Valentina Di Cesare nata a Castel di Ieri, in provincia de L'Aquila, è laureata in Lettere Moderne all'Università di Chieti e in Mediazione culturale all'Università per stranieri di Siena. Collabora con diversi testate tra cui La Città, quotidiano di Teramo. Il suo ultimo libro è L'anno che Bartolo decise di morire, Arkadia editore

La cura dell’altro. Riflessioni su questi giorni

Di Valentina Di Cesare

Sono in casa da lunedì 24 febbraio: fermare le attività didattiche nelle regioni italiane più colpite è stata una delle prime decisioni stabilite dal governo, all’indomani dalla scoperta dei primi contagi di coronavirus nel nostro paese. La verità, o parte di essa, non si è palesata con chiarezza, né tanto meno in tempi brevi.

Anche adesso, in piena emergenza acclarata, emerge a poco a poco. Le notizie sono arrivate pigramente, come piccole venature d’acqua di un fiume sotterraneo, ben nascosto sotto le apparenze ovattate della necessità del presente.  Noi insegnanti, così hanno detto in molti con il solito fare canzonatorio, siamo stati “i primi fortunati” a beneficiare dello stop lavorativo, un regalo a questa inconsueta sospensione esistenziale che tutti viviamo da giorni.

Conosco molto bene il sarcasmo sul mondo della scuola: tutte le estati, anche quelle non contagiate dalle pandemie, le battute di amici e conoscenti sono sempre le stesse, e io ci ho fatto l’abitudine. Ce lo ha insegnato negli anni la società moderna, quella individualista opportunista: non ti lamentare, non ribattere, non dare soddisfazione,  non esagerare, non dare spiegazioni, non essere permaloso. Ho sempre finto di essere d’accordo, e poi ho cominciato a parlare sempre meno, a stare sempre più da sola. 

Nel silenzio ho trovato una libertà che non conoscevo, ma non sono sicura che sia quella adatta a me, il mondo che abbiamo intorno ci cambia senza che ce ne accorgiamo. Da giorni faccio lezioni online: da una parte all’Università, dove studenti giunti a Milano da tutto il mondo per i prestigiosi Master della Graduate School of Business del Politecnico, imparano da me la lingua italiana per poi accedere a uno stage in una grande azienda e, dall’altra, nella bella Scuola Media di frontiera dove decine di studenti  dopo il diploma di terza, con ogni probabilità abbandoneranno  gli studi.

Carico sulle piattaforme didattiche schede sull’Oceania, test sulle cause della seconda guerra mondiale, in antologia  ho assegnato  La giacca stregata di Dino Buzzati, con esercizi di comprensione del testo. I ragazzi inseriscono le  password, prendono le consegne, fotografano gli esercizi svolti sul quaderno o caricano file e imparano con i video tutorial. I miei alunni, i nativi digitali dai profili Instagram già datati a tredici anni, non sanno dirlo esattamente ma credo che, da qualche parte dentro di loro, abbiano nostalgia dei quaderni e della campanella.

Vacci piano con le illusioni, mi dico subito dopo, non sta bene, è da ingenui.  Esco ogni mattina per andare dal mio fornaio di fiducia, si chiama Mahmood, il suo pane di grano duro è l’unico che riesco a mangiare volentieri.  Oggi anche lui aveva la mascherina, dopo tanto rifiutarsi, ma è ancora convinto che si tratti di un inganno. Ama l’Italia, quando gli faccio domande sull’Egitto dice che ormai non conosce più la sua terra d’origine, si sente italiano, la sua vita è qui e mi indica il piccolo tricolore che ha appeso alle sue spalle. 

Torno a casa, pochi passi e sarò al riparo. Il ragazzo che come ogni giorno chiede l’elemosina vicino l’edicola, non potrà fare altrettanto e con lui molti altri che non vedo, che non conosco, di cui non so nulla. Il quartiere dove vivo, nella periferia nord di questa grande città, è come un piccolo paese e qui mi sento a mio agio, perchè queste strade mi riportano alle dimensioni del mio piccolo paese in Abruzzo, dove ogni cosa è indicibile eppure risaputa, è insieme smisurata e minuscola, e riguarda sempre tutti, nessuno escluso.

Quando al mio paese c’è un morto, ad esempio, e nel contempo è stata organizzata anche una festa, questa festa si rimanda, non si fa. Si sta zitti, si rispetta il dolore, si ha cura dell’altro, non si fa confusione. Ho pile di libri che non guardo e non apro da giorni, né loro sembrano di rimando osservare me, cosa che al contrario credevo mi capitasse fino a due settimane fa, quando rientravo da lavoro e pensavo a cosa fare prima. Io e questi  libri oggi, siamo come oggetti dimenticati in fondo a cassetti di uno stesso mobile. Vorrei riuscire a descrivere questo momento con la sensibilità dello scrittore e l’esattezza della scienza, ma anche con l’intuizione della scienza e la visionarietà dello scrittore, narrarlo senza alcuna intenzione  se non quella di fermare da qualche parte la consapevolezza. 

Il paesaggio fermo intorno a me e il silenzio sono racconti già perfetti, non potrei dire meglio quel che loro esprimono da soli. Eppure voglio concedermi l’illusione che la parola di chi come me, vive questo oggi nella sua piccola porzione privilegiata di mondo, possa uscire rafforzata dai giorni di paura che stiamo attraversando, e che non si faccia più ricattare dai giochi funesti a cui si è piegata da tempo, dimenticando la morte, la fragilità, la rinuncia, il dolore, la solitudine. Spetta forse agli anfratti più feriti di questo mondo, alle strettoie più offese e invisibili, insegnarci qualcosa. E anche chi non sopporta i cosiddetti spiegoni, stavolta farebbe bene a stare a sentire la lezione. 

L’immagine di copertina è La peste di Azoth, di Nicolas Poussin. Foto presa da wikipedia