Simone Gambacorta è nato nel 1978 e lavora nel giornalismo e nella cultura. Vicepresidente dell’Ordine dei giornalisti d’Abruzzo, presidente della giuria del “Premio Teramo per un racconto inedito” (del quale in passato è stato segretario), è direttore del “Premio Giuseppe Zilli per il giornalismo”. Socio della Deputazione abruzzese di storia patria, dell’Istituto abruzzese di ricerche storiche e della Società napoletana di storia patria, è componente del “Comitato per il centenario della nascita dello scrittore Michele Prisco”, istituito presso il Mibact. Responsabile per otto anni delle pagine culturali del quotidiano teramano “La Città”, ha pubblicato interventi di critica letteraria sulle riviste “Studi medievali e moderni”, “L’indice dei libri del mese", “L’illuminista”, “L’ottavo”, “Fata Morgana Web” e “L’immaginazione".

Di Simone Gambacorta

La prima cosa che mi colpisce, nella casa di Michele Prisco, è l’ordine in cui sono disposti i libri. Le pareti ne sono tappezzate e sono distribuiti per lo più secondo due criteri: per genere (poesia, narrativa, saggistica) e per collane. A guidarmi in questo piccolo tour sono Annella e Caterina, le figlie dello scrittore scomparso nel novembre del 2003 (era nato nel 1920). Mi mostrano anche la scrivania dove il padre ha scritto buona parte dei suoi romanzi. Dico buona parte e non tutti perché – mi spiegano – scriveva anche d’estate, nella casa di villeggiatura a Vico Equense.
Sono arrivato a Napoli da nemmeno un’ora e mi ritrovo immerso negli ambienti di questo scrittore che adesso, nella sua assenza, mi si lascia immaginare nella sua veste più quotidiana. È sera, domattina saremo tutti alla presentazione di un libro su di lui, e dalle finestre di questa casa sulla collina di Posillipo si vede intero il golfo. Natura e cultura, golfo e libri, sono i panorami dominanti di un ambiente che parla di romanzi come Una spirale di nebbia (Premio Strega nel 1966) o Lo specchio cieco.
La scrivania è ancora come lui la lasciò l’ultima volta che vi sedette. A guardare quel che vi sta, tutto lascia pensare a un’interruzione abituale (un pasto, una passeggiata, la telefonata a un amico), tutto conserva un’incipienza, tutto ha l’aria d’essere in attesa di un ricominciamento. I suoi occhiali, a mo’ di un fermacarte, sono posati sulla corrispondenza che avrebbe dovuto leggere e che invece non è riuscito a evadere. Sono occhiali grandi, simili a quelli con cui, nel corso degli anni, è stato immortalato in questa o quella fotografia. Mi dicono che, in casa, ogni qual volta si fanno le pulizie, si presta la massima attenzione affinché tutto, dopo, torni esattamente dov’era. Annella e Caterina non hanno voluto creare un sacrario, soltanto hanno voluto perpetuare uno stato d’animo. Qui si ha una sensazione di vita ordinata, di riti replicati ogni giorno nel conforto delle abitudini più amate. Non è un monumento domestico, è casomai una foto ricordo mai scattata, lasciata al suo stato potenziale, al suo stato di verità, al suo essere un insieme di cose cariche di vissuto, immortalate nell’ordine della fedeltà ai gesti di chi le usava (cose, non oggetti, insegna Bodei). È un modo – mi dico – per proteggere un’atmosfera affettiva, il capitolo portante di un “lessico famigliare” in cui tutto racconta di un uomo che non c’è più, e nel suo stile: molto ovattato, molto misurato.
Mi viene da pensare che più volte, mentre leggevo Prisco, mi sono distratto e mi sono chiesto come e dove fosse nata quella scrittura vellutata, e così più volte me lo sono immaginato preso al suo lavoro, su una scrivania alla quale adesso riesco a dare un volto come se lo dessi a una persona.
Vedo anche i suoi dischi, tenuti lì a portata di mano come si fa con gli strumenti di lavoro più utilizzati, e di questo in effetti si tratta, perché Prisco, quando scriveva, lo faceva con un sottofondo di musica classica: e dunque come la penna (un pennarello, nel suo caso) o come il vocabolario quei dischi erano importanti. Incontro con lo sguardo anche i libri del suo amico Flaiano («uno dei doni che mi ha riservato la vita», disse Prisco in un’intervista a Gioconda Marinelli, divenuta poi Una vita per il romanzo): quei volumi sono le superstiti pacifiche sentinelle di un’amicizia che sopravvive attraverso le sue stesse tracce.
Mentre osservo e ascolto quanto Annella e Caterina mi raccontano, penso che se mi trovassi nella casa di uno scrittore morto un secolo fa, non so se avrei la stessa sensazione che ho adesso. Adesso ho una sensazione di vicinanza. Non affettiva, naturalmente, e mentirei se lo dicessi, perché Prisco, purtroppo, non l’ho mai conosciuto, nemmeno l’ho incontrato, e d’altro canto, per quanto possa averne amate le pagine, non potrei dire che quest’attrazione per le sue parole sia assimilabile a un sentimento d’affetto. Se lo facessi enfatizzerei le cose nel modo temo più vieto, sovrapporrei un’attrazione intellettuale a un rapporto umano. La vicinanza di cui parlo è invece una piccola vertigine: però, ecco, ora che l’ho scritta, questa parola – vertigine – mi pare inadatta a esprimere quel che vorrei dire: inadatta e gonfia. La mia intenzione è altrimenti orientata: vorrei riferirmi a qualcosa che ha a che fare con un disallineamento, con uno scarto dalla norma. Penso a un gioco e lo improvviso sottoforma di domanda a me stesso: come potrei spiegare quel che sto provando a dire se fossi in un romanzo di Prisco? Mi dico che probabilmente, dopo questa piccola overture incipitale, aprirei un secondo capitolo di ricordi, farei un salto analettico. Lo faccio, e allora mi torna in mente che qualcosa di simile l’ho provato – ed è stata la sola volta – alcune estati fa, nel mio Abruzzo, a Civitella del Tronto, la rocca con l’antica Fortezza che si alza nell’entroterra teramano e da cui, quel pomeriggio d’agosto in cui vi fui accolto da un amico, oltre la vallata del Vibrata e le campagne, il mare si vedeva con un nitore che davvero pareva di poterci arrivare col dito, se il gesto del tendere la mano non fosse stato troppo infantile, censurabile dai pudori che fanno da involucro alla vita degli adulti. Quel pomeriggio ebbi un pensiero elementare e però per me a suo modo rivelatore. Dalla costa aprutina, in una qualunque spensierata estate di assolta gioventù, quando si è fra amici, quando ci si diverte tra spiagge e tuffi, al solo nominarlo, un borgo come Civitella suona come quanto di più distante possa pensarsi: e invece, quel giorno, da quella prospettiva così pulita, e al cospetto di una prossimità tanto inedita, mi venne in mente che talvolta tutto è vicino, più vicino di quanto l’abitudine autorizzi usualmente d’avvedersi.
Sicché niente altro che questo penso in casa Prisco: che le cose, qualche volta, sono vicine, vicine e inaspettate, e che a fare la differenza è semplicemente il fatto che non lo sappiamo, e che per comprenderlo non occorre granché se non un’esperienza, foss’anche di poco momento, che valga a dimostracelo. A quell’esperienza mi piace dare il nome di disallineamento.
La mattina successiva, prima della presentazione del libro, faccio quattro passi sul lungomare: il giornale, un mezzo Toscano (ancora fumavo), un caffè. Mentre sono al tavolino, all’aperto, in questo sabato di aprile così luminoso, penso che Prisco non avrebbe potuto fare altrimenti da quanto fece, nel rifiutarsi sempre di trasferirsi da Napoli in altre città. Non soltanto per questioni sentimentali, ma per ragioni legate alla sua scrittura, e strettamente: alla sua narrativa, al suo cantiere immaginativo. A Napoli la luce è un romanzo totale, e per uno scrittore di chiaroscuri e ombre come Prisco, per uno scrittore così istintivamente sensibile al contrasto tra il lato segreto e quello palese della realtà, la luce – quella luce – sarà senz’altro stata una materia prima essenziale, una chiave di lettura del mondo. È una suggestione, lo so; ma dopotutto questo anche d’importante insegna la letteratura: a dare accoglienza alle suggestioni, a lasciarsene accompagnare. Per esempio a Napoli, vicino al mare, in un mattino perfettamente quieto.

Simone Gambacorta è giornalista e critico letterario. Dal 2012 è responsabile delle pagine culturali del quotidiano “La Città” di Teramo. Autore di numerosi libri tra cui:

° Simone Gambacorta, I fantasmi gentili. Interviste a scrittori, Media Edizioni, Mosciano Sant’Angelo (TE) 2008.
° Simone Gambacorta, Il nonno che scriveva libri. Carino Gambacorta nei ricordi del nipote, Ricerche e Redazioni, Teramo 2008.
° Simone Gambacorta, Parole nate per caso. Interviste a scrittori, Media Edizioni, Mosciano Sant’Angelo (TE) 2008.
° Roberto Michilli – Simone Gambacorta, La chiarezza enigmatica. Conversazione su Giuseppe Pontiggia, Galaad Edizioni, Giulianova (TE) 2009.
° Simone Gambacorta, Lo scrittore problematico. Appunti biografici e interviste su Mario Pomilio, Galaad Edizioni, Giulianova (TE) 2009.
° Simone Gambacorta, Short reviews. Note minime di un cronista letterario, Galaad Edizioni, Giulianova (TE) 2009.
° Simone Gambacorta, La luna è ancora nascosta. Conversazioni su Ennio Flaiano , Galaad Edizioni, Giulianova (TE) 2014.
° Simone Gambacorta, Amici e poeti. Antonio Alleva, Raymond André, Giammario Sgattoni, Duende, Giulianova (TE) 2011.
° Caterina Falconi – Simone Gambacorta, Una questione di malafede. Scambio a due voci sulla scrittura creativa, Duende, Giulianova (TE) 2011.
° Giuseppe Rosato – Simone Gambacorta, Sempre più come un sogno. Tre conversazioni, Duende, Giulianova (TE) 2011.
° Anna Ventura – Simone Gambacorta, Scrittura e scrittori. Conversazioni sulla poesia, su Laudomia Bonanni e su Gennaro Manna, Duende, Giulianova (TE) 2011.
° Giulia Alberico – Simone Gambacorta, Sicuramente ho rubato. Conversazioni sulla scrittura, i libri, la scuola, Duende, Giulianova (TE) 2012.
° Giovanni Di Iacovo – Simone Gambacorta, Nella carne dei miei sogni. Colloqui tra uno scrittore e un cronista letterario, Duende, Giulianova (TE) 2012.
° Gian Luigi Piccioli – Simone Gambacorta, Tempi simultanei. Libri e viaggi di uno scrittore, Galaad Edizioni, Giulianova (TE) 2012.
° Simone Gambacorta, Scritti sbagliati. Interventi senza scopo di esattezza sulla letteratura e altre questioni, Galaad Edizioni, Giulianova (TE) 2012.