli investimenti, e risolvere così la crisi petrolifera degli anni Settanta, ma che alla lunga ha generato profonde disuguaglianze. Da quel momento i servizi essenziali, come la sanità e l’istruzione, sono peggiorati. Ciò ha impedito la mobilità sociale, e il divario tra ricchi e poveri è progressivamente aumentato. La globalizzazione ha fatto il resto, fornendo alle industrie la possibilità di ottenere più facilmente mano d’opera a basso costo, delocalizzando.

Nulla di tutto questo è cambiato con l’epidemia, anzi. La frase di Bill Gates potrebbe addirittura indurre a pensare che essa stia offrendo alle multinazionali, principalmente quelle che traggono profitti dai dati che noi stessi immettiamo nella rete, una eccezionale possibilità di guadagno. Inoltre, i numeri sui decessi di questi mesi, di cui una parte consistente sembra essere costituita da persone morte soprattutto a causa delle mancate cure per altre patologie, conferma tutte le carenze del nostro sistema sanitario, minato da anni di continui tagli al welfare. Infine, i costi economici dei confinamenti, ancora non pienamente visibili perché occultati al momento dal sostegno dello Stato, appariranno in tutta la loro gravità tra qualche tempo: fallimenti, licenziamenti e disoccupazione proseguiranno la tendenza all’accentuarsi della disuguaglianza in tutto il mondo.

Ma come abbiamo potuto accettare l’approfondirsi di questo divario e il dilagare della povertà, senza opporre alcuna resistenza, senza ribellarci? Come abbiamo potuto ignorare che sono state proprio le politiche neoliberiste ad aver provocato tutto ciò? Il libro di Banti è il tentativo di fornire delle risposte a questo interrogativo. Risposte che possono essere utilizzate per gettare delle luci sul nostro annebbiato presente. Ovvero sullo snodo epocale costituito dal modo in cui la società globale ha reagito all’epidemia. Come dice Piketty in Capitale e ideologia, ogni società elabora un suo racconto, una sua giustificazione della disuguaglianza. La narrazione elaborata dalla nostra società è quella che fa del libero mercato, della concorrenza, il terreno di prova dei migliori: il denaro è la giusta ricompensa per gli individui di maggior valore; i vincenti nella competizione economica debbono possedere di più, in quanto migliori di tutti gli altri.

Banti elabora su questo tema la sua analisi più penetrante, ripercorrendo le modalità con le quali la cultura di massa è riuscita a plasmare la nostra mentalità collettiva. I valori etici del neoliberismo, secondo i quali la socialità non deve esistere, ma deve esistere invece soltanto l’individuo, sono stati i valori incarnati e diffusi quotidianamente dallo spettacolo fornito dalla televisione, dai giornali, da internet. Dai giochi a premi alle competizioni sportive, non si è fatto altro che confermare l’archetipo di fondo della nostra società: l’eroe-imprenditore che si afferma nella competizione sul libero mercato ricevendo in premio denaro e ricchezza. In base a questo modello, o si è persone di successo o si è individui anonimi. L’intera società è stata modellata da questa logica. Ad una istituzione sociale come la scuola, ad esempio, che avrebbe dovuto essere lontanissima da questa logica di mercato, sono state imposte la terminologia e le procedure aziendali.

Oggi sono grandi corporation come la Disney che plasmano la mentalità collettiva, che “strutturano l’immaginario di miliardi di persone” (p.57). Cioè, sono le aziende che traggono profitto proprio dal modello economico liberista. Non saranno certamente loro a mettere in dubbio il valore di quel modello!

Neanche internet è in grado di fornire un differente immaginario, per una sua connaturata incapacità. Internet è un mondo estremamente segmentato: ci fa vivere all’interno di modi relazionali separati, settoriali, spesso incomunicanti e contraddittori. Impossibile che ci riesca a dare una lettura d’insieme della società. Anzi, come dice S. Zuboff in Capitalismo della sorveglianza, l’indifferenza di principio mostrata della rete per la verità delle notizie, porta soltanto alla creazione di gruppi di persone accumunate dalla fede acritica in alcuni contenuti condivisi, gruppi separati e in conflitto con altri.

Le finte alternative

Nemmeno il linguaggio della politica mette più in discussione il presupposto neoliberista. Anche la sinistra si è mostrata incline alle politiche fondate sull’abbassamento delle aliquote fiscali. Fatto inspiegabile, visto che le sue origini affondano nel pensiero comunista. Oppure spiegabilissimo, secondo Banti, se si considera che chi detiene il potere economico offre ai partiti maggiori possibilità di affermarsi.

Ma l’analisi più interessante viene condotta da Banti a proposito dell’emergere dei nazionalismi. Oggi si assiste ad una riabilitazione del vecchio nazionalismo ottocentesco: sintomo di questo è il riemergere di un immaginario collettivo nutrito dell’idea di patria come legame di sangue, come spirito di sacrificio quasi religioso, come difesa dell’onore. Queste sono le caratteristiche della mentalità nazionalistica incarnata da molti partiti europei, e in Italia da Salvini.

Ma quale funzione assume nel sistema dello spettacolo offerto dalla politica? Questo nazionalismo, dando apparentemente voce al disagio economico e sociale, svolgerebbe ufficialmente il ruolo di alternativa al potere in carica. Ma in effetti non dimostra di essere una vera e sostanziale alternativa: quando indica negli Stati stranieri o nei migranti le cause della disuguaglianza, non fa che coprire ancora una volta le vere cause. Si tratta di un’alternativa apparente, funzionale ancora una volta a coprire le responsabilità delle politiche neoliberiste.

Servendoci di queste considerazioni di Banti, si può tentare di capire meglio quello che sta accadendo oggi. Si può portare alla luce quale profonda trasformazione abbia subito il linguaggio della politica. Trasformazione che è emersa chiaramente proprio nel corso dell’epidemia attuale. Il linguaggio della politica ha sfruttato abilmente questa dicotomia apparente, utilizzando parole di un vecchio lessico di sinistra, ma ormai svuotato di senso, perché tolto dal suo orizzonte di riferimento: l’ideologia comunista. Ad esempio, contro chi si oppone o dubita delle scelte fatte dai governi, viene utilizzata quasi sempre la parola negazionista. Ma si tratta di un termine che la sinistra utilizzava in passato per stigmatizzare giustamente quella destra che negava l’esistenza dei campi di concentramento. In questo modo, chiunque esprima dissenso, viene indiscutibilmente rinchiuso nel recinto ideologico della destra. Termini come sovranista, razzista, fascista sono altre parole che identificano e descrivono i confini entro cui rinchiudere, anzi: entro cui unicamente potere ammettere l’opposizione. Una opposizione che finisce per incarnare quasi il ruolo del cattivo destinato ad essere zittito o sconfitto, tipico di tanta produzione cinematografica degli ultimi vent’anni. Tuttavia, è l’unico orizzonte entro cui potere ammettere una opposizione, proprio in quanto marchiata da un destino di sconfitta. Oltre ad essere sostanzialmente affine al ciò a cui si oppone. Infatti, se c’è una polarità negativa, c’è anche una polarità positiva.  Essa è rappresentata naturalmente da valori indiscutibili: la democrazia e la tolleranza, a cui vengono associate di principio la fiducia indiscussa nel libero mercato. I valori sempre vincenti. La politica utilizza ancora il vecchio repertorio che identificava la destra e la sinistra. Un repertorio di concetti e idee oramai spuntato, incapace di interpretare la realtà attuale. Ma lo fa appunto per nascondere, celare la forma che ha assunto un nuovo, inedito sistema, che è tutt’altro che liberale e democratico.

Forse l’attuale mancanza di figure di intellettuali, o piuttosto del ruolo stesso degli intellettuali, non di deve tanto far risalire al poco spazio che hanno la critica e la riflessione nello spettacolo globale, quanto ad una ambiguità nel lessico attuale della politica, i cui concetti sono in realtà agglutinamenti incapaci di dare un senso corretto delle cose.

Imprinting cognitivi

A proposito delle dicotomie offerte dallo spettacolo della politica, dobbiamo tornare a seguire il modo in cui Banti descrive la strutturazione del nostro immaginario collettivo. Proprio a causa dell’acuirsi del disagio sociale e delle incertezze economiche, gli ultimi vent’anni sono stati caratterizzati dall’affermarsi di un fondamentale modello narrativo, nei film come nelle serie tv: una storia in cui la situazione iniziale idilliaca viene messa in crisi da un cattivo; il quale alla fine viene sconfitto da un eroe che ristabilisce l’ordine iniziale. “Nel quadro attuale […] le proposte narrative chiedono agli spettatori e alle spettatrici di sottoscrivere un patto narrativo altamente regressivo, nel senso di altamente infantilizzante” (p.75). Si tratta di una narrazione spesso totalmente irrealistica, che chiede di sospendere ogni incredulità, ogni giudizio critico. Che pone lo spettatore in una condizione di passività e subalternità nei confronti dell’eroe. Gli eroi sono individui quasi immortali, che non conoscono il dolore e la sconfitta. Su di essi lo spettatore proietta le proprie fantasie immortaliste.

Passività, subalternità, rinuncia al pensiero critico, paternalismo, fantasie immortaliste. Questi sono gli imprinting cognitivi prodotti sugli spettatori dalla cultura di massa.

Si può far tesoro di queste osservazioni di Banti per azzardare un’ipotesi: il modo in cui è stata modellata la nostra risposta alla pandemia deve moltissimo al modo in cui le megacorporation hanno creato il nostro immaginario collettivo. Ovvero: la politica ha finito per uniformarsi alle tecniche ed al linguaggio della cultura di massa. Un processo che si può fare risalire agli anni Novanta. Ma oggi il discorso politico è penetrato nella vita quotidiana, modellando atteggiamenti, opinioni, come finora non aveva mai fatto.

Si prenda a esempio un assioma penetrato ormai nella discussione pubblica: “se vi comporterete bene, sconfiggeremo il virus”. Tradotto in altre parole, è questo il senso sotteso a gran parte dei messaggi televisivi, nei sottotitoli delle tabelle trasmesse dai telegiornali, o nelle dichiarazioni apparentemente semplici e ingenue degli ospiti dei talk show. Ma come è stato possibile all’informazione far passare tra la gente un principio così infantile per spiegare e giustificare un fenomeno di questa gravità e portata? Per moltissimi questa idea non solo è accettabile: è logica e sensata.

In realtà, il principio del “se vi comportate bene” è un principio utile a nascondere piuttosto che a chiarire e, qualora lo si volesse applicare, lascerebbe amplissimo spazio alla discrezionalità: quanti sono stati a non rispettare le regole? Non si potrà dire mai nulla di verificabile: tutti, molti, alcuni. In fondo è un’ipotesi e nient’altro. Ma un’ipotesi in base a cui si condanna e si decide del futuro di molti. La diffamazione e la conseguente negazione del diritto a frequentare la scuola per un’intera categoria sociale, quella dei giovani, indicati come i principali responsabili della diffusione del virus a causa di una loro presunta insofferenza alle regole, è nata proprio dal principio del “se vi comportate bene”.

Eppure, il “se vi comportate bene” resta al di qua di ogni discorso razionale, sfugge a qualunque possibilità di critica, a qualunque logica, perché fa appello a bisogni radicati in una sfera diversa dalla logica: quella delle emozioni, dei simboli, degli archetipi. Una popolazione terrorizzata da quasi un anno di informazione pressante è più incline ad ammirare un potere che indossa i panni di un padre benevolo, ma che all’occorrenza sa essere anche severo e giusto. Una popolazione terrorizzata ha inoltre bisogno di una prospettiva, di una soluzione facile da porre in atto per uscire fuori dall’incubo: di una speranza, di qualcosa che sia a disposizione. Ha infine bisogno di un nemico riconoscibile e a portata di mano, su cui far ricadere la colpa. Colui che non rispetta le regole.

Sono le impronte cognitive della cultura di massa: il bisogno di affidarsi sempre ad un eroe imbattibile, che risolve per noi tutti i problemi, l’abitudine a sospendere ogni critica, abbandonandosi alle narrazioni più incoerenti e inverosimili offerte oggi dall’industria dell’intrattenimento. Nulla a che vedere con il modo in cui si costruiva l’immaginario nel passato: la stessa Odissea conserva un potente realismo e una coerenza, ritenuti evidentemente elementi indispensabili, e che fanno pensare ad un pubblico abituato ad esercitare il dubbio e la critica, molto più difficile da convincere del pubblico attuale.

Sembra che la grande svolta di cui siamo testimoni oggi sia un passaggio cruciale per l’industria dell’intrattenimento di massa: sembra che essa stia passando dalla semplice offerta di svago all’orientamento della mentalità, all’applicazione dei suoi metodi alla prassi politica, alla modellazione dell’atteggiamento sociale voluto. Del resto, già da tempo la politica adegua i suoi contenuti e le sue modalità comunicative alle strategie della cultura di massa.

Cosa ci ha insegnato l’epidemia?

Una democrazia di semplici spettatori passivi. Ecco l’immagine conclusiva che della nostra democrazia ci dà Antonio Banti.

Nonostante lo scetticismo dello storico sul fatto che si possa prevedere una diversa tendenza, credo che l’epidemia, paradossalmente, ci possa, se non indirizzare verso un’alternativa, almeno prendere coscienza di dove ci stia portando la strada che abbiamo intrapreso. Ma sta a noi saperne approfittare.

Mi ripropongo una domanda di rito, quella che spesso qualcuno intona con l’atteggiamento di chi voglia tirare le somme esprimendo un alto giudizio storico: “Cosa ci ha insegnato la pandemia?”. La risposta prefabbricata dai talk show ci obbligherebbe a tessere l’elogio del raccoglimento, dell’austerità, della vita familiare. A interpretare i confinamenti come una giusta punizione divina per i nostri peccati consumistici. Quasi fossimo tutti amministratori delegati di grandi multinazionali, sempre in giro per il mondo!

Ma si può comunque dare una risposta meno ridicola, anche se non da storici. È servita a far germogliare di nuovo il seme dell’impegno civile. A farci timidamente uscire dallo stato di spettatori passivi dello spettacolo “democratico”. Abbiamo capito che questi continui inviti alla speranza ad altro non servono che a farci attendere fiduciosi, mentre qualcun altro comincia a modellare un futuro che non vogliamo.

Iniziano a nascere ovunque comitati e associazioni a difesa dei diritti che i governi di tutto il mondo calpestano, dietro il paravento dell’emergenza. Molti giovani protestano per ritornare a una didattica in presenza, sottratta loro senza alcuna giustificazione.

Sta servendo a diradare la nebbia cognitiva dell’ideologia neoliberista sul vero aspetto del nostro sistema economico, monopolista e totalitario.

Ci sta facendo comprendere fino a che punto il discorso politico sia stato sostituito dalle strategie comunicative della cultura di massa, strategie illiberali e manipolatorie.

La democrazia dei followers Book Cover La democrazia dei followers
Alberto Maria Banti
Saggistica
Laterza
2020
136 p., brossura