Nata a Milano nel 1966, dopo studi di filologia classica all'Università degli Studi di Pavia comincia a lavorare in libreria. Fa la libraia per 26 anni. Ha collaborato con case editrici quali Astoria, come lettrice dall'inglese e dal francese e per Giunti per cui ha scritto una guida on line sulle città europee. Ha collaborato con articoli e recensioni al blog SulRomanzo e al blog di approfondimento culturale Zona di Disagio. Suoi articoli sono apparsi sul sito della società di formazione Palestra della Scrittura. Ha curato blog di carattere economico e, per anni, ha lavorato come web content writer. E' autrice di due libri: Guida sentimentale alla Tuscia viterbese, una serie di brevi reportage di narrazione dei territori e Mors tua vita mea, un libro di racconti pubblicato da I Quaderni del Bardo Edizioni. Un suo racconto è pubblicato all'interno del libro Milanesi per sempre, Edizioni della Sera. Dirige la rivista L'Ottavo

Era il 2001 e, all’epoca, lavoravo come libraia alla Feltrinelli di Milano. Un giorno mi capitò per le mani un libro dal titolo L’amore contro di Mauro Covacich. Il gesto classico di prendere il libro con curiosa delicatezza, sfogliarlo saltando da una pagina all’altra leggendo qualche frase qua e la, si concluse con la decisione di comprarmelo. Fu una sorta di folgorazione, letteralmente. Nabokov, in un suo libro di critica letteraria, scrisse che la buona letteratura la si capisce con le scapole. Se un libro ti regala una sensazione simile ad una frustata proprio lì, vuole dire che c’è qualcosa di buono. E con quel libro di Mauro Covacich di frustate in mezzo alle scapole, sorta di folgorazioni elettriche, ne sentii parecchie. La storia, la scrittura, il suo andamento, il fatto che l’autore avesse solo un anno più di me. Tutto contribuì a fare di quella lettura una specie di trance. Mi sentivo, cosa spesso ripetuta ma che è vera (chi ama i libri lo sa) come se avessi trovato un amico, qualcuno che sapeva cosa raccontarmi e come. Uscivo da quelle pagine giusto per andare al lavoro.
Due anni dopo uscì un altro libro dello stesso autore A perdifiato. Iniziai a leggerlo con la stessa urgenza con cui si riemerge dall’acqua e si sente il bisogno di respirare. Ma si sa, le aspettative sono il problema più grande della vita umana, se ci si pensa bene. Ti fregano, non ti permettono di capire che ci sono crepe che non sono difetti ma pertugi inaspettati in cui, magari, trovare sorprese. Solo che questo l’ho capito recentemente, a 51 anni. Allora non la pensavo così. E la delusione per un libro che non era (e, giustamente non poteva essere) come L’amore contro fu lancinante. Come un’amante tradita iniziai a covare un rancore livido. Tra parentesi, con un po’ di lucidità e per dovere di cronaca quel A perdifiato non è affatto un brutto libro. Ma insomma, si sa, le aspettative deluse (come dicevo prima) possono davvero renderci ciechi, sordi e, diciamolo, anche un po’ stupidi. Sta di fatto che, da allora, mi sono rifiutata di leggere altri libri di Covacich.
Poi, un giorno, forse perché nel frattempo erano passati molti anni, presi tra le mani La città interiore. Non è che dovessi pagare una sorta di tributo. Ho solo pensato che se uno scrittore mi aveva così tanto convolta, forse, valeva la pena di dismettere i panni della lettrice delusa e rancorosa, per ridare (a me e allo scrittore) un’altra possibilità. E ora posso dire di avere fatto una gran bella scelta.
Con questo libro Covacich racconta un intreccio di storie, quella della sua famiglia, quelle di alcuni scrittori, di un famoso/sconosciuto musicista e lo fa usando come filo rosso (o come metronomo) una città. E non una città a caso ma quella Trieste definita eppure così sfuggente, dall’identità fatta dal non avere un’identità univoca. Una città che, in questo libro, diventa una specie di cartografia interiore, una geografia dell’anima oltre che canovaccio reale di luoghi e storie.
Una città che, subito dopo la guerra (momento storico da cui scaturisce il filo narrativo del libro) un mosaico di piccoli villaggi un po’ italiani e un po’ slavi, separati in zona A e zona B, divisi da una linea che non rispecchia la realtà dei luoghi, una linea incomprensibile, come ci dice molto chiaramente la “voce” del bimbo che non capisce perché con quel cognome (Covacich) lui e la sua famiglia stiano nella zona italiana.
Una città che è un crogiuolo di genti e esuli dalla costa istriana, un mix assolutamente unico di persone che di misto non hanno solo il sangue ma anche un’intera costellazione di lingue e culture, in bilico (un equilibrio difficile) tra slavismo e latinità. Sono pagine in cui forte emerge la consapevolezza di come una lingua non sia solo il mezzo linguistico e fonetico con cui si comunica.
Ma è anche un libro di storie personali che si mescolano o si intrecciano a quelle di nomi che sono universi come Svevo, Quarantotti Gambini, Fulvio Tomizza, James Joyce, Freud, la mirabolante storia del musicista triestino Antonio Bibalo, sorta di fiaba quasi incredibile (nessuno lo conosceva nella sua patria ma divenne uno dei maestri della musica scandinava). C’è un po’ del libro storico, un po’ del romanzo di memorie, ma anche una specie di reportage e non solo. Come se, in questo libro, Covacich rendesse la poliedricità di una città come Trieste nella poliedricità della forma letteraria scelta, scelta non una volta per tutte ma quasi di pagina in pagina, di episodio in episodio.
Sono cartografie che si sovrappongono, quella personale dello scrittore e quella di Trieste, quella delle foibe e quella della Risiera, quella di una eredità austriaca che sta sul liminare di una cultura mediterranea e mitteleuropea, con tutto ciò che ne consegue. Gallerie di storie, gallerie di immagini, di personaggi e di una città che è un palinsesto. E che, come tutti i palinsesti, ci ricordano, anche se non lo sanno, il valore della memoria.
Da leggere assolutamente

Lacittà interiore Book Cover Lacittà interiore
Mauro Covacich
Romanzo
La nave di Teseo
2017
233