"Quando ero bambino sognavo di fare il pompiere, forse suggestionato dal draghetto Grisù che vedevo spesso in tv. Poi, terminata la scuola dell'obbligo, sono finito a lavorare in banca. Pochi mesi, ed è arrivata la "cartolina": ho frequentato una scuola militare, indossato le stellette. Per quello strano balletto che è la vita, mi sono trovato in seguito a calcare le passerelle della moda milanese, a lavorare come istruttore di tennis, a girovagare per il mondo come operatore turistico - oltre a svolgere un'innumerevole serie di attività poco curriculari. Studi disparati, un certificato di laurea mai ritirato. Seguo i miei demoni." Altri informazioni su Stefano e i suoi libri li trovate sul sito www.stefanoferrari.info

S9

Sono alla libreria Gogol di Milano, mi sto prendendo un cappuccino al banco con un’amica quando si avvicina Danilo, il proprietario. “E’ morto Pinketts.” mi dice. Io lo guardo e non ho ancora preso consapevolezza di quanto mi ha appena detto. “Te l’ho detto perché so quanto ti stava a cuore.”
Esco per fumarmi una sigaretta. Il mio telefono inizia a squillare. Sono dei messaggi. Amici. “E’ morto Pinketts” recitano tutti.
“Mi spiace” dice la mia amica, rompendo il silenzio.
“Alcuni giorni fa mi ero promesso di chiamarlo.” dico, e ho già la voce rotta. “Sapevo che non stava bene, me l’avevano detto al Le Trottoir alcuni giorni fa… Volevo chiamarlo ieri, passare a salutarlo…”
Le parole mi escono a fatica. La mia amica mi guarda e forse capisce che ho bisogno di stare da solo. “Io entro che ho freddo” mi dice. 
Io mi allontano un po’, cammino per la piazza Berlinguer, e piango.

Io Andrea Pinketts non lo conoscevo bene. Non era neanche un mio amico. Nel mio immaginario era semplicemente una delle persone più generose che avessi mai conosciuto. 
Diversi anni fa avevo scritto su di lui, un piccolo omaggio letterario che speravo di pubblicare su una rivista on line con cui collaboravo. Poi la rivista cessò di esistere, ed è rimasto nel mio cassetto fino ad oggi. 

Ad Andrea G. Pinketts, per tutte le parole che non ci siamo detti.

Per alcuni è uno scrittore di culto, un grande. Per altri un buffone, uno che va in televisione a fare il coglione con il sigaro in bocca. Lui è Andrea Pinketts, o meglio, come lui stesso si firma: Andrea G. Pinketts (dove G. sta per Genio). Anno 1961, segno del leone (ascendente ariete), sin da piccolo dimostra una pertinace tendenza all’insubordinazione e alle armi di scuola, specialmente a quelle puntate contro di lui. Studi irregolari, espulsione dal liceo linguistico per avere malmenato il preside disossandolo, a diciassette anni demolisce il portone di un cinema a colpi di mannaia. Dopo dodici giorni di servizio militare evade dalla caserma dei granatieri di Orvieto e, per evitare spiacevoli conseguenze, si finge psicopatico. Tra le sue attività annovera: fotomodello, cacciatore di dote, istruttore di arti marziali, giornalista investigativo. Le sue inchieste sul settimanale “Esquire” lo hanno visto di volta in volta sviluppare l’arte del trasformismo diventando negro, barbone, viado, satanista, pornodivo con nickname di “Udo Kuoio il re della frusta”. Una passione sfrenata per le cattive compagnie, la letteratura, i bar equivoci, i sigari e le donne: questo è quanto scrive di lui, quanto fa scrivere di lui. Perché la sua vita si perde nel romanzo, perché le persone geniali hanno questo: giocano con la loro vita, la camuffano, la modellano a piacimento. Le loro storie inseguono la loro vita, la loro vita insegue le loro storie, in un slancio continuo, inesauribile, tra realtà e finzione (è un meccanismo diabolico, che esaspera l’uomo: lo porta ad altissime vette e lo costringe a cadere). Ma le persone geniali sanno fare un’altra cosa, che a molti è difficile, impossibile: giocare con se stessi, con la propria immagine, incuranti degli occhi della strada, dei loro pregiudizi, ma fedeli solo alla loro indole. Nell’apparire, loro sono. Ma non in quanto personaggi (più o meno caricaturati), ma in quanto uomini fedeli a se stessi. Al loro più profondo sentire. In questo, tutte le persone geniali si assomigliano. Anche se dipingono o suonano la chitarra elettrica, anche se sono vegetariani o alcolisti. Essere un genio significa essere innanzitutto liberi, con la profonda consapevolezza di esserlo. Liberi di raccontare quello che si vuole, liberi di vestirsi come si vuole, liberi di seguire le proprie fantasie. In questa libertà loro abbracciano tutto e tutti. Andrea G. Pinketts è uno dei pochi che può permettersi di fare il coglione in televisione con il sigaro in bocca (per dirla come alcuni). Può permettersi tutto. Anche di andare a intervistare una scimmia, se volesse, e chiedergli quanti peli ha sul culo (se fosse nelle sue fantasie, se fosse interessato a seguirle). 
Ma la libertà si acquisisce con la lotta. Con lo studio. Con il sacrifico. Perché per essere liberi bisogna essere forti. Perché bisogna spezzare le catene dei pregiudizi, delle costrizioni. Non si può essere liberi senza leggere un libro, senza osservare il volto di una persona, la sagoma di un albero. Non si può essere liberi senza studiare se stessi e ciò che ci circonda. Senza camminare sopra vetri rotti e macerie dimenticate. Credere che Andrea G. Pinketts sia il risultato di notti da balordo, donne e CocaAvana, è ingenuo e stupido. Andrea G. Pinketts nasce innanzitutto dai libri. Da quelli che ha letto (un numero impressionante) e da quelli che ha scritto. Ed è nei libri che ha dato e da il meglio di sé. Ed è nei libri che vivrà in eterno.

Io ho conosciuto Andrea G. Pinketts al Le Trottoir. Cercavo una location dove presentare il mio romanzo e il direttore artistico del locale (Running Mannarelli) mi presentò a Pinketts. Fu tutto piuttosto surreale. Mi disse: “a noi fa piacere ospitare giovani scrittori. E poi mi piace il tuo modo di proporti. Ce l’hai un tuo libro con te? Bravo. Daglielo a Pinketts. Guarda, è lì fuori… Fagli la dedica, prima. Te lo presenta lui il libro. Pinketts si spende sempre per gli altri”. Poi andò da Pinketts, che se ne stava per i fatti suoi con una birra in mano. “Abbiamo un giovane scrittore” gli disse. “Vuole presentare il suo romanzo al Le Trottoir”. 
Pinketts lo guardò, sembrava piuttosto assente. 
“Dagli il tuo libro.” Mi disse Running. Poi, tornando a rivolgersi a Pinketts: “Ti ha fatto anche la dedica”. Lui aprì il libro. La mia dedica era piuttosto banale, ma forse non la lesse. Ricordo solo che tremava un po’, che il mio libro tremava un po’. 
Disse: Il Filo?” 
“Sì” risposi.
“Anch’io ho pubblicato l’ultimo libro con loro”
“Sì, lo so”
Era uno dei nomi di traino usati da quella giovane realtà editoriale per pubblicizzarsi. Che avessi pagato per pubblicare il mio romanzo, come la grande maggioranza di coloro che uscivano nelle loro collane, probabilmente non lo sapeva.
“Grazie. Lo leggerò” disse. Poi richiuse il libro e lo mise in una borsa. E improvvisamente mi sentii in imbarazzo. Running si era allontanato e Pinketts non sembrava particolarmente interessato al mio libro. Né a me. Né a tutto quello che lo circondava. 
“Ho letto il senso della frase, mi è piaciuto molto” dissi per cercare di rompere quel silenzio. L’avevo anche fatto leggere ad un amico. Allora non amavo particolarmente il suo genere (non ci ero ancora veramente entrato), ma adoravo quel ricondursi ai luoghi di Milano, alla sua vita, adoravo la sua micidiale verve umoristica. 
Lui fece cenno con la testa e disse: “Dobbiamo scegliere il giorno per la presentazione. Adesso non ho la mia agenda, dobbiamo rivederci. Ti lascio il mio numero. Chiamami domani.” 
Poi ci salutammo. 
Prima della presentazione ci vedemmo quattro o cinque volte; fu più che altro uno scambio di saluti. Del mio romanzo non parlammo mai. 
Il 30 novembre 2008 a Milano diluviava. Io ero agitato. Era la mia prima presentazione. Avevo lavorato settimane per promuovere l’evento, locandine, comunicati stampa, mailing list… Per la prima volta avrei dovuto parlare con un microfono di quanto avevo scritto. E quante persone sarebbero venute ad ascoltarmi con questo tempo? Mi chiedevo anche cosa avrebbe detto Pinketts. Se il romanzo le era piaciuto. Se lo aveva veramente letto. In quelle settimane, per prepararmi, avevo assistito a molte presentazioni di libri. Serate con venti, trenta persone, dove a volte venivo assalito da un’enorme tristezza, specialmente quando il presentatore introduceva un libro che non aveva letto, se non di sfuggita. (Solo pochissimi sono in grado di non darlo a vedere. E generalmente non parlano in piccole salette). Quelle serate mi sembravano una mascherata, delle macabre celebrazioni. Era questa la mia vera preoccupazione. Io volevo una festa, qualcosa di autentico: avevo girato mezza Milano per trovare una location piacevole, colorata, magari perfino chiassosa, una location che potesse trasmettere intimità, per mettere a proprio agio i miei amici e chi avesse partecipato.
Al Le Trottoir arrivai con quattro ore di anticipo sull’appuntamento. Non c’era ancora nessuno oltre a me e al barman. Mentre mi trovavo ad “addobbare” il locale con alcune frasi del libro, entrò Pinketts. Non ricordo esattamente cosa ci dicemmo, ricordo solo che mi fece una domanda. E da quella domanda capii che mi aveva letto, che mi aveva letto veramente. Nell’ora antecedente la presentazione se ne rimase rintanato nella sua saletta (sala Pinketts); di tanto sbirciavo: sfogliava il romanzo, scriveva. Poi arrivò il suo momento, prese il microfono in mano, fece un piccolo siparietto e attaccò, con una fluidità di discorso che mi permette oggi di riportarlo testualmente sulla pagina scritta (e chi ha preso un microfono in mano sa di cosa stiamo parlando) 
“Questa è un’opera prima. E non solo, è la prima presentazione di un’opera prima. Però io non credo che esistano in effetti le opere prime, in quanto esiste una fase temporale, una sorta di iato – di buco persino – che è il prima dell’opera prima. Nel senso che, nel momento in cui l’opera viene pubblicata, è già stata vissuta almeno due volte. Il momento in cui è stata scritta e il momento in cui qualcosa ha fatto sì che venisse scritta. La pubblicazione forse è il gesto estremo. Quindi un’opera prima in realtà ha avuto già due vite precedenti. Tutto ciò che è stato pensato, sofferto – non necessariamente parlo di sofferenza nel senso di dolore, ma sofferto in quanto rodato nella propria camera delle torture che si chiama esperienza – e poi la prima grande liberazione che è la stesura. Nel momento in cui scrivi ti liberi, racconti qualcosa da cui sei appena – magari in modo malandato – uscito. E allora è veramente liberatorio. La terza fase che è questa – noi in realtà siamo alla terza fase – è quella in cui ciò che hai vissuto e ciò che hai scritto in fondo non ti appartengono più, o perlomeno non appartengono solo a te. Appartengono a tutte le persone che leggeranno il tuo libro.” 
Parlò del mio romanzo per quaranta minuti, tenendo alta l’attenzione con la sua dialettica divertita, colorita, ma mai volgare. Ad un mese dall’uscita, nessuno lo aveva ancora letto (ad eccezione della mia famiglia, di qualche ragazza ed una manciata di amici con la A maiuscola) e pochi sembravano interessati a farlo. Ma Pinketts lo aveva fatto, senza chiedere nulla in cambio, e conosceva ogni anfratto, ogni fessura di quanto avevo scritto. Essere geniali non basta per essere grandi. Bisogna anche essere generosi, spendersi per gli altri. E Pinketts lo era. 
Lo capii quel giorno. 
E capii perché era così amato.

Pinketts accettò di ribattezzare il mio romanzo ad un anno di distanza. Quando glielo chiesi mi disse: “Ma come, è già passato un anno?” Diluviò anche quel giorno. Pinketts si presentò con un occhio nero. Raccontò di un tafferuglio con due balordi tornando a casa la sera prima. Ma anche con un occhio nero era sempre Pinketts. Ironico, autoironico, capace di veri guizzi letterari, durante il suo discorso scansò con classe le provocazioni di un tipo, che tra il pubblicò gli urlò: “Andiamo a casa! Andiamo a casa!” 
“Scusa” disse lui, interrompendo il suo discorso. Poi guardandolo negli occhi, tra il serio e il faceto: “Guarda che ho ancora una guancia che funziona”. 
Scoppiarono delle risate. Poi poté proseguire il discorso. 
Questo è Andrea G. Pinketts, dove G. sta per Grande.
E’ stato il mio padrino.
E lo sarà per sempre.

Andrea G. Pinketts è un eterno adolescente che gioca a fare il duro. Ed è un romantico, un sentimentale. Di quelli veri. Di quelli che cercano di nasconderlo, che si lasciano andare raramente (lo si fa per difendersi, per prendere le distanze dal falso o facile sentimentalismo che gronda ovunque). Di lui, dei suoi libri, di tutto quello che si potrebbe scrivere, a me piace ricordare le sue dediche (a volte più poetiche di molte “poesie”). Quelle che aprono un libro, quelle che raccontano – più di molto altro – una vita.

Lazzaro vieni fuori, Feltrinelli 1992

Per Eugenio Borganti

che, adesso, forse, è in Paradiso
perché è stato il mio angelo custode,
che adesso, forse è all’inferno
perché ne sapeva una più del diavolo
ma che di sicuro è qui
nel cuore di carta e sangue
di questo libro
che senza di Lui non sarebbe stato scritto.

Il vizio dell’agnello, Feltrinelli 1994

Per mia madre

Quando ero piccolo
Volevi che crescessi
Buono, bravo e ubbidiente.

Ne hai azzeccata una su tre,
mamma:
in effetti dicono che sia 
piuttosto bravo.

Con tutte le parole
Che rimpiangerò 
Di non averti detto

Andrea

Il senso della frase, Feltrinelli 1995

Per te nonna
Ruvida e tenera
Adesso che a novant’anni 
Sei costretta a bere con la cannuccia
(se non altro bevi) vino.
Per te che mi trovi bellissimo
Anche se preferiresti il nonno
O Clark Gable.
Per te che mi accompagnavi ai giardini pubblici
ora che hai un po’ di paura di accedere
al tuo giardino privato.
Non preoccuparti. Stavolta ti accompagno io.

Io, non io, neanche lui, Feltrinelli 1996

Questo libro è per Fernanda Pivano
che, pur essendo rigorosamente astemia,
ha frequentato i peggiori sbevazzoni della letteratura
riuscendo con le sue istituzioni,
la sua sensibilità e le sue traduzioni
a renderne profumato
perfino l’alito.
Con affetto

Il conto dell’ultima cena, Mondadori 1998

Per Cristina Rogledi.
E per tutte le Cristine
E persino per quelle che
Non si chiamano Cristina.
Ma magari Esmeralda
O “Bambola”.
Mi hai (avete) insegnato
Che essere virile non sempre
Significa essere “un Uomo”!!!

Il dente del pregiudizio, Mondadori 2000

Questo libro è per Virginia. Non ho il dente avvelenato con lei anche se adesso mi sorride a bocca chiusa. E’ entrata nella mia esistenza in punta di piedi forse perché è una ballerina, senza fare rumore. Solo musica.
Io invece, essendomi distratto per vederla volteggiare, sono inciampato in un negozio di cristalleria facendo un casino della madonna.
Comunque Virgi è prima di Mary Poppins, di Wendy e di campanellismo.
Con tutto il mio infantilismo

Fuggevole turchese, Mondadori 2001

Questo libro è per una ragazza che ho conosciuto alla BIT (Borsa internazionale del Turismo).
Non ricordo il suo nome, figuriamoci il suo cognome.
E nemmeno l’aspetto fisico.
Ciononostante abbiamo parlato per ore del mio argomento preferito: me.

Probabilmente non esiste, come Tex Willer, oppure se esisti hai la stessa morale di una ninfa che non deve dimostrare di non essere ninfomane. Quindi a te, vaga, bellissima sconosciuta due proposte.

Proposta a) fatti viva, se esisti (0335-7064051);
Proposta b) permettimi di dedicare quest’opera (ovvio, ovviamente, se esisti) a

G.L BONELLI
L’uomo che si è fatto il western in casa
Perché lui era il West
E continua ad esserlo.

Nonostante Clizia, Mondadori 2003

Per Susy Wong,
che mi ha aiutato a rimarginare le ferite
ricucendole. Utilizzando come filo
quello del discorso, nuovo,
e come aghi unghie laccate di profondo affetto

L’ultimo dei neuroni, Mondadori 2005

Per Dirk,
del saloon di Laigueglia
che è stato
il Penultimo dei Neuroni
e mi ha lasciato
oltre ad un’immortale amicizia
una grossa responsabilità
il cui nome indiano
è traducibile in:
“Gatta da pelare”

La mia dedica personale (nel libro Il senso della frase)

Per te
che sei entrato in un mondo di carta
che hai contribuito a cercare.
Perché non prenda fuoco
senza la tua approvazione.