Nato a Como, di origine salentina, Alessandro Vergari vive da diversi anni a Bari dopo essersi laureato in Filosofia all'Università Statale di Milano, con una tesi sul rapporto tra guerra e giustizia. Una geografia complicata? Forse. Alessandro scrive recensioni e articoli su diversi blog. Cinema, letteratura, musica e cucina (in qualità di consumatore finale) le sue principali passioni. Ama il sole e il mare. Sulla politica attualmente non si pronuncia. "Ho dato abbastanza", queste le sue dichiarazioni in materia.

Khalil. Nei panni insanguinati del terrorista.

Where the river runs to black
I take the schoolbooks from your pack
Plastics, wire and your kiss
The breath of eternity on your lips.
—-
Quando il fiume scorre nero
prendo i libri dal tuo zaino
la plastica, il filo e il tuo bacio
il respiro dell’eternità sulle tue labbra.

(Bruce Springsteen, Paradise, dall’album The Rising, traduzione di Alessandro Portelli)

A seguito dei terrificanti attentati del 2015 sul suolo francese, il dibattito politico-culturale in merito al senso e alle ragioni della violenza terroristica è stato attraversato, oltralpe, da una polemica dai toni anche aspri fra due orientalisti, Gilles Kepel e Olivier Roy. I giovani in rivolta nelle banlieu sono contestatori radicali del sistema, spinti da una rabbia generazionale trasversale ai continenti, la stessa riversata, ad esempio, dai neri americani contro la polizia? Oppure il ribellismo che cova nei quartieri “caldi” di Parigi e di Bruxelles dev’essere interpretato come il frutto avvelenato di una specifica prassi di indottrinamento, di matrice islamico-salafita? Kepel, sostiene Roy, “tende a islamizzare tutte le forme di rottura, contestazione e mobilitazione dei giovani provenienti dall’immigrazione”, e vede “nella salafizzazione la causa di radicalizzazione jihadista, senza tener conto dei fatti, cioè delle biografie dei terroristi che mostrano come essi non abbiano una formazione religiosa”. Roy, secondo Kepel, “ha una lettura filosofica e decontestualizzata dei movimenti jihadisti. Per lui, il loro contenuto ideologico è solo un epifenomeno: ieri avevamo le brigate rosse, oggi le brigate verdi, domani avremo le brigate blu o chissà che…”, quando, al contrario, “i movimenti jihadisti sono il prodotto di un particolare contesto sociale, quello di una esclusione post-industriale che favorisce i riflussi identitari di cui il salafismo è l’espressione più estrema” (dichiarazioni tratte da un’intervista doppia curata da Lorenzo Cremonesi, pubblicata su La Lettura del 19 marzo 2017).

Khalil, il protagonista dell’omonimo romanzo di Yasmina Khadra, pubblicato da Sellerio, può essere considerato l’idealtipo che sintetizza le due posizioni antitetiche qui riassunte. Cresciuto in Belgio, di origini marocchine, Khalil è l’unico figlio maschio di una famiglia gravata da un’infelicità che pare irrimediabile: un padre gretto e meschino, una madre depressa, incapace di reagire alla violenza maschile, una sorella gemella ripudiata, un’altra quasi ammattita per la solitudine. Khalil è un disadattato, un ragazzo ventenne scollato da tutto, un soggetto espulso dai circuiti virtuosi della società (istruzione, lavoro, formazione professionale). Allo stesso tempo, è un musulmano fragile, inghiottito da una rete informale e capillare, la Solidaritè Fraternelle, contigua a Daesh, lo Stato Islamico, che ne fa un “combattente” in guerra contro gli “infedeli”. La sua rabbia, movente psicologico individuale, terreno amaro su cui piantare l’inferno, viene gradualmente orientata al massacro, progetto pianificato da un’organizzazione verticale composta da sceicchi, imam, emiri e semplici esecutori. Una congrega di assassini votata al macello di innocenti. Khalil vive in Belgio, a Molenbeek, e da qui è inviato a Parigi. La data è il 13 novembre 2015.

“Eravamo quattro kamikaze. La nostra missione consisteva nel trasformare la festa allo Stade de France in un lutto planetario. Stipati nella macchina lanciata a tutta velocità sull’autostrada, non dicevamo una parola. C’erano due fratelli che non conoscevo, uno seduto davanti, al fianco di Ali, l’autista, l’altro dietro, insieme a me e Driss”.

Yasmina Khadra parte dalla cronaca per fare letteratura, perché la letteratura illumina gli eventi più di quanto faccia la banale cronaca. È noto che alcuni membri degli attacchi multipli al Bataclan, nella zona di Place de la République e nei dintorni dello stadio Saint-Denis risiedevano realmente a Molenbeek. A Khalil, personaggio immaginario e verosimile, è affidato il compito di compiere una strage a bordo della RER, la linea ferroviaria che unisce il cuore della capitale francese ai suoi quartieri periferici. Khalil recita una preghiera e preme il bottone per far detonare la sua cintura esplosiva, ma non accade nulla. Ci prova due, tre, quattro volte. Ancora nulla. Il piano va storto. Khalil è vivo, quando vorrebbe essere morto, in paradiso, a godere dei piaceri dispensati dalle bellissimi huri, le vergini promesse dal Corano ai fedeli musulmani, certa ricompensa, così sostengono i suoi capi, per un martire immolato alla Causa.

Khalil emerge dalla metropolitana, a Porte Maillot, e qui, con i pochi spiccioli chiesti a una passante, chiama Ali, il tassista complice che lo ha accompagnato a Saint-Denis insieme ad altri tre attentatori, tra i quali Driss, testa calda, amico fraterno e vecchio compagno di scuola. Ali, il tassista, gli sbatte il telefono in faccia. Solo Rayan, altro amico d’infanzia, a differenza sua e di Driss ben “integrato” nella società belga, si presta per riaccompagnarlo a casa. Khalil, da questo momento in avanti, si arrabatta in un complicato gioco di simulazioni e dissimulazioni. Non rivela a nessuno il suo segreto e intanto alimenta i suoi propositi sacrificali. Lo stragista “miracolato” coltiva con cupa ispirazione il seme di fuoco sepolto nell’animo, restando fedele all’organizzazione criminale, anche dopo aver saputo della morte, al Bataclan, di una cugina di primo grado.

“La guerra è una lotteria, dove gli effetti collaterali, le pallottole vaganti, gli errori di calcolo e i danni del fuoco amico fanno parte del gioco. In questo genere di scontri a oltranza, la vita e la morte dipendono solo dalla fatalità – cioè: dalla volontà di Dio. Non c’è spazio per la crisi di coscienza, è il beneficio del dubbio è proscritto. Che si perisca per un ideale o perché ci si trova nel posto sbagliato al momento sbagliato è irrilevante. Mia cugina aveva perso la vita durante un concerto. Io ero vivo mentre dovevo morire. Capricci del destino. Nessuno sfugge al proprio”.

Il romanzo di Yasmina Khadra inquadra la psicologia del terrorista islamico con l’attitudine all’indagine e la curiosità scientifica di un entomologo chinato sul proprio insetto. La scrittura è limpida e chiara. Non vi è traccia di moralismo spiccio o di manicheismo semplificatorio in questa lucida incursione nel nichilismo contemporaneo. La narrazione è centrata sul tema dell’integrazione mancata e della pericolosa degenerazione che ne può seguire. Nella mente del protagonista si insinuano le ragioni ultraideologiche del jihadismo. Khalil si trincera dietro un rifiuto pervicace, ostinato, di ogni possibile mediazione tra sé e gli altri, dove “altri” non sono solo gli europei, ma tutti coloro, musulmani compresi, che non accettano l’idea di dover morire in battaglia in nome dell’Islam. È un punto importante: più volte, nel corso del romanzo, i musulmani di Molenbeek bollano le disumane imprese dei kamikaze con parole di disprezzo. Khalil sperimenta l’isolamento in seno alla sua stessa comunità, che pretende, comunque, di rappresentare al massimo grado di sincerità e purezza.

Oltre la sociologia, meglio della sociologia, Khadra si sofferma sui luoghi spogli, segnati da incuria e indifferenza, entro cui matura, in alcuni, il sentimento di odio verso le libertà occidentali, ricondotte, nell’ottica islamica radicale, a esibizione di licenziosità inaccettabili. Non tanto una povertà assoluta, brutale, quanto uno stadio di arretratezza che, a confronto con il decoro della casa del borghese Rayan, il marocchino riuscito negli studi, risulta, paradossalmente, ancora più ingiusto. Lo scrittore affronta, con un realismo descrittivo di rara accuratezza, le stazioni di passaggio, spesso segnate da squallore, che imprimono in Khalil il sigillo di un destino di emarginazione, introiettato come una condanna da riscattare con l’impegno assassino: le officine adattate a rifugio, i ripari di fortuna, i quartieri-dormitorio, le piazze teatro di risse tra senzatetto. Khalil, uomo allo sbando, dimenticato per giorni dai suoi stessi compagni e terrorizzato dall’idea di essere reputato un codardo dai vertici dell’organizzazione, attende con ansia di rientrare in contatto con gli esponenti a lui più vicini, l’emiro Lyés, il “venerabile” imam Sadek, il rampante Ramdane, per diradare ogni dubbio sulla sua fedeltà e per ribadire l’adesione incondizionata al martirio.

“La curiosità è la madre putativa delle tentazioni, e le tentazioni sono traditrici. Dopotutto che rischio c’è ad ascoltare un imam? Sempre meglio che ascoltarti da solo. E così eccoti lì a orecchiare distrattamente, annoiandoti in mezzo al gregge. Il tuo vicino ti dà una gomitata nel fianco per sollecitarti a un comportamento più appropriato e poi a essere più attento. A poco a poco gli agenti in sonno che avevi accolto a tua insaputa cominciano a sostituirsi alle tue fibre sensibili. Quanto all’imam, ha una risposta a tutte le domande su cui un tempo ti arrovellavi senza trovare un indizio che ti illuminasse. L’imam ti rimanda alle tue sconfitte, alle vessazioni che credevi di aver superato, alle ferite mai cicatrizzate”.

Ascolto anziché rifiuto, imposizione di disciplina al posto di un randagismo irrequieto, superamento della frustrazione nella dimensione del gruppo, devozione assoluta in sostituzione di menefreghismo e apatia: l’integralismo è servito. Yasmina Khadra sviscera le dinamiche generative del fanatismo omicida, fotografa la subdola assertività delle catene di comando e smaschera l’ipocrisia di certi appellativi che vorrebbero cementare un clima di familiarità reciproca. I camerati si chiamano tra loro “fratelli”, ma Khalil, nel suo percorso finalizzato al martirio, incontra funzionari del terrore che si relazionano a lui con estrema durezza. Il nazista islamico spoglia l’uomo di ogni residua dignità: ogni barlume di fratellanza pare spento. Tornano alla memoria le parole del giornalista Domenico Quirico, che, a proposito dei terribili mesi di prigionia patiti in Siria, ha rivelato di aver percepito nei suoi carcerieri una totale assenza di misericordia, lo “slancio dell’essere verso il male”, e di aver intuito, in quella terra devastata, “la gioia di essere cattivi” finanche nei vecchi e nei bambini. Nel romanzo di Khadra affiora la medesima, cieca inclinazione antiumana. Non tanto efferatezza, che l’efferatezza pure richiede una volontà attiva, sadica, nel fare il male, quanto la richiesta di una passività quasi robotica, una disposizione ad essere nulla più che un oggetto. Non solo le vittime degli attentati sono indegne di considerazione e di pietà, perfino il ”fratello”, con cui si condivide l’esperienza estrema del morire-insieme, è visto alla stregua di un manichino, di un ottuso strumento finalizzato alla Causa. Al minimo dubbio scattano pratiche inquisitorie, atte a verificare, nel soggetto gravato dal peso del sospetto, il permanere o meno di un’intenzione pura.

L’idiozia estremista è lampante in Hèdi, fantoccio pseudo-intellettuale, probabilmente una spia, inviato dai vertici, per osservare da vicino Khalil e prevenirne eventuali sbandamenti dalla retta via in previsione della seconda, imminente missione suicida. Hèdi, un donnaiolo sensibile al fascino delle ragazze occidentali, si giustifica agli occhi del protagonista (all’opposto, più realista del re), sbandierando una fatwa che acconsentirebbe all’appagamento del desiderio carnale, un bisogno naturale non ostacolato dal Corano… “[La proibizione della fornicazione extraconiugale] non ha niente a che vedere con l’eccezione fatta per i guerrieri come me e te. Certo, alcuni si astengono, ma questi ultimi non sono più meritevoli di chi che cede al legittimo richiamo dell’istinto”. Khalil è colpito da queste stranezze, ma la sua fede non barcolla a sufficienza per fargli cambiare strada. Khalil crede. Soltanto una tragedia immane, interna alla vera famiglia, quella di origine (non il simulacro, il surrogato imposto con piglio cameratesco dai “fratelli”), ne incrina le convinzioni e spalanca in lui spiragli di salutare perplessità. Si farà saltare in aria in Marocco oppure, finalmente, si libererà dai paraocchi e sconfiggerà il giogo della violenza insensata?

Khalil è un’opera letteraria di impegno civile, che non assolve e non indugia in rapidi schematismi. Lo scrittore di origine algerina, nemico dichiarato del fanatismo, percorre fino in fondo gli abissi dell’orrore. Lo psicanalista junghiano Luigi Zoja, in Nella mente di un terrorista (Einaudi), afferma che “nell’Islam esiste una tradizione specifica, una disperazione ben individuata: è il ritorno dell’eroismo dove si vive nel nulla. Potremmo chiamarlo il coraggio della crisi. Ad aggravare il quadro c’è anche dell’altro: il mondo islamico è pieno di complessi. Da un lato di inferiorità, per via delle cicatrici coloniali; dall’altro di superiorità, per l’orgoglio della fede: sono due estremi che si toccano, creando un cortocircuito in cui la propaganda può inserirsi facilmente”. In maniera simile, Khadra fa parlare Khalil, a riguardo degli episodi di razzismo subiti da un amico di colore: “le persone non si rendono conto dei danni che fanno quando usano parole inopportune. I veri criminali non sono quelli che si fanno esplodere in mezzo alla folla, ma quelli che hanno reso possibile la carneficina”. È il crocevia dell’infelicità araba, miscuglio di impotenza, vittimismo e compiaciuto declino, come Samir Kassir, rimpianto intellettuale libanese, profetizzava un quindicennio fa. Khalil è un romanzo che serve e servirà per non fermarsi a questo scoglio e per guardare avanti.

Alessandro Vergari

Khalil Book Cover Khalil
Il contesto
Yasmina Khadra. Trad. di M. Di Leo
Letteratura
Sellerio
2018
260