Brunella Sacchetti nasce ad Avellino; frequenta il Liceo Classico cittadino e poi l’Università degli studi di Napoli ”Federico II” presso la facoltà di Lettere e Filosofia, dove si laurea nel 1975 in Filosofia con una tesi sul “Pragmatismo di Giovanni Vailati”, esponente del circolo di Peano; orienta la sua attività didattica verso i Licei Scientifici e poi Classici, nei quali insegna Italiano e Latino. Nell’ambito delle attività scolastiche, si è attivata a lungo a promuovere negli studenti una formazione aperta alla comprensione del Teatro Classico e Contemporaneo; in particolare ha ottenuto di poter mettere in scena a Siracusa, nell’ambito delle iniziative dell’INDA ( Istituto Nazionale del Dramma Antico) un paio di adattamenti teatrali, da lei curati: uno sull’Alcesti di Euripide con innesti dell ‘Alcesti di Marguerite Yourcenar, un altro su “La morte della Pizia”di Friedrich Dürrenmatt. Ha curato ricerche archeologiche legate al territorio irpino, pubblicando “Quaderni di Archeologia”. Gli interessi più forti si sono andati, poi, concentrando sulla poesia contemporanea; in particolare si interessa a poeti meridionali e irpini a cui ha dedicato diversi contributi, sia pubblicati in antologie specifiche, sia esplicitati in convegni e conferenze. Attualmente sta curando per “Lottavo” una rubrica di “Cinema e Storia”, rivolta al decennio del ’68.

“Se mi tornassi questa sera accanto” di Carmen Pellegrino: il giudizio di Brunella Sacchetti

Introduzione di Carmine Maffei

Quando nell’aprile del 2017 lessi “Se mi tornassi questa sera accanto” (Giunti), capii subito che questo romanzo scritto da una meravigliosa autrice cilentana, Carmen Pellegrino, sarebbe stato capace di portarmi lontano, ed infatti così fu. Nel maggio dello stesso anno, insieme alla mia rock band, gli Ordita Trama, vinsi un concorso nazionale per cui avevo il diritto di distribuire un singolo. Così, per l’occasione, scelsi di scrivere un brano che s’ispirasse al sopraccitato libro, e nello stesso tempo espressi i miei giudizi sull’opera di narrativa alla mia migliore amica, donna colta e straordinaria, docente di Lettere, oltre che madre della mia sposa: Brunella Sacchetti, recentemente scomparsa. Brunella, che nel frattempo iniziava la sua lunga battaglia che purtroppo avrebbe perso poco più di due anni dopo, dimenticò i suoi tormenti e si entusiasmò molto all’idea di un mio brano che prendesse ispirazione da un romanzo. Così, per tale occasione, decisi di regalarle una copia per invitarla ad una sua attenta lettura. Il romanzo di Carmen Pellegrino fu apprezzato molto dalla prof,ssa Sacchetti per i suoi nobili contenuti, e per tale occasione ella decise di scrivere alcune note che comprendessero le emozioni che ne erano scaturite e, inedite, a me le donò, garantendomi che tali osservazioni mi avrebbero aiutato nella stesura del testo e nelle composizioni della musica. Lessi lo scritto in cui a breve vi immergerete e restai folgorato dall’attenta lettura e dall’analisi inedita che ne era uscita. Ora, a più di due anni di distanza e qualche giorno dopo la sua dipartita, ho deciso col permesso del sempre devoto consorte di Brunella, Enrico Cammino, anch’egli professore di Lettere, di pubblicare questo scritto di notevole bellezza e rarissima intensità. Ad Enrico, che in questi giorni mi ha parlato di Foscolo con tanta emozione, vorrei dedicare questo evento, e per tale sentimento mi piacerebbe comparare gli scritti di Brunella al grande poeta italiano, il quale, ne I Sepolcri, come mi ha insegnato il prof. Cammino, sosteneva che la disfatta di un popolo perdente che avesse combattuto strenuamente per la salvezza della patria si esaltasse soltanto dalla forza evocativa della poesia, divenendo così immortale e feconda. Mi piace così pensare che Brunella Sacchetti, l’autrice dello scritto che state per leggere, abbia trovato nella sua disfatta a seguito di una lunga battaglia coraggiosamente affrontata, una rassegnazione che però fosse osannata dalla forza emozionante delle sue parole, che eterne ci fanno intuire quanto immortale possa essere la scelta di un pensiero scritto, urlo di dolore di un animo tormentato, ma testimonianza di un’espansione d’animo che possa esaltare la vittoria della parola sul senso figurativo e segmentario di un’esistenza terrena ingiustamente interrotta.

Carmine Maffei

“Se mi tornassi questa sera accanto “: la lettura interpretativa di Brunella Sacchetti

Il romanzo di Carmen Pellegrino, “Se mi tornassi questa  sera  accanto”, sembra voler confermare un noto e illuminante giudizio critico del grande Giulio Ferroni circa la capacità della letteratura di opporre “resistenza” al degrado evidentissimo della civiltà occidentale, anche, se non soprattutto, nella sua dimensione più essenziale di vita quotidiana. Ferroni sostiene che la letteratura  “resiste contro l’assuefazione all’orrore, contro la tendenza a considerare come normali le situazioni più assurde ( dalla spregiudicatezza delle trame politiche, alla spicciola aggressività quotidiana, al potere sempre più ampio della criminalità organizzata, al diffondersi di comportamenti sociali aberranti..).  La Letteratura continua a mostrare che questo in cui viviamo non è assolutamente il migliore dei mondi possibili, che è necessario pensare a una vita diversa, civile, razionale, libera e tollerante, non determinata dai meccanismi ciechi della produzione, dell’accumulo e della distruzione degli oggetti inutili” ( cfr, Giulio Ferroni, “Storia della letteratura italiana: Il Novecento” ,   vol. IV,  12.3   –   Einaudi ).

Ed infatti Carmen Pellegrino costruisce una storia di “resistenza”, quella  di un personaggio, Giosuè Pindari che è alla ricerca del “migliore dei  mondi possibili”, proprio quando, nel  1992, con Tangentopoli, viene  disvelato il peggiore degli inganni, quello perpetrato per assurdo da un’antica e nobile ideologia, il Socialismo, che, fattasi partito di potere, aveva trascinato tanti dei suoi sostenitori nella vergogna della corruzione, acclarata e messa alla sbarra.  Tocca a Giosuè ripensare un’utopia in grado di ridare forma al pertiniano ideale di “libertà e giustizia sociale”; ma un ideale ha bisogno di essere condiviso perché assuma l’aspetto di una possibile prassi civile. Con chi condividere la rifondazione di una Costituzione valoriale?  I Compagni antichi sono andati per altre vie, qualcuno si nasconde  tra le mura di casa, altri si sono camuffati nelle nuove e vincenti organizzazioni di partito; la moglie? Nora si è barricata in una complessa patologia, seria e devastante sul piano relazionale e familiare, dopo aver, tuttavia, provveduto a lasciare messaggi  variamente criptati in diverse parti della casa. La figlia? Certo un figlio è quanto di meglio c’è per condividere un progetto ideale, benché ancora sostanzialmente ignoto. Lulù diventa, così, per Giosuè la destinataria della sue speranze di riscatto per un nuovo socialismo; viene cresciuta in una sorta di autarchia pedagogica alla Rousseau, le viene assegnato un futuro di studi e lavoro ancorato alla terra: farà l’agronoma, perché per Giosuè è dalla terra che bisogna ripartire ( ma lo pensavano anche Rousseau e Voltaire…torniamo a coltivare i nostri giardini…); e soprattutto Lulù non doveva farsi bloccare e deviare da storie sentimentali!

Ovviamente Lùlù, dopo aver condiviso tra infanzia e adolescenza il progetto paterno, carico di illusorietà illuministica, scappa via dai due genitori, una madre che porta il nome dell’ibseniana protagonista di “Casa di bambole”, e ne porta anche le stigmate di una ossessiva paura della vita, e da un padre, un misto di De Amicis  e Collodi, costruttore di statuti giusti e libertari e, al contempo, di splendidi prototipi umani, dei piccoli“pinocchi” destinati a diventare uomini e donne perfetti in un mondo altresì perfetto.

Ma la perfezione è un guscio stretto che non si confà  a Lulù, che non è affatto un burattino, e l’Ideale paterno viene avvertito come una pietrosa prigione, pur lasciandole dentro il senso di una struggente e inevasa istanza di “riconciliazione”. E questa è la parola chiave del romanzo, che si concluderà, perciò,  con l’ipotesi di un Natale vissuto insieme, con tanto di Presepe  (anche Eduardo cercava una riconciliazione familiare e civile…)

Partendo da un disegno, per altro complesso e inquieto, viene da fare una prima osservazione  relativa all’interessante, ma anche un po’ inquietante, contesto storico-ubicativo; si potrebbe parlare di “terza Repubblica”, di epoca berlusconiana e post-berlusconiana; di fatto il romanzo si protende verso questo nostro mondo coevo, per il quale lo stesso ’68 è una lontana preistoria ben poco studiata e per niente capita, con il suo codazzo di terrorismi e mutazioni civili e sociali con cui stiamo tuttora combattendo; in questa direzione  i personaggi Giosuè, Nora, Lulù, e tutti i pochi altri, sembrano  increduli abitatori di un “the day after”  nel cui  cielo brilla “l’Ignoto ideale”, un dio non sempre rassicurante come vorremmo.

Questo Tempo ubicativo  di Storia contemporanea  legittima e struttura un tempo della narrazione che risulta quanto mai volutamente disarticolato, in un andirivieni di passato, presente e futuro; il lettore è chiamato ad una continua ricostruzione cronologica che prevede una complessa e intrecciata fabula di eventi disparati, dal terremoto del 1980 con l’epica figura di Pertini, all’incontro di Nora e Giosuè, alla nascita di Lulù e poi alla sua crescita, ai suoi studi, alla sua fuga. L’unico vero punto fermo  che presenta una continuità storica, un succedersi temporale sequenziale, è dato dalle lettere che Giosuè invia a Lulù; sennonché quelle lettere appartengono certamente ad un continuum temporale, ma non hanno una dimensione spaziale  normale o naturale: sono affidate, chiuse in bottiglie da vino, all’acqua del fiume, alla leggerezza imprevedibile dell’archetipo più fluido che esiste. Il Fiumeterra, d’altra parte, era stato lo scenario della formazione di Lulù, lì Giosuè la conduceva per il reiterato battesimo ideologico, contando sulla forza  trascinatrice delle acque nate dalla terra, affinché Lulù si aggrappasse al suo progetto di vita civile.

Certo l’epistolario contenuto nel romanzo costituisce uno degli aspetti più importanti della scrittura di Carmen Pellegrino e denuncia una sottesa appartenenza della  scrittrice all’antica e illustre realtà degli epistolari e romanzi epistolari dei secoli scorsi; da tempo non solo non si scrivono lettere, se non di natura burocratica, ma non si utilizzano proprio più neanche nel sistema letterario; è evidente che si tratta di un preciso, e credo voluto,  segnale di distopia culturale e politica : Giosuè è un “laudator temporis acti” che crede e vuole credere alla terra, ai fiumi e alle “lettere” , all’impegno e al socialismo, in barba a tutto.

Comunicazione letteraria per eccellenza, nei lunghi secoli della nostra storia culturale, l’epistola si è proposta ora nella versione “finta”, strutturata a livello immaginativo e fantastico  ( i grandi romanzi epistolari…), ora come autentico documento con cui studiare scrittori, intellettuali, artisti e scienziati; ha rappresentato , comunque sempre, un dato di interesse critico-interpretativo unico ed irrinunciabile; di fatto  nel romanzo della Pellegrino è l’epistolario di Giosuè a Lulù che costituisce la definibilità di Giosuè a protagonista e a distopico intellettuale “appenninico”:  un intellettuale fatto di “roccia”, che, tuttavia, scrive sull’acqua, con una moglie denervata che scrive su carta, ma con l’inchiostro simpatico, scrive di storie di morti e funerali. Carmen Pellegrino, dunque, mentre ci racconta di vicende di politica contemporanea, in verità ci informa del destino dello scrittore odierno: scrivere senza che nessuno possa o voglia leggere, affidare all’invisibile scrittura distorta e criptata, messaggi sulla prossimità della morte, lasciare al caso del panta rei la richiesta affettiva di un padre disperato che aspetta riscontri di vita e di continuità.

Il romanzo della Pellegrino ci riguarda, perciò,  tutti e racconta la nostra condizione: siamo tutti genitori che hanno figli sempre più lontani e irrintracciabili, ai quali le nostre parole arrivano, se arrivano, pesanti come massi appenninici e se siamo scrittori, la nostra scrittura, in assenza di parole, arriva di sbieco,tanto da doverla  riflettere in uno specchio,  capovolgendola perché sia, forse, in parte, compresa. E’ ancora l’ assurdo, e  beckettiano, dialogo silente e allucinato, dove, in ultima analisi, solo in un altro luogo, con un altro fiume, un’altra sorte di padre disilluso, Andreone, suggerisce una parola pressoché risolutiva:   riconciliazione…

E se la letteratura è, alla maniera di Ferroni, resistenza e opposizione, quando essa si fa anche involontariamente, affetto ineliminabile, nodo sacrale di famiglia, allora solo la riconciliazione è possibile, auspicabile, anzi ineludibile.  Che sia essa l’ignoto Ideale di un eterno ciclico, affettivo, autentico , libertario, giusto, Socialismo?

Brunella Sacchetti