Poeta, saggista, scrittrice e performer, vive a Jesi. Laureata in lettere presso Università Studi di Genova e Dottore in ricerca Italianistica presso Università degli studi di Roma Tor Vergata. Si occupa di poesia, mitografia e antropologia e poesia greca antica. Ha al suo attivo numerose pubblicazioni. L'Ultima madre del respiro, Moretti e Vitali, 2017.

Sul libro di Donato Di Poce : Il poeta e il suo doppio , I Quaderni del Bardo, 2019

Di Gabriella Cinti

Lo straordinario omaggio ad Artaud compiuto da Donato Di Poce – o meglio “varato” – con quel tanto di coraggio marinaresco implicito nel verbo, presenta l’originalità assoluta di un corpo a corpo con l’opera e la personalità dell’Artista, grazie a quello slancio sia ermeneutico sia lirico che ce lo restituisce, pur nell’esplosione di molteplici frammenti,  con un’interezza sfolgorante e dionisiaca.

La parola, critica e poetica, emana lo stesso furore di illuminare con luce di sangue le ombre invisibili di Artaud e, più estesamente,  dell’uomo stesso.

Tale prospettiva abissale, congeniale a Di Poce, è quella più idonea per rappresentare Artaud.

Il suo dialogo con l’artista costititusce un duetto in cui tutto diventa gesto, azione delirante volta a far emergere, nella distruzione dei paludati sensi logici, nei meandri del doppio come necessaria diaspora semantica,  una aurorale verginità della Parola.  

Tutto ciò si interseca con le peculiarità artistiche di Di Poce che si pongono in assoluta sintonia con la rivoluzione estetica di Artaud, in cui giunge a deflagrazione materica, in nome di una polisemia totale, anche l’univocità dell’immagine, celebrando una liberazione anarchica e soteriologica del Senso e dei Sensi.  Così emerge il dominio del sogno e dell’inconscio, la verità oscura e ambivalente che lotta con la crudeltà della coscienza, il serbatoio energetico e palingenetico, per l’uomo e per l’Artista.

Ben ha colto Di Poce, la segreta e irriverente sacralità che anima Artaud, quella sua “grazia che aiuta a pensare oltre” nel precipizio vivente, quella sua suprema tensione verso un singolare superomismo per lasciare se stessi alle spalle: “Scrivere superando se stessi”. Aforismi poetici di altissima condensazione.

Non è forse uno straniato misticismo, quello che brandisce, nell’assalto alla Totalità primordiale, “il corpo extratestuale dell’indicibile”, “il sangue dell’essere che vuole esistere”, oltre i limiti del proprio essere” per cogliere appunto “i segreti della vita” e impugnarla e darle sempre nuovo cangiante pirotecnico volto?

Donato Di Poce compie in realtà una lunga evocazione, oracolare e animica, dando forma poetica ad un vero e proprio transfert o adesione gemellare e originaria alla personalità di Artaud.

Ecco che la ribellione prometeica dell’Artista prende vita e si emana e si incarna nei “latrati sporchi di sangue” con cui Di Poce gli presta voce pittorica e illumina la sua grandiosa e scandalosa unicità : “Non si scrive con la propria follia/ Ma con l’autografia del proprio delirio”:  ne scaturisce una consapevolezza densa e plastica, lucida e allucinata al contempo che questo sia l’unico mezzo per attingere magicamente  all’”anima delle cose”, scardinata più che inseguita, minata da sciami tellurici di incandescenze  verbali e gestuali.

 Cavalcando con magnetismo poetico e incisivo le aporie le feconde “anomalie”, Di Poce permette anche a noi di assistere al prodigio Artaudiano del più sprofondato abisso che si ribalta in una nuova Prima Parola, nel Primo Gesto della più arcana delle rinascite, l’eraclitea speranza dell’insperabile.

“Il poeta è un mare d’inchiostro

che la sera inghiotte la vita

e al mattino restituisce

un’alba di parole innamorate”.

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