Nata a Milano nel 1966, dopo studi di filologia classica all'Università degli Studi di Pavia comincia a lavorare in libreria. Fa la libraia per 26 anni. Ha collaborato con case editrici quali Astoria, come lettrice dall'inglese e dal francese e per Giunti per cui ha scritto una guida on line sulle città europee. Ha collaborato con articoli e recensioni al blog SulRomanzo e al blog di approfondimento culturale Zona di Disagio. Suoi articoli sono apparsi sul sito della società di formazione Palestra della Scrittura. Ha curato blog di carattere economico e, per anni, ha lavorato come web content writer. E' autrice di due libri: Guida sentimentale alla Tuscia viterbese, una serie di brevi reportage di narrazione dei territori e Mors tua vita mea, un libro di racconti pubblicato da I Quaderni del Bardo Edizioni. Un suo racconto è pubblicato all'interno del libro Milanesi per sempre, Edizioni della Sera. Dirige la rivista L'Ottavo

Il mestiere di traduttore e curatore di collana

Di Geraldine Meyer

Parte da qui, da un’intervista a Giorgio Leonardi, la rubrica I mestieri del libro. Per “scoprire” cosa c’è dietro le pagine di ciò che arriva in libreria. Con Giorgio oggi parliamo di traduzioni e di cura delle collane editoriali

Buongiorno Giorgio, ti va di dirci, per cominciare, quale è stato fino a questo momento il tuo percorso professionale nell’editoria?

È stato un percorso lungo e graduale, iniziato molti anni fa quando mi sono fatto le ossa svolgendo compiti redazionali presso un importante editore in ambito letterario: indicizzazioni e correzione di bozze. Erano incarichi faticosi e poco gratificanti, ma utili a capire il funzionamento di questo settore: è stata l’occasione giusta per entrare in un mondo che non avrei più abbandonato. Quando proposi la mia prima traduzione, venne subito accettata, anche perché era un testo ancora inedito di Jules Janin, originale scrittore francese dell’Ottocento, allora pressoché sconosciuto in Italia, e da qui ebbe inizio la mia passione per i testi non ancora pubblicati nella nostra lingua. Poi, dopo aver conseguito il dottorato di ricerca, ho lavorato per la Zanichelli, scrivendo parti di un’antologia di letteratura in uso nei licei. Da quel momento in avanti il mio rapporto con l’editoria ha seguito una doppia direttrice: quella delle traduzioni e quella come autore in prima persona. Due passioni che procedono ancora oggi di pari passo.

Cosa significa fare il traduttore? Intendo quali competenze richiede, oltre naturalmente alla perfetta conoscenza della lingua da cui traduci. Vuol dire leggere solo il libro su cui stai lavorando o ti “costringe” ad affrontare l’intera opera dell’autore in questione?

Il grande scrittore spagnolo Cervantes paragonava l’atto della traduzione al guardare un arazzo dal rovescio, con le figure distinguibili ma con tutti i fili che rendono confusi i contorni. Ecco, per rispondere alla prima domanda, il traduttore deve far sì che il rovescio dell’arazzo risulti nitido quanto il dritto. La prima delle “competenze” necessaria non è, in realtà, una competenza ma un’attitudine: ci vuole empatia nei confronti del testo in lavorazione. Bisogna entrare nella storia e nella mente di chi l’ha scritta. La conoscenza della lingua d’origine è ovviamente un punto di partenza… ma solo questo. Perché senza l’imprescindibile rapporto di “familiarità” con l’opera e senza un’adeguata padronanza della lingua di destinazione, non si va da nessuna parte. La conoscenza dell’intera produzione dello scrittore da tradurre è, ovviamente, auspicabile ma non del tutto necessaria. Certo, bisogna conoscerne almeno la poetica (lo stile, le idee, le tematiche) e il contesto storico-culturale in cui sono usciti i suoi scritti. Una distinzione essenziale va fatta tra il semplice traduttore e il traduttore-curatore di un’opera. Essere anche il curatore implica senz’altro un approccio più approfondito. E, in quest’ultimo caso, vista la conseguente produzione di un apparato paratestuale di servizio per il lettore, è ovvio che sia richiesta una conoscenza non superficiale dell’autore e della sua opera.

Ci spieghi come concretamente procedi quando sei alle prese con una traduzione?

Trovandomi a lavorare con molti traduttori, ho capito che ciascuno ha un proprio metodo di lavoro, ed è giusto che sia così. Personalmente, occupandomi soprattutto di inediti, dopo aver studiato l’autore con cui ho a che fare, mi faccio un’idea preliminare dell’opera che voglio tradurre, scorrendola però rapidamente, senza soffermarmici troppo, per conservare il piacere della sorpresa nel corso della traduzione. C’è chi legge e rilegge il testo prima di iniziare a tradurlo, io invece preferisco che la traduzione proceda di pari passo con la scoperta, immedesimandomi così anche con il lettore, che è sempre il destinatario finale di ogni lavoro. Ovviamente il primo risultato sarà un testo ancora grezzo, una prima stesura, con le successive riletture procedo a un attento “labor limae”.

Qual è l’aspetto più delicato di questo lavoro? Cioè fino a che punto tradurre è un po’ tradire e “riscrivere” il testo, considerando le inevitabili differenze tra le lingue. E fino a che punto può spingersi un traduttore in questo senso?

Questo è un passaggio cruciale. Io dico sempre che non bisogna essere prigionieri di un testo. L’opera va rispettata e l’autore non va tradito, indubbiamente, e chi traduce deve mettere da parte (in quel momento) le proprie velleità di scrittore per riprodurre lo stile originale senza invenzioni. Ma, al tempo stesso, il tradimento peggiore sarebbe redigere una versione troppo pedissequa e pedante, ignorando le variabili linguistiche e temporali che ogni traduzione implica. C’è un bellissimo saggio di Umberto Eco che consiglio a chiunque voglia intraprendere questa professione. S’intitola Dire quasi la stessa cosa, e parla proprio dell’arte del tradurre, con esempi lampanti e divertenti, che non sono regole ma consigli illuminati e illuminanti. La sostanza generale suggerita dalle digressioni dell’autore è che il compito di un traduttore è quello di riuscire a suscitare nel lettore della lingua di destinazione le stesse reazioni che ha il lettore dell’opera in lingua originale.E non è detto che ciò avvenga attenendosi a una regola eccessivamente rigorosa. Aderire troppo rigidamente a un testo senza riconoscere le esigenze di fruibilità di un lettore contemporaneo significa, quasi sempre, non rendere un buon servigio all’autore stesso. Oltre tutto oggi anche l’editoria spinge proprio per una “attualizzazione” dei testi. Ma la pensava così anche Voltaire, quasi tre secoli fa, quando inveiva contro chi faceva traduzioni troppo letterali, ricordando a tal proposito che «la lettera uccide e lo spirito vivifica». Insomma è importante trovare un giusto calibro tra il rispetto del testo originario e un’opportuna flessibilità.

Come è, a tuo parere, la qualità delle traduzioni letterarie, oggi, nell’editoria italiana?

Impossibile fare un discorso in generale. Sicuramente ci sono ottimi traduttori e altri che pensano che tradurre sia semplicemente riportare la storia raccontata nel testo, senza considerare che quest’ultimo è il prodotto di una sensibilità autoriale e il risultato di una serie precisa di scelte sintattico-lessicali. Io sono un bibliofilo e spesso conservo nelle mie librerie diverse versioni di singole opere (si parla di classici, ovviamente), ed è divertente vedere come possano differire le une dalle altre anche in misura alquanto marcata. In certi casi ho notato vere e proprie riscritture arbitrarie di frasi o semplificazioni eccessive. L’auspicio è che la traduzione diventi sempre più appannaggio di studiosi che siano consapevoli di cosa hanno tra le mani e sempre meno la spensierata occupazione di traduttori della domenica.

Veniamo al tuo lavoro come curatore di collana. Da dove comincia? Quale è l’idea o il progetto sottesi alla nascita di una collana editoriale?

I miei esordi in questo ruolo furono intorno al 2015, quando dall’incontro con un giovane editore romano è nata l’idea di inventarsi una collana, che ho avuto l’onore di dirigere per un paio di anni, e grazie alla quale ho potuto far tradurre opere importanti otto-novecentesche che erano ancora inedite nel nostro Paese, tirandole fuori da un incomprensibile oblio editoriale. Tra esse, solo per citarne un paio, il primo romanzo giovanile di Bram Stoker e l’ultimo di Mary Shelley. Delle vere e proprie chicche, come le altre che componevano la collana, che si chiuse anzitempo per scelte tecniche, dopo sette titoli pubblicati. Ma non ho mai accantonato il progetto, e così di recente si è profilata una nuova collaborazione, stavolta con CSA Editrice, per la quale sto curando un’altra collana improntata allo stesso spirito, che abbiamo denominato “Classici – Le crisalidi” perché i volumi che la comporranno saranno farfalle in potenza, in attesa di quello che Gozzano definiva un «risveglio alato». Presto la collana inizierà le sue pubblicazioni, dando alle stampe i primi cinque volumi di piccolo formato: inediti di autori importanti che si presenteranno ai lettori italiani con testi sorprendenti e curiosi.

Essere direttori di collana significa, non solo scegliere i testi che ne fanno parte, ma anche occuparsi della curatela, della coerenza di insieme? Cosa implica questo lavoro?

Implica infatti un impegno su vari fronti. Sicuramente il primo passo è la selezione delle opere da pubblicare, ma anche dei traduttori, con i quali rimango in interlocuzione costante per tutta la durata del lavoro. Prima di essere consegnati all’editore i testi vanno rivisti insieme, in un’ottica sinergica. A me spetta anche la curatela di ogni singolo volume, che viene così fornito delle note necessarie e di una mia Introduzione che vuole accompagnare il lettore verso una maggiore fruibilità dell’opera. Devo dire che, nel mio caso specifico, anche la selezione iniziale è spesso il risultato di una ricerca personale. Mi piace definirmi infatti anche un “archeologo della letteratura”, a cui piace andare a scavare nelle produzioni dei vari autori alla ricerca di tesori ancora sepolti, che meritano di essere portati alla luce. Quando trovo un’opera ancora inedita (di autori sia molto noti che meno noti) che reputo meritevole di pubblicazione, la annoto gelosamente su un taccuino in attesa di tradurla o farla tradurre. In quel taccuino ci sono molte pagine fitte di annotazioni.

Che progetti stai seguendo in questo momento?

Oltre alla collana di traduzioni, ferve la mia attività di scrittore. Le mie più recenti fatiche sono due volumi biografici, usciti entrambi quest’anno: uno racconta la vita rocambolesca dell’anarchico Ravachol e l’altro quella breve ma eccezionalmente intensa di Maria Malibran, diva del teatro ottocentesco. Due personaggi estremamente diversi, la cui esistenza è stata però segnata dal capriccio del destino. Sono due progetti a tutti gli effetti perché, per usare il paragone di Nicolas de Chamfort, per uno scrittore i libri sono come figli nati dall’amore. Quindi metterli al mondo è solo un primo atto, poi vanno seguiti e accompagnati. E altri libri sono in corso di scrittura, sia di saggistica che di narrativa. Naturalmente proseguirò anche la mia attività di traduttore in prima persona e di “scout” di inediti di vaglia: ce ne sono già molti che stanno solo aspettando la loro prima versione in lingua italiana!