In moto
Di Marcello Chinca
Dopo aver fumato una sigaretta, controllò il livello dell’olio della moto, volgendo lo sguardo di continuo al cielo che fino a poco tempo prima aveva minacciato pioggia. Da dove era venuto persisteva infatti una massa scura di nubi, ad Ovest s’ostinava invece un blu terso che sulla linea dell’orizzonte s’insinuava con una serie di nastri sovrapposti violetto, magenta, arancione, giallo oro.
Alle tre del mattino oltrepassò il confine, poi giunse a Mentone. La strada era deserta. Dopo essersi lasciato alle spalle Montecarlo preferì imboccare l’autostrada che percorse sino al casello di Cannes, da qui lungo la stada costiera raggiunse Frejus e, poco dopo, il primo tratto della Corniche des Maures.
Superò Sainte-Maxime e Saint-Tropez, era diretto verso Ramatuelle. Da lì sarebbe disceso verso Cassis, quindi Marsiglia dove avrebbe pernottato per la notte successiva.
Senza fretta, inebriato dalla salsedine e dai profumi di Maquis misti al sentore deciso d’eucalipto, affrontò i saliscendi con la visiera sollevata. Quando scorse un cartello con il logo della spiaggia vi parcheggiò davanti. Recuperò dal baule laterale uno zainetto che si poggiò tra le spalle. Si fece luce con una torcia frontale da minatore.
Stava schiarendo e, sebbene il fitto sottobosco ricoprisse il sentiero, riuscì a discendere lungo la scarpata dove la vegetazione si diradò di colpo. Dal nido ricavato dentro un’agave, un falco pellegrino s’alzò in un volo crepitante e come astioso a causa della sua comparsa. Lo vide sparire nel buio protestando. Fu allora che comprese di aver sbagliato direzione, per cui dovette tornare indietro e scendere la scarpata dalla parte opposta.
Raggiunse la spiaggia che il sole stava lambendo alle sue spalle la sommità dell’anfiteatro di roccia. Dal basso rombava l’eco della risacca contro le pareti a strapiombo gremite dal tubare sonnacchioso di miriadi di colombi annidati nei suoi antri.
Una volta arrivato, si spogliò e s’infilò in una muta sottile da nuotatore. S’accucciò su uno sperone di roccia in prossimità dell’acqua. Pulì accuratamente la maschera, sputando sopra la visiera un paio di volte e sfregandola con i polpastrelli nell’acqua, quindi la indossò rovesciata sulla fronte per farla asciugare. Scorse il sole splendere ora con maggiore incidenza dalla cresta.
I suoi raggi dorati per un istante lo accecarono.
Contemplò la distesa marina perfettamente piatta ma ancora oscura, progressivamente la vide schiarirsi ma ancora senza calore ne uniformità, come se un mucchio di braci vi fosse stato gettato alla rinfusa e il cui abbaglio fosse ancora incerto.
Un rondone solitario sorvolò il cielo di oscuro violetto.
Si decise infine: aggiustò la maschera e s’immerse sino alla cintola, quindi sino al collo, lasciandosi infine sommergere del tutto. L’acqua era gelida a quell’ora di quel giorno terso di maggio.
Riemerse distendendosi, inspirando profondamente e battendo i piedi. Avvertì l’intero corpo rabbrividire ma sapeva che si sarebbe scaldato a lungo andare. Le bracciate si susseguirono, l’una poi l’altra, lente e precise quasi lui si fosse trasformato in un metronomo. Seguiva una rotta in diagonale verso il largo, quindi cambiava lato, allontanandosi inesorabile verso l’orizzonte con il timore che gli prendesse una sincope, ma a questa paura, a questo pensiero molesto c’era abituato. Sapeva che doveva conviverci.
Dopo un po’ la costa sparì del tutto alla sua vista. Si riposò supino galleggiando contro il sole, confortato dal rollare de suo corpo e da una sensazione radicale di solitudine in mezzo alla massa liquida sciabordante, lontano dalle cose del Mondo.. quasi senza avere più pensieri.
Si riavviò in stile dorso, lento e poderoso in una scia che brillava di vapori in superficie. Il suo ansimo era regolare e profondo. Poi continuò a stile libero. Infine a rana.
Al ritorno era esauto, si spogliò la muta, s’asciugò e si ripulì con l’asciugamano dal sale, infilò dei bermuda ed una maglia di cotone. S’adagiò sulla sabbia e senza averlo previsto s’addormentò come per magia.
Sognò i vicoli di Mumbay dov’era stato da adolescente, sognò la grotta di Elephanta dove un mattino s’era perso tra i suoi cunicoli, poi sognò di Sergio sul letto in una clinica sovvenzionata di Roma, un pomeriggio afoso, Sergio che gli diceva di voler morire, che il cancro alla prostata era una faccenda implacabile, che per lui stava diventando un soffrire senza fine e soprattutto inutile.
Sergio fu, dopo il conseguimento della laurea, il suo implacabile maestro di giornalismo, quella professione che lui mai avrebbe davvero svolto ma che avrebbe a lungo bramato, lasciandogli quasi un rammarico negi anni a venire per l’occasione perduta, una sensazione come di insuccesso lo perseguì anche in seguito, quel mestiere che in realtà Sergio gli aveva sconsigliato vivamente d’intraprendere e ciò a più riprese, Sergio infatti lo considerava un mestiere da asserviti al potere, da macchiette senza onore, un mestiere, diceva, del tutto controindicato a chi volesse davvero scrivere.
Lui, quel giorno afoso d’autunno, gli aveva portato in dono un libro di Thomas Bernard ‘L’imitatore di voci’. Sergio lo soppesò tra e mani scheletrite e piene di efelidi. Qualche giorno dopo al telefono Sergio gli disse quanto gli fosse piaciuto.
Sognò Sergio in quel giorno afoso d’autunno che lo andò a trovare, lo sognò con le lacrime agli occhi steso sul letto che lo pregava di rimediargli il veleno con cui uccidersi una volta per tutte. Un composto a base di Litio. Un farmacista amico glielo avrebbe consegnato. Doveva solo portarglielo di soppiatto. Lui si rifiutò di farlo. Aveva le lacrime agli occhi quando gli disse deciso di no, che mai l’avrebbe fatto. Sergio lo capì e non insistette.
Non lo andò mai più a trovare per questo, qualche mese dopo abbandonò del tutto l’idea di fare il giornalista per dedicarsi risoluto all’attività legale. Studiò da giudice, poi da avvocato. Solo due anni dopo venne a sapere così per caso che Sergio si era impiccato nella sua casa in Viale Libia a Roma, un giorno di autunno afoso, solcato dallo Scirocco, giorni dopo che era stato dimesso.
Quando sulla spiaggia lo risvegliò un canto di rondini farneticanti, si scoprì fragile di tutte le rassicurazioni che elucubrò durante il sogno. Niente poteva confortarlo, eppure si sentiva lo stesso sollevato, come alleggerito da un fardello. Qualcosa aveva smosso quel masso erratico dalla sua coscienza.
Pensò: scoprirsi in sogno un osservatore più attento gli aveva profilato allora come un’alternativa: poter cambiare davvero senso e direzione dal passato, come se vi fosse stato ancora il tempo sufficiente per convincere Sergio a vivere ancora, come se egli stesso avesse ancora potuto scegliere la sua vita, beneficiare di un lavoro sicuro e dignitoso, divenire egli stesso qualcosa di altro, essere infine scrittore come aveva sempre sperato: questa sensazione decisa e appagante di esserci riuscito a manipolarlo il passato, di poter vivere davvero il presente purchè si fosse addomesticato il passato al presente, lo convinse davvero infine che sarebbe stato alla sua portata, chissà, un futuro meno disperato.
L’immagine di copertina è L’estate in Costa Azzurra, di Guillaume Georges Roger. Presa da misterdrucke.it