Fabio Orrico vive e lavora a Rimini dove è nato nel 1974. Ha pubblicato le plaquettes L'angolo (2000) e 20 poesie sullo spaesamento (2002), le raccolte di poesie Strategia di contenimento (Giulio Perrone Editore, 2005) e Della violenza (Fara editore, 2017). Insieme a Germano Tarricone ha scritto il thriller Giostra di sangue (Echos edizioni, 2015) e il noir Estate nera (Golem editore, 2017). Per Eroscultura è uscito nel 2016 il romanzo Il bunker in formato ebook. Scrive di cinema sul blog zonadidisagio.wordpress.com e di letteratura su scrittinediti.wordpress.com.

Padre spirituale di tutti i giallisti italiani, almeno secondo la vulgata, Giorgio Scerbanenco rappresenta l’anello più vistoso di una catena di scrittori che, seppure in modo minoritario, formano la tradizione del nostro noir. Da Augusto De Angelis, dallo stile insieme scabro e prezioso, passando per autori come Franco Enna, Attilio Veraldi o il duo Felisatti – Pittorru, scrittori formato tascabile, capaci di affondi notevoli ma ormai condannati all’oblio fino a un giallista dalla voce elegante come Renato Olivieri, ancora in attesa di una necessaria rivalutazione critica e che ha in comune con Scerbanenco la spiccata milanesità (solo quella a dire il vero). Inutile comunque stilare classifiche o stabilire alberi genealogici per questo mucchio selvaggio, per decenni snobbato dagli intellettuali e invisibile alla critica prima dell’esplosione (relativamente recente) del noir nostrano, dalle ascendenze più o meno pulp.
Scerbanenco è stato il più americano di tutti, per eclettismo e modi di produzione, senz’altro il più debitore alla scuola dei duri ma anche il più pessimista, il più scontroso, forse quello che ha figliato di più, quello più attuale, per come inquadra la metropoli, il boom economico e le sue derive ma anche il più datato, portatore di una sensibilità che inevitabilmente cozza con il DNA intimamente riformatore del genere.
Sensibilissimo indagatore delle differenze di classe, Scerbanenco si rende conto senza ipocrisie delle mutazioni di un sottoproletariato urbano, incongruamente impegnato a intercettare l’orbita dei grandi cambiamenti del dopoguerra; palpabile è nelle sue storie e nei suoi personaggi di giovani emarginati il desiderio di partecipare al banchetto di un benessere che si percepisce come alle porte anche se poi, vuoi che sia il fato, vuoi che sia l’immobilismo sociale, vuoi l’indole conservatrice dell’autore, tutto sfocia in tragedia. È la parabola dei protagonisti di Al mare con la ragazza, dove il plot criminoso viene innescato dal desiderio, per due fidanzatini sbandati della periferia milanese, di vedere il mare. Aspirazione tenera e drammatica, puerile e tragica. O la coppia di amiche di Europa molto amore, forse il suo romanzo migliore: una fuga on the road dall’Italia alla Germania attraverso una società chiusa, patriarcale e violenta, per molti versi in anticipo su film come Avere vent’anni di Fernando Di Leo (regista che ha fornito al Nostro i migliori servizi sul grande schermo) e, perché no, Thelma & Louise di Ridley Scott. Eppure, per quel che vale, non si può proprio dire che Scerbanenco abbia una visione progressista delle cose. La società non viene scalfita né fisicamente né ideologicamente dai suoi eroi perdenti, il male è dato come cosa certa, fardello che bisogna portare. Certo, Scerbanenco è abbastanza lucido da individuare il marcio, riconoscerlo e stigmatizzarlo ma raramente offre gesti di autentica ribellione. Siamo lontani, insomma, dalle posizioni antisistema di David Goodis o Jim Thompson (so benissimo che il paragone sarebbe ingeneroso per chiunque), nemmeno si irride al potere come fa il genio folle Chester Himes. Scerbanenco è più sintonizzato su una polarità bene / male. Per continuare coi paragoni americani: un Mickey Spillane senza superomismo.
Naturalmente c’è moltissimo da recuperare: la grande quadrilogia di Duca Lamberti, medico- detective radiato dall’albo per aver praticato l’eutanasia, costituita da Venere privata, Traditori di tutti, I ragazzi del massacro, I milanesi ammazzano al sabato (geniale fin dal titolo) è un bell’esempio di hard-boiled meneghino. Milano è città lugubre e tentacolare e se all’attivo abbiamo le intuizioni già accennate, sulla colonna delle idee irricevibili troviamo pagine di feroce omofobia (Scerbanenco descrive gli omosessuali come Sax Rohmer descriveva i cinesi, subdolo pericolo giallo nell’Inghilterra degli anni 10) e un sistema di valori tutto sommato improntato sulla triade Dio / Patria / Famiglia: il più anziano e già citato De Angelis aveva già saputo spingersi oltre. E comunque, nel bene e nel male, Scerbanenco resta autore con cui fare i conti nell’approcciarsi al genere, maestro di stile e di cupa e oscura morale.