Graziella Enna, nata nel 1969 a Oristano, laureata in lettere classiche presso l’Universita degli studi di Cagliari, insegnante di lettere.

La caccia infernale in Iacopo Passavanti,  Dante e Boccaccio.

Di Enna Graziella

Con questo saggio l’autrice ha ricevuto il premio per la critica letteraria indetto dall’Associazione Culturale Euterpe

Nell’alto Medievo una mentalità profondamente religiosa informa ogni aspetto della vita e dà luogo alla concezione del contemptus mundi  che getta le sue radici in un’opera scritta da Lotario da Segni, alias papa Innocenzo III, “De contemptu mundi” in base alla quale i beni terreni devono essere aborriti e considerati  fonte di peccato, ogni cosa immanente si contrappone al trascendente e causa un allontanamento dell’uomo dalla spiritualità e dal suo fine ultimo, ovvero superare la caducità dell’esistenza terrena per giungere alla vera vita che è solo quella ultraterrena. Scrive Lotario che gli esseri umani da soli si riducono in una condizione spirituale miserevole:

“la concupiscenza della carne appartiene ai piaceri, quella degli occhi alle ricchezze, la superbia della vita agli onori. Le ricchezze generano appetiti e avidità, i piaceri partoriscono la gola e la lussuria, gli onori allevano la superbia e l’ostentazione”.

Ovviamente la posizione di Lotario risulta confinata ad una ristretta cerchia di esponenti del clero che possono fruire delle opere scritte, mentre i ceti inferiori, non alfabetizzati, non hanno la possibilità di accedere a opere di stampo teologico e tantomeno comprenderle. Perciò le omelie rivolte ai fedeli nelle chiese durante le celebrazioni oppure, caso molto più frequente, le predicazioni itineranti soprattutto ad opera di esponenti degli ordini mendicanti, diventano l’unica fonte di conoscenza per il popolo illetterato.

Nascono così gli exempla, ovvero dei racconti con finalità edificanti che sono facilmente fruibili da parte dei fedeli anche privi di cultura in quanto si presentano di facile comprensione, spesso traggono spunto dalle Sacre Scritture, dalle agiografie, (altro genere letterario diffuso nell’alto Medioevo), ma con una forte matrice favolistica. Ovviamente il loro scopo era quello di indurre l’uditorio a redimersi dai suoi peccati mostrando esempi dei peccati puniti talvolta con scene raccapriccianti e punizioni esemplari. Iacopo Passavanti, frate domenicano e famoso predicatore, scrittore ascetico, compose lo Specchio di vera penitenza, una raccolta di racconti semplici e persuasivi che colpiscono il lettore perché spesso vengono ricondotti a fatti o personaggi che sembrano convalidarne la realtà.

Un exemplum molto famoso è quello del carbonaio di Niversa

Un carbonaio, mentre svolge il suo lavoro, assiste ad una  tragica e agghiacciante scena di “caccia” in cui un cavaliere feroce su un cavallo nero rincorre una donna nuda e scarmigliata e, dopo averla afferrata, la accoltella e la getta nella fossa piena di carboni ardenti. Il carbonaio racconta la visione al conte di Niversa, proprietario delle  terre in cui egli fa il carbone, il quale vuole assistere di persona alla visione per chiedere spiegazione al crudele cavaliere di cotanta efferatezza.

Ecco la descrizione della visione:

 “Vidde venire una femina in verso la fossa, correndo e stridendo, tutta scapigliata; e drieto le venìa uno cavaliere in sun uno  orribile cavallo: e degli occhi e del naso e degli orecchi e de la bocca del cavalieri usciva fuoco ardentissimo. Giugnendo la femina alla fossa ardente, passò più oltre, e non ardiva d’entrare nella fossa; ma, correndo intorno alla fossa, fu sopraggiunta dal cavaliere che le correa dietro; e presela per gli sua lattenti capegli, e crudelmente la fedì per lo mezzo del petto col coltello ch’egli avea in mano. E cadendo in terra con molto spargimento di sangue, sì la riprese per gli insanguinati capelli, e gittòlla nella fossa de’ carboni ardenti, e lasciòlla stare per spazio di un’ora; e tutta focosa e arsa la ricolse, e così, ponendola in sul collo del cavallo, e con istrida, se n’andò per la via ch’era venuto”.

Il cavaliere racconta il motivo di tanta ferocia e accanimento: la donna in vita fu la sua amante e uccise il marito, perciò ora per la legge del contrappasso subisce la stessa sorte per mano del suo amante, così come in vita fu ardente d’amore per l’amante ora viene fatta bruciare nella brace infuocata, come nella vita aspettava e bramava il suo amante con desiderio, ora invece la sua vista le suscita odio e paura. Il cavallo stesso è un demonio che tormenta le due anime, che, tuttavia, essendosi pentite in articulo mortis, furono perdonate dalla misericordia di Dio e mandate in purgatorio dove devono scontare in questo modo la loro pena destinata a finire in attesa delle preghiere  e delle opere in loro suffragio.

«Poi che tu, Conte, vuogli sapere i nostri martirii, i quali Iddio t’ha voluti mostrare, sappia che io fu’ Gufredi, tuo cavaliere, e nutrito in tua corte. Questa femina contro a cui io sono tanto crudele e fiero, è donna Beatrice, moglie che fu del tuo caro cavaliere Berlinghieri. Noi prendemo amore di disonesto piacere, conducémoci a peccato, il quale condusse lei ch’ella uccise il suo marito; e così perseveramo infino alla infermità della morte. Ma nella infermità della morte, in prima ella e poi io ci conducemo a penitenzia, e confessando il nostro peccato ricevemo misericordia da Dio. Lo quale ci mutò la pena dello inferno in pena del purgatorio”.

E’ dunque evidente, da parte del predicatore,  la volontà di rappresentare una scena che turbi e scuota le coscienze dei fedeli e che agisca da deterrente in un periodo in cui il peccato e le colpe hanno il compito di incutere terrore e di far presagire le pene che attendono i peccatori nell’aldilà.

Boccaccio nella V giornata del Decameron fa una parodia celebre del suddetto exemplum, narrandoci la vicenda di Nastagio degli Onesti ma rovesciandone il significato e negando recisamente le ideologie medievali.

La novella, appartiene alla quinta giornata, dedicata agli amori a lieto fine, è raccontata da Filomena. Nastagio è un ricco borghese ravennate, innamorato di una fanciulla della nobile famiglia Traversari, la quale, per sprezzante alterigia, non contraccambia il suo amore. Un giorno, nella pineta di Classe (presso Ravenna), Nastagio assiste ad un avvenimento inverosimile e sconvolgente: una dama nuda,corre nel bosco inseguita da un cavaliere e da due cani. Egli vorrebbe intervenire in difesa della donna, ma lo stesso cavaliere gli spiega che si tratta di una scena dell’aldilà, una “caccia infernale” voluta da Dio. L’uomo si è suicidato per amore, la donna lo ha rifiutato ed è morta senza pentirsi. Per questo sono condannati entrambi: il cavaliere è costretto ad inseguire e ad uccidere con la spada la dama, che deve finire mangiata dai cani. La scena si ripete puntualmente ogni venerdì. La settimana successiva, quindi,  Nastagio organizza una cena nella pineta e fa in modo che vi partecipi la donna che lo respinge. Quando questa assiste alla scena della caccia, cambia immediatamente il suo atteggiamento e acconsente senza indugio al matrimonio con Nastagio.

Ecco la visione a cui Nastagio assiste

“Subitamente gli parve udire un grandissimo pianto e guai altissimi messi da una donna; per che, rotto il suo dolce pensiero, alzò il capo per veder che fosse e maravigliossi nella pigneta veggendosi. E oltre a ciò, davanti guardandosi, vide venir per un boschetto assai folto d’albuscelli e di pruni, correndo verso il luogo dove egli era, una bellissima giovane ignuda, scapigliata e tutta graffiata dalle frasche e da’ pruni, piagnendo e gridando forte mercé; e oltre a questo le vide a’ fianchi due grandi e fieri mastini, li quali duramente appresso correndole spesse volte crudelmente dove la giugnevano la mordevano; e dietro a lei vide venire sopra un corsier nero un cavalier bruno, forte nel viso crucciato, con uno stocco in mano, lei di morte con parole spaventevoli e villane minacciando”

Nastagio interviene: E cosí dicendo, i cani, presa forte la giovane ne’ fianchi, la fermarono, e il cavaliere sopragiunto smontò da cavallo; al quale Nastagio avvicinatosi disse: “Io non so chi tu ti se’ che me cosí cognosci, ma tanto ti dico che gran viltà è d’un cavaliere armato volere uccidere una femina ignuda e averle i cani alle coste messi come se ella fosse una fiera salvatica: io per certo la difenderò quant’io potrò”

La particolarità della novella consiste nel fatto, che, pur riferendosi a  Jacopo Passavanti e a altri precedenti nella letteratura medievale, è la negazione totale dello spirito del Medioevo, in quanto, come detto sopra, ne costituisce un rovesciamento e una parodia. La donna dell’exemplum è punita perché ha ceduto alla passione amorosa, qui invece perché è insensibile e fredda alla richieste dell’innamorato. Ma  alla fine la donna, sua sponte, dopo aver assistito alla scena della caccia infernale, cede alla pressante corte dell’uomo senza indugio. Ecco l’epilogo della vicenda:

“Per che, essendo ella medesima la messaggera, al padre e alla madre disse che era contenta d’essere sposa di Nastagio, di che essi furon contenti molto. E la domenica seguente Nastagio sposatala e fatte le sue nozze, con lei piú tempo lietamente visse. E non fu questa paura cagione solamente di questo bene, anzi sí tutte le ravignane donne paurose ne divennero, che sempre poi troppo piú arrendevoli a’ piaceri degli uomini furono che prima state non erano.”

Boccaccio pertanto stravolge completamente il senso dell’exemplum passando da un significato religioso a uno profano e laico. L’amore non e’ più  foriero di azioni peccaminose , ma in base ad una concezione naturalistica, tipicamente boccacciana, è un impulso irrefrenabile e insopprimibile connaturato agli esseri umani, che deve essere assecondato e non represso. La novella inoltre si distacca da ogni implicazione etica e pedagogica tendendo invece ad assecondare il gusto della narrazione realistica e dettagliata con tanto di descrizione del tormento del sentimento amoroso in Nastagio e di tutte le contraddizioni che ne derivano e che affliggono il suo animo. Perciò Boccaccio utilizza il tema della caccia infernale solo allo scopo di dimostrare, tramite il punto di vista del narratore interno,  Nastagio, che le donne devono essere accondiscendenti con gli uomini e non temere il piacere derivante dai rapporti amorosi. Il vero peccato per Boccaccio è quello di non cedere alla passione amorosa e agli impulsi erotici. In Passavanti non c’è la volontà di inserire nella narrazione tipi umani, ambienti o dettagli che facciano da contorno alla vicenda, lo scopo unico è la persuasione dell’ascoltatore e la dimostrazione pratica dell’impraticabilità delle passioni terrene che portano solo al peccato e alla perdizione.

Pertanto è chiaro che i due autori partendo da una materia affine giungono a due risultati completamente differenti che incarnano ideologie divergenti e opposte.

Il motivo della caccia infernale, descritto con toni cupi e tragici è ripreso anche da Dante in un episodio dell’Inferno in cui i peccatori che hanno sconsideratamente e volontariamente dilapidato i loro beni, sono sottoposti ad un evidente contrappasso: nere cagne fanno scempio di loro lacerandoli a brani che poi si ricomporranno (sebbene Dante non lo dica esplicitamente, è facilmente intellegibile),  per essere dilaniati di nuovo in un processo infinito di sofferenza. Così come il cavallo nero in Iacopo Passavanti,  i mastini feroci e il bruno corsiero in Boccaccio, qui gli esseri diabolici sono nere cagne che, in senso allegorico, secondo gli antichi commentatori, sono il simbolo della povertà, dei rimorsi e della vergogna e non solo provocano sofferenze atroci alle anime degli scialacquatori ma anche ai tetri cespugli dei suicidi che vengono fatti a pezzi dalla folle e scomposta corsa dei loro compagni di girone.

Noi eravamo ancora al tronco attesi,
credendo ch’altro ne volesse dire,
quando noi fummo d’un romor sorpresi, 111

similemente a colui che venire
sente ’l porco e la caccia a la sua posta,
ch’ode le bestie, e le frasche stormire. 114

Ed ecco due da la sinistra costa,
nudi e graffiati, fuggendo sì forte,
che de la selva rompieno ogne rosta. 117

Quel dinanzi: “Or accorri, accorri, morte!”.
E l’altro, cui pareva tardar troppo,
gridava: “Lano, sì non furo accorte 120

le gambe tue a le giostre dal Toppo!”.
E poi che forse li fallia la lena,
di sé e d’un cespuglio fece un groppo. 123

Di rietro a loro era la selva piena
di nere cagne, bramose e correnti
come veltri ch’uscisser di catena. 126

In quel che s’appiattò miser li denti,
e quel dilaceraro a brano a brano;
poi sen portar quelle membra dolenti. 129    

Nel XIII canto, Dante e Virgilio si trovano  appunto nel secondo girone del settimo cerchio, in un’ orrida selva di  bronchi contorti, scuri e spinosi,  ove sono puniti i suicidi e gli scialacquatori ovvero i violenti contro se stessi nella persona e nelle cose. I due poeti dopo aver conversato con l’anima di Pier delle Vigne, incarcerata in un cespuglio spinoso, apprendono la sua triste vicenda e come le anime di coloro che hanno rifiutato il loro corpo si leghino ai sinistri tronchi una volta giunte lì. Ma mentre attendono altre spiegazioni sono distratti da un tramestio e da un correre precipitoso.  La scena si apre con una similitudine che attiene al mondo della caccia, (un cinghiale che irrompe nel punto dove il cacciatore è appostato) e mostra un repentino cambiamento di tono nel canto: alla statica rappresentazione dell’incontro con i suicidi si contrappone il dinamismo e la paurosa visione della caccia infernale. Le anime nude e graffiate corrono velocemente e rompono ogni intreccio vegetale della selva, uno dei due invoca la morte, probabilmente auspica  un annientamento totale e la  fine della tortura; la prima anima, (Iacopo da Santo Andrea), cui sembra di non correre abbastanza in fretta, ricorda all’altra, (Lano), ironicamente, che le sue gambe non furono così veloci nemmeno durante il sanguinoso scontro in cui perse la vita, ma mentre parla, ormai senza fiato, si avviluppa in un cespuglio. Dietro ai fuggenti, nere cagne fameliche e veloci come cani da caccia appena sciolti dal guinzaglio, ghermiscono e affondano i denti sull’anima che si era appiattata e ne fanno scempio lacerandola pezzo per pezzo e poi se ne portano via le membra dolenti, provocando atroci dolori anche al cespuglio-anima, come è detto nella terzina successiva. Il motivo della caccia infernale è, anche qui, riconducibile alla letteratura religiosa medievale ma, oltre a ciò, scaturisce dall’ambientazione che viene descritta all’inizio del canto,  (la similitudine con i luoghi aspri della Maremma) in cui era normale che si svolgessero battute di caccia. Mentre negli autori precedentemente esaminati il tema della caccia infernale  è dedicato alle colpe d’amore, Dante invece rielabora il tema adattandolo a un altro tipo di peccatori ovvero i dissipatori e gli scialacquatori.

 Resta però un dubbio nel lettore moderno: il motivo per cui la letteratura abbia usato scene di caccia come strumento di punizione. L’attività venatoria,  in realtà, nonostante fosse  fondamentale nel Medioevo, non era vista in modo positivo dalla chiesa perché considerata un passatempo inutile e crudele con una forte componente voluttuaria che distoglieva dalla spiritualità e dai doveri dei cristiani. La chiesa esercitava infatti la sua influenza anche nel consigliare ai fedeli come occupare il proprio tempo libero, aborriva le attività sterili e improduttive, troppo piacevoli o foriere di un retaggio culturale di matrice pagana, come nel caso della caccia, che affondava le sue radici nella società germanica, (renitente all’evangelizzazione), in cui era praticata da uomini liberi che, tramite essa, dimostravano il loro valore e la loro forza. Inoltre essendo necessariamente  praticata in luoghi boscosi e selvaggi, costituiva l’emblema della devianza e la contrapposizione alla società civile, religiosa e improntata a valori ben radicati. Per tali ragioni  era vietata al clero e ritenuta disdicevole per qualunque buon cristiano. Ma esiste anche un motivo ideologico  atavico adottato dalla chiesa, ovvero la contrapposizione tra una società dedita all’agricoltura e all’allevamento che viene ritenuta più produttiva e civilizzata di una che  incentra sulla caccia  il proprio sostentamento. Infine, l’attività venatoria contribuisce ad enfatizzare la superbia e l’arroganza  dell’uomo nobile (essendo uno svago prettamente destinato ad una classe nobiliare),  che si fa forte della sua abilità e si allontana dall’umiltà, dalla carità e da tutti quei principi che nel Medioevo sono fondamentali per un cristiano dedito al perfezionamento della propria spiritualità, al contemptus mundi, in attesa della vera vita nell’aldilà. Queste ideologie erano sicuramente presenti a Iacopo Passavanti e a Dante che nei loro scritti utilizzano le efferate scene di caccia come exempla di punizione per chi cade nel peccato, mentre Boccaccio strizza l’occhio al lettore divertendosi a rovesciare gli ideali sacri al Medioevo che nella società del Trecento non trovano ormai più spazio.

Graziella Enna