Classe 1989, vive a Solofra (Av). Ha studiato presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Salerno. Ama la compagnia di un buon libro, viaggiare per imparare, vagabondare per mostre e musei. Sostiene il Teatro di qualità, quello che pone degli interrogativi e contribuisce a formare la coscienza individuale e sociale, riuscendo ad emozionare e stupire allo stesso tempo.

È il 12 settembre 1986 quando, a soli trent’anni, muore in un incidente d’auto sulla Roma-Napoli Annibale Ruccello che, nonostante la sua giovane età, è riuscito a tracciare un solco profondo nell’universo teatrale italiano contemporaneo: c’è un prima e un dopo Ruccello.
La sua scrittura drammaturgica si sviscera attraverso una lingua potente, strenuamente costitutiva ma non connotativa, una commistione di suoni dialettali, ancestrali, di lingua colta e linguaggio dei mass media. Con ironia spesso salace, sguardo acuto e acido, indaga sulla scomparsa di riti e miti comuni, sulla trasformazione dell’immaginario collettivo nella società attuale. Ruccello porta sulla scena i suoi approfonditi studi antropologici sulla cultura popolare non solo napoletana, ultimo baluardo di una cultura primordiale e forte a cui ci si deve aggrappare per sfuggire al vortice dell’omologazione. La sua produzione è fortemente caratterizzata dal continuo contrasto tra la forte tradizione atavica e la modernità di massa, è intrisa dell’angoscia dell’uomo moderno nello scontro con la realtà esterna.
Le sue storie sono ambientate nella contemporaneità, tra gli anni ’70 e ’80 ad eccezione di Ferdinando, lo spettacolo che lo consacra al grande pubblico e lo lega ad Isa Danieli; in questo caso preferisce un’epoca antica, la fine dell’Ottocento, il periodo della sconfitta delle famiglie borboniche, rappresentate dalla Baronessa Clotilde Castaldo Luganegro rifugiatasi nella campagna napoletana in disprezzo della nascente cultura borghese, falsa e spregiudicata, che va affermandosi dopo l’Unità d’Italia. Vive con lei l’ambigua cugina povera Gesualda, che le fa da infermiera e carceriera. Tra le due si inserisce Don Catello, parroco assetato di potere e denaro, coinvolto in una relazione sessuale con Gesualda e con il sacrestano. A rompere la quotidianità stantia dei tre arriva Ferdinando, presunto nipote della baronessa, un giovane dalla bellezza morbosa e strisciante con ‘o nomme ‘e nu re, che getta lo scompiglio nella casa mettendo a nudo contraddizioni, disseppellisce scomode verità e spinge un intreccio apparentemente immutabile verso un inarrestabile degrado. Si tratta di un’opera innovativa che permette di scrutare la crisi delle relazioni umane del nostro tempo entro la cornice di un mondo passato; è un’opera complessa, intrigante e audace che attraverso una comicità grottesca presenta i drammi di una società che, ieri come oggi, è dominata dall’egoismo, dalla spregiudicatezza insolente e dall’opportunismo, una società amorale e senza valori, disillusa; una società materialista che non lascia indenne neppure il clero che trasgredisce al voto di povertà e di castità rivolgendo le proprie attenzioni a giovani ragazzi. Mettere in scena il mondo di Ruccello è complesso, presuppone fatiche, economie ed attenzioni che non è sempre possibile dare. Segnalo il recente allestimento di Ferdinando prodotto da Teatro Segreto per la regia di Nadia Baldi, che ha proposto un’affascinante rappresentazione tra il metafisico e l’onirico, arricchita dalle scene di Luigi Ferrigno, con Gea Martire nei panni della Baronessa Clotilde.
Recidendo ogni legame con le convenzioni piccolo-borghesi del teatro eduardiano, Ruccello porta in scena Le cinque rose di Jennifer. L’intero spettacolo si realizza in un unico ambiente, campo di battaglia dove si scontrano i dilemmi dell’anima, è il luogo mentale in cui ci si rifugia perché ciò che proviene dall’esterno è vissuto come intimidazione, inquietudine e angoscia. La protagonista è Jennifer, un travestito che vive le sue giornate nella speranza di una telefonata: gli orari, la spesa, il pranzo e la cena, l’impostazione della voce, il vestiario, tutto ruota intorno all’attesa di Franco, anche le canzoni trasmesse alla radio sottolineano questo amore impossibile e amaro. Il telefono è l’unico mezzo di comunicazione verso il mondo esterno, l’unica possibilità di sfogo: Jennifer, come gli altri travestiti, è isolata dalla società che non ne condivide il suo essere, la sua vita, l’ha confinata nel buio, nascondendola. Così quando anche il telefono resta muto, i giorni si ripetono monotonamente, riaffiora la solitudine, il dramma di un amore non ricambiato nella diversità. La vita diviene insostenibile. Barricata in casa, spogliatasi degli orpelli e della maschera, rifiutando se stessa, Jennifer sceglie la morte sparandosi. Una morte fisica presente dall’inizio alla fine, evocata dalla voce alla radio che annuncia ripetutamente di un maniaco che si aggira nel quartiere uccidendo barbaramente i travestiti. Una storia, uno spaccato di vita che ti colpisce violentemente, ti fa rabbrividire, emozionare.
La genialità di Ruccello continua a sopravvivere attraverso attori e registi che al suo teatro hanno fatto e fanno riferimento: tra questi c’è sicuramente Antonello De Rosa, talentuoso attore e regista salernitano, apprezzato dalla stessa madre di Ruccello, Pina De Nonno. In Jennifer, una produzione Scena Teatro, propone, con un’interpretazione magistrale, questa figura sospesa tra sogno e realtà, un’ombra leggera e incerta sulla linea sottile che divide il femminile dal maschile, continuamente alla ricerca di sé, della sua sessualità, della sua natura di uomo e della sua verità di donna. Jennifer cerca qualcuno che la ami per quel che è: né donna né uomo, ma uomo e donna contemporaneamente.