Marcello Chinca ha svolto la professione di avvocato per venti anni sino al suo ritiro nel 2007. Svolge ora l'attività di critico letterario e d'arte. Scrittore

Lotta di classe

Di Marcello Chinca

Quel viaggio non l’aveva neppure immaginato, non credeva in effetti che fosse alla sua portata. Quando la sorella gli disse che poteva portare con sè un familiare, lui giubilò segretamente: Tokyo. Erano solo tre giorni, il viaggio più corto che avrebbe mai fatto, di cui 24 ore di aereo almeno.

In 1° classe per cena gli portarono un filetto al pepe verde e purea di patate, la hostess gli sturò un Barbaresco d’annata, poi un un bicchiere di Picolit friulano col dolce di carote. Lui era alticcio a dir poco. Si guardò distratto ‘Milk’ con Sean Penn nel ruolo protagonista, più tardi cercò di dormire, assopendosi solo a tratti.

In piena alba vide trascorrere dall’oblò l’interminabile distesa del Mar Artico rischiarato dal sole. Scorse gli ammassi di ghiaccio, le banchine polari, gli parve che per la stagione invernale la tenuta del manto mostrasse innegabili crepe, le estese banchise erano qua e là frantumate nonostante fosse inverno. Forse non si aveva torto a parlare d’allarme climatico dopotutto.

Che strano, pensò, quando stava trasvolando sul circolo polare artico: sopravvivere in un posto simile. Quel silenzio intangibile rotto soltanto dal crepitare dei ghiacci in collisione, dal fendersi di una lastra, quel suono stridulo inquietante, il balenio raggelante del vento scosso da chissà quale cresta che senza ostacolo ha attraversato miglia e miglia di piatte distese di tundra o deserto. Si rammentò di Jack London, del suo Zanna Bianca, di Salamon Gursky di Barney, con le slitte trainate dai cani, il fucile in spalla, i sbuffi dell’alito, la speranza iriducibile di saper vivere, di condurla la vita con le proprie mani.

L’approdo all’isola circumnavigò da Sud a Nord l’arcipelago del Giappone, le sue principali isole e città.  Rimuginò sul bombardamento di Hiroshima e Nagasaki, al volo in sicurezza del bombardiere sopra le isole, la mappa dove colpire, l’ordine di sganciare. La devastazione.

Giunti in areoporto lui e sua sorella s’avviarono col Pulmann verso il centro della città. Lui seguì dal finestrino il percorso mentre tutti i membri dell’equipaggio dormivano esausti e reclini sui sedili. Si inoltrarono col Pulmann dalla zona portuale a quella industriale, infine in quella amministrativa e commerciale, al cui centro lui sapeva che s’estendeva il parco imperiale con al centro la residenza dell’Imperatore. 

La città era servita da una robusta rete di strade di scorrimento su vari livelli, spesso solo a due corsie, con saliscendi ed uscite frequenti, il traffico procedeva senza intoppi particolari nonostante l’ora tarda del mattino.

All’ingresso dell’Hotel furono ricevuti dal sorriso marcato e solerte di un’impiegata, condotti tutti al banco della Reception. Una volta sistemati nella camera, dopo la doccia lui e sua sorella andarono a pranzare.

Molte attività commerciali e tutta la rete dei trasporti commerciali a Tokyo si svolgono sottoterra, incredibile quanta gente vi si ammassa al mattino. In confronto la città di sopra pareva deserta. Mangiarono in una nota spaghetteria, dopo una fila di un’ora, il posto era infatti molto rinomato. Lui avrebbe preferito una taverna di Sushi ma la sorella lo convinse di provarla quella spaghetteria, ne valeva la pena, disse. In effetti gli spaghetti al sugo di lepre erano ottimi ed abbondanti, al dente al punto giusto. Ci voleva!

Più tardi presero la metropolitana, una volta fuori s’inerpicarono per il sentiero che conduceva verso un tempio Shinto del XVI secolo immerso tra cedri ed aceri secolari.

Lui l’aveva notato da lontano, un vecchio in uniforme blu e slavata e relativo berretto con in mano la ramazza, nell’altra il raccoglitore di legno. Non c’era cartaccia, nè plastica, nè lattine o mozziconi di sigarette da raccogliere, ciò che raccoglieva quel vecchio erano unicamente foglie secche, una per una. Lo faceva con calma, ne raccoglieva una decina dentro il raccoglitore, quindi le gettava nei contenitori in legno lungo tutto il sentiero. Una signora gli si parò davanti, gli offrì una banconota, più volte s’inchinò al cospetto del vecchio, mormorando un ringraziamento. Il vecchio s’inchinò a sua volta, sorridendo e congiungendo le mani. Serafico, inappuntabile e come marziale.

Salirono al Tempio, una processione era in corso con a capo un monaco in vesti nere. C’era anche una solaresca in gita, bambine in uniforme bianca e blu, gaie a parlarsi e ridere sottovoce mentre risalivano la scalinata. I tamburi rituali echeggiarono nell’enorme sala lignea illuminata unicamente dall’esterno. 

Fecero il percorso inverso. Poco dopo, immersi nel traffico, tra la folla vorticosa del pomeriggio, si sentirono sguarniti e stanchi. Si presero un caffè. Visitarono qualche negozio di moda e qualche rivendita di elettronica di seconda mano.

Ad un incrocio, mentre stavano aspettando al semaforo, un anziano ingobbito e coi capelli grigi raccolti a codino, si fermò come folgorato davanti a lui. Lo fissò negli occhi, prorompendo in un sorriso di ostentato compiacimento, sicuro che anche l’altro lo avesse dovuto riconoscere a sua volta. V’era nello sguardo del vecchio anche una sorte di sbigottimento, esattamente la reazione di quando ci si imbatte in un amico perso di vista da tempo, un estraneo di cui, dopo decenni, tutto, l’aspetto, la fisionomia, tutto ci conferma, nonostante il dubbio, che si tratti proprio di lui.

Continuava a fissarlo, ora rivolgendosi a lui in giapponese, convintissimo che l’altro intendesse ogni sua parola. Lui gli sorrise equanime, allargò le braccia, scuotendo di rincrescimento la testa.

Il vecchio allora gli si appressò più vicino, lo scrutò negli occhi più a fondo, combattuto nella perplessità, come chiedendosi: E’ lui o no?’  Infine si chinò profondamente, offerendogli un saluto marziale, al cui gesto lui si inchinò di rimando. Il vecchio s’inchinò anche davanti alla sorella. Quando i loro sguardi s’incontrarono nuovamente, il vecchio pareva ancora esitare, gli indirizzò la sua benedizione con un segno della mano e se ne andò voltandosi per guardarlo ancora un paio di volte.

‘Chissà cosa aveva quel vecchio, cosa ha voluto dirti?’  chiese sua sorella. Lui non rispose, s’avviarono verso un negozio d’antiquariato sotto una rampa della Statale. All’uscita furono sorpresi da un’improvviso scroscio di pioggia e da una serie di tuoni.

Al riparo dentro il negozio videro il vicolo e la piazza riempirsi di ombrelli aperti, dai colori verde-mela, rosa-sbiadito, grigio-cenere, giallo cromo, blu cobalto chiaro, tutto pareva un quadro astratto dai toni levigati senza che si sentisse una voce. Videro la massa di colori muoversi con calma sotto la pioggia battente, il cielo oscurato, strade e vicoli qua e là attraversati da strati di nebbia e veli di vapori.

Quella visione lo colpì in particolare: quel confluire contrapposto di questi eserciti multicolori con gli ombrelli aperti come fossero insegne in marcia, senza mai segno di spazientirsi se il passaggio ne rallentava l’avanzare nella calca. C’era tutta la grazia di un popolo in quell’immagine di calma, salvo il continuo tuonare che echeggiava moltiplicato dai profili di acciaio dei grattaceli tutt’intorno.

Gli sarebbe piaciuto viverci in mezzo a gente così, solo per quella loro grazia, per quella loro educazione naturale e così spontanea. Non stupiva che l’organizzazione collettiva in Giappone fosse una delle più efficienti al mondo. Doveva essere una sorte di predisposizione della specie elaborò lui in conclusione, rivolgendosi alla sorella. Lei disse che sì, I giapponesi erano unici almeno in questo gusto della gentilezza che nessun progresso poteva erodere.

Quella sera lei preferì dormire subito. Lui s’intrufolò, assieme a dei colleghi della sorella, in una taverna Sushi. Seduti sui sgabelli a cerchio attorno al portavivande in rotazione, ognuno poteva scegliere un piattino diverso di Sushi, lui  ne mangiò moderatamente, quasi tutto a base di riso e tonno, spesso con l’aggiunta di Wasabi.

Poco dopo si trovò a passeggiare solitario per le strade frenetiche della Notte, coi vari locali, ristoranti  soltanto adesso traboccanti di giovani. Le ragazze vestite quasi sempre in minigonne e tacchi alti, ricolme di piercing, nastrini e bigiotteria. Qualcuno gli aveva riferito che queste ragazzine si tolgano le mutandine per donarle all’uomo prescelto, un segnale che ci stanno. I maschi col ciuffo alla Elvis, o coi capelli impomatati, in giubbotti di pelle chiodati rammentavano gli anni ’50. Si fece assorbire per il resto della Notte in quest’incessante fluire e ciangottare di voci di migliaia di ragazzi e ragazze. Quell’aria di festa, quest’effervescenza dei loro dialoghi serrati ed irridenti non gli dispiacevano.

Più tardi provò ad entrare in un locale, ma il buttafuori gli disse che poteva entrare soltanto con giacca e cravatta, ed indicandogli l’insegna luminosa gli chiarì che si trattava di un Night-Club. Con  bonomia  gli fece indossare presso il guardaroba una giacca blu di camoscio ed una cravatta color rubino.

Sul palco si stava esibendo una cantante locale in stile Liza Minelli nel film ‘Cabaret’, coi capelli neri a caschetto, il corpetto, il reggicalze in mostra, la sigaretta accesa in mano. La donna stava cantando  ‘Money, Money’ quando lui prese posto al tavolino. Ordinò uno skotch. L’interno era fitto di giapponesi dall’aria autocratica, ma anche di molti maschi occidentali, alcuni in coppia con qualche indubbia entreneuse.

Una ragazza giapponese in fusò lucidi e con un volto incantevole s’avvicinò al suo tavolo. Chiese in inglese se poteva sedersi. Lui annuì, indicandole con la mano il posto libero. Lei s’accomodò.

Per un pò seguirono la cantante sul palco. Lui pensò subito che fosse una entreneuse, intenta a rimorchiarlo. Quasi l’avesse intuito, lei riferì di essere studentessa universitaria, ultimo anno del corso di laurea in Economia.

Lei gli chiese da dove provenisse. Lui disse italiano, da Roma. Lei lo ricambiò con aria perplessa: ‘Italian? I don’t think you are italian? Really?’

Dovette spiegargli di essere nato a Francoforte sul Meno, che quindi era per metà tedesco, per l’altra italiano. Lei rise, disse di chiamarsi Noumi, si strinsero la mano con calore.

‘Come mai sola? Sorry! Why are you alone here?’

Noumi disse che spesso usciva sola, frequentava questo Night perchè era l’unico decente in città, la cantante poi era una sua amica. Anche lei studiava, ma Letteratura.  Lui confermò col mento.

Noumi si sentì in dovere di spiegargli che le capitava di guadagnarsi qualcosa con un cliente, nulla di scandaloso, molte facevano così qui a Tokyo. Lui decise che non s’era sbagliato sul suo conto. Lei era lì soprattutto per vagliarne la solvibilità, la capacità di spesa. Doveva costare un occhio della testa, concluse osservandola dispiaciuto.

Si presero un alto drink assieme.  Poi lui disse che doveva andare. Noumi arricciò appena il naso dalla delusione, gli occhi rivolti a lui in lacrime, già estranei, duri.

‘I have to go, I travel tomorrow, I’ll go to Rome. Sorry!’  Lei annuì, allargando un braccio: ‘Never mind, we’ll see the next time’

Il viaggio di ritorno lo rifece in 1° classe ma stavolta con accanto un musicista giapponese rinomatissimo a detta della Hostess responsabile di bordo, una vera celebrità in tutto il Giappone, gli specificò più tardi.     

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Il vecchio era molto curioso, e lui finì per parlargli della sua vita, dei suoi studi, nonchè della sua professione, tanto quello lo incalzava di domande.

Più tardi il vecchio prese a raccontare gli esordi della sua carriera di pianista, la sua collaborazione con Sakamoto, il successo e la famiglia.  Gli raccontò anche i tempi duri della guerra quando dovette sfollare con la famiglia da Kyoto, trovando rifugio in un’isola del Nord, da certi loro parenti che vi abitavano. Descrisse quei posti quasi con melanconia:  la bellezza delle coste,  boschi e pinete a ridosso del mare, l’aspetto frastagliato delle insenature, i porticcioli dei pescatori, dei pescatori di perle. Poi per un pò, vivadio, se ne stette lì in silenzio.

Lui approfittò per vedersi l’ultimo film di Estwood sulla battaglia di Iwo-Gima sul fronte degli americani.

Ma anche così il vecchio lo interrompeva di continuo, chiedeva nuovi ragguagli su di lui, dettagli che voleva conoscere assolutamente. Non riusciva a farsi un quadro esauriente del suo vicino Occidentale che per prima cosa aveva preso posto togliendosi le scarpe.

L’insistenza del vecchio a volergli parlare a tutti i costi lo sfibbrò, quando decise di non togliersi più gli auricolari e non interrompere più il film. Lo ascoltava a malapena continuando a vedersi le scene del film, rispondendogli a monosillabi. Infine il vecchio sconfitto lo lasciò in pace. Era una questione di principio: se lui aveva deciso di vedersi il film, cristo, l’altro non poteva disporre del suo spazio a discrezione, gli sembrò un affronto che diceva molto sull’intrasigenza dei Giapponesi.

All’alba seppe dal vecchio, in vena di pacificazione, che sarebbe stato in visita a Venezia, quindi a Firenze e Napoli.  Lui gli fornì dei consigli. Finirono per parlare di pianisti famosi, Monk, Deodato, Ellington, Corea, Herbie Hancock, Michelangeli, Gould,  per due ore, finchè lui non vide sua sorella di passaggio nel Galley di 1° classe.. Lui la presentò al vecchio, disse che quella Hostess era sua sorella.

In un istante intuì l’insieme delle riflessioni che il vecchio stava elaborando. Lui riuscì a coglierne nello sguardo corrucciato come un improvviso raccapriccio, come se lui l’avesse in qualche modo turlopinato.

Dopo averlo tenuto sveglio quasi per l’intera notte, divenne da ora in poi riservato, ristretto in uno spazio come colmo di degnazione.

Il vecchio sapeva di essere come trasparente di fronte all’altro, tanto quel pensiero latente della sua delusione, quella vigenza ancora attuale dello sguardo, non gli riuscì affatto ad edulcorarlo. Una caratteristica che lo fece riflettere, quella di non trattenere le emozioni più estreme, quando si sta tutto il tempo a nasconderle agli altri.

Solo a quel punto s’accorse che la signora e la giovane dietro i loro posti erano in realtà moglie e figlia del maliardo. La signora e la giovane si presentarono, sorridendogli impacciate, cercando con lui una conversazione con tutte le forze. Lui sapeva che lo facevano per distrarlo e al contempo come una sorte di riparazione. Distrarlo dagli esiti della gaffe appena avvenuta. Era un segno di gentilezza certo, doveva ammetterlo, le donne sanno sempre come comportarsi. Ma presto si stufò di quelle smancerie, preferendo leggersi il libro comprato alla libreria dell’areoporto di Tokyo, un’autobiografia di un vero Boss Yakuza.

Al solo vederne la copertina, il vecchio ridivenne arzillo e loquace, uscendo dal suo torpore. Chiese come mai stese leggendo quel libro. Lui disse che era interessante. L’altro di rimando chiese allora perchè fosse interessante.

‘Anche il mondo del crimine ha un indubbio fascino’

‘Ma lei è un criminale allora?’

‘I don’t thik so, I’m not a criminal! Absolutely’

Il vecchio sorrise a lungo, commentò che in Giappone ciascuno si tiene stretto alla sua classe di appartenenza, I Yakuza erano come tutti, regolati dalle loro leggi interne, responsabili davanti questo loro consesso, ma, dato che nessuno in Giappone è interessato a sapere di un altro se è estraneo alla sua classe, questo libro lo poteva giusto leggere un Occidentale, rimarcò con dispetto e un certo puntiglio nazionale. Gli aveva dato una delucidazione, un compito da portare a casa. E nello stesso tempo gli aveva spiegato così tutta la sua riluttanza di prima, il raccrapiccio con cui lo aveva malinteso come un suo pari. 

Avrebbe voluto demolirlo quel vecchio insolente, ne aveva una voglia terribile. Ma preferì tenersi alla larga. Senza nemmeno sfiorarlo col dubbio di un’argomentazione. Sarebbe stato inutile, tanto era radicato in quell’uomo il pregiudizio, così atavico da risultare inestirpabile.

Erano nel corridoio all’uscita dal Terminal di Fiumicino quando li incontrò tutti e tre. Le due donne lo salutarono, stringendogli le mani ed augurandogli ogni bene.

Il vecchio aveva continuato a camminare, ignorandolo palesemente. ‘Caparbio come un mulo legato al suo palo’ pensò lui, quasi divertito dall’affronto, dalla stizza con cui persisteva ad ignorarlo. Anzi il vecchio che vedeva incedere sui suoi passi incerti e strascicati, ora gli faceva pena: tutta quella reattività per niente, quella solo supponibile vulnerabilità tutta in superficie, quell’ergersi in uno scranno di degnazione per convenzioni che solo lui ha creduto violate. Quella violazione delle norme di quanto convenuto dagli uomini, magari sancito mille anni fa. Ma non è che gli voleva male al vecchio, lo accettava in fondo, gli voleva persino bene.

L’aveva in tasca il suo biglietto da visita, il vecchio glielo aveva dato durante il volo. Se lo portò davanti gli occhi. Naoya Matsuoka, Musicist & Composer, c’era scritto. Lo capiva dopotutto,  lo capiva , nonostante quella sua soperchieria del cazzo!

In copertina foto presa dal sito thndr.it