"Sento quant'è scarso il mio interesse per ciò che si chiama mondo, e come invece mi appare grande e affascinante quello che, nel più profondo silenzio, chiamo mondo io". Robert Walser, Jakob von Gunten Guido Harras si presenta così

Di Guido Harras

Come era accaduto altre volte, a pochi giorni dalla fine del mio viaggio avevo cominciato a pensare all’imminente ritorno a casa come a un conforto indispensabile, una sorta di restituzione di me stesso al solo mondo cui sentivo di appartenere davvero. Guardandole a distanza, le mie consuetudini parevano un perfetto gioco di equilibrio e serenità basato essenzialmente su ritualità domestiche celebrate con leggerezza, unita a una sorta di sacrale rigore, da Maria, la mia compagna. Dal chiuso di quella comoda indifferenza che offre ogni camera d’albergo, pregustavo la familiarità e l’ordine della nostra casa, già proiettato nelle impeccabili geometrie della sua quotidianità. Non era banale né ripetitiva la mia vita con Maria, ma era solida, inesplicabilmente serena, senza smarrimenti.

Dopo qualche ora di attesa, di aereo, e di autostrada, ero arrivato davanti a casa mentre il pomeriggio si faceva meno luminoso e cominciava a cedere alla sera. Appena entrato, chiamai Maria, che a quell’ora generalmente era nello studio a suonare il violoncello. Alla sua risposta non feci molto caso, poggiai la valigia all’ingresso e appesi il cappotto dietro alla porta. Mi affacciai nello studio e lei era lì e dipingeva. E non era Maria. La guardai immobile mentre si voltava, poggiava tavolozza e pennello e mi veniva incontro per baciarmi sulle labbra: era una bella ragazza bionda dell’età di Maria, cioè notevolmente più giovane di me. Con naturalezza, dopo avermi baciato, sorridendomi, mi chiese come fosse andato il viaggio. “È uno scherzo?”, le chiesi, e lei un po’ sorpresa, sempre sorridendo, rispose “perché?”, poi mi chiese se mi piacesse il quadro che stava dipingendo. Volevo naturalmente chiederle chi fosse, ma per qualche ragione non ne avevo il coraggio; mi sentivo un idiota e mi sarei sentito peggio se le avessi chiesto
spiegazioni. Comunque il quadro della ragazza non mi piaceva affatto. “Non sei di molte parole oggi, amore… è successo qualcosa in viaggio?”, mi si avvicinò e sentii il desiderio di stringerla a me. Mi baciò di nuovo, con più intensità, e cominciammo a spogliarci, esattamente come succedeva con Maria quando tornavo da uno dei miei viaggi. Se si trattava di uno scherzo, stava riuscendo alla perfezione.

Facemmo l’amore con un senso di confidenza e di apertura che mi sorprese: con Maria l’amore era sempre stato qualcosa a cui avvicinarsi con prudenza, un territorio che restava incontaminato anche se l’avevamo frequentato per anni. C’era sempre stato qualcosa di difficile e vagamente torbido, come se né io né lei avessimo mai concesso all’altro di esplorare tutto lo spazio della nostra rispettiva intimità. Con questa ragazza, che avevo visto per la prima volta meno di un’ora prima, tutte le porte che con Maria sembravano chiuse – e dico sembravano, perché per una forma di estrema e forse ingiustificata discrezione non avevo mai provato ad aprirle – si erano spalancate, nella luce e nella gioia. “Sei strano oggi”, mi disse mentre giacevamo nudi nel letto, e io non mi sentii di risponderle niente. Poi lei si spostò su un fianco e io feci lo stesso, assecondando la posizione che aveva assunto lei, e sentii che i nostri corpi non potevano essere quelli di due estranei. Al tempo stesso, guardando la nuca e la testa della ragazza da dietro, mi chiesi se la ragazza con cui ero a letto non fosse Maria, semplicemente con un diverso colore di capelli e un diverso odore della pelle.

Per tutta la serata la ragazza si era mostrata pienamente a proprio agio in casa mia e di Maria: aveva preparato la cena aprendo sempre i cassetti e gli scomparti giusti, mi aveva
raccontato cosa avesse fatto in mia assenza, mi aveva parlato di una mostra che avrebbe fatto di lì a poco come parlandone a una persona che già conoscesse molti dei particolari della questione. Alla fine della cena, mentre ci riavvicinavamo allo stesso modo in cui l’avevamo fatto nello studio, si staccò improvvisamente da me sorridendo: “dimenticavo, amore, questa mattina ha chiamato tua madre per avere tue notizie, le ho promesso che l’avresti richiamata appena fossi rientrato…”  e mi prese per mano per portarmi verso il telefono, come se volesse aiutarmi a trovare una strada che per qualche ragione potessi aver dimenticato.

La sera dopo la ragazza mi annunciò che sarebbero venuti a cena alcuni amici: i loro nomi erano i nomi degli amici miei e di Maria ma non potei capire se si trattasse delle stesse persone. Nel pomeriggio lei si mise a dipingere e io restai da solo in soggiorno, davanti alla finestra che inquadrava la tranquilla strada dove abitavo con Maria, la strada di sempre, con lo stesso traffico sporadico e passanti che vivevano in zona, con volti e modi di camminare che potevo riconoscere ma non identificare. Pensavo che lo scherzo si sarebbe concluso quella sera in modo imbarazzante e terribilmente banale. O meglio, pensavo che la mia incapacità di reazione davanti allo scambio di persona, nella sua paradossale banalità, avesse trasformato uno scherzo senza senso in un dramma ingiustificabile. Non riuscivo a immaginare quale sarebbe stata la reazione di Maria davanti alla passività con cui avevo assorbito la situazione prodotta dallo scherzo: avevamo convissuto per cinque anni e un giorno, trovando in casa nostra una bella sconosciuta, ci ero andato a letto come se nulla fosse, come se avessi preso per un’ovvietà senza ombre la presenza di quella ragazza al posto di Maria. Allo stesso tempo, non riuscivo a capacitarmi di come Maria potesse aver ordito uno scherzo simile e della ragione  per cui il suo epilogo dovesse essere pubblico, davanti a vari
conoscenti invitati a partecipare alla serata come giurati in un processo.

Eppure alla mia partenza nulla aveva lasciato presagire che Maria fosse inquieta rispetto al nostro rapporto. Perché avesse pensato di farmi uno scherzo simile, o di mettermi in questo modo alla prova, non riuscivo a capirlo. Ero partito da casa mentre suonava il violoncello, ci eravamo dati un bacio un po’ distratto, avevamo scambiato un saluto che evidentemente mancava di ogni senso drammatico: partivo come ero partito altre volte e sarei tornato di lì a pochi giorni, come sempre. Tuttavia, se lei aveva deciso di mettere in scena questo assurdo scambio di persona, doveva avere ragioni molto serie, non potevo credere che con leggerezza avesse semplicemente creduto divertente uno scherzo così perfetto e crudele. Doveva essere una prova, che io avevo fallito in pieno. Così mi avrebbe dimostrato come nel tempo avessi perso il senso della nostra relazione, relegandola nella mia vita a un ruolo accessorio, privo di specificità e di passione. Forse lei stessa pensava di aver ormai dimenticato la forza originale del nostro rapporto e, temendo che io le potessi negare il diritto di disamorarsi di me, mi aveva voluto dimostrare come io stesso fossi in una situazione pressoché identica alla sua.

L’ora di cena arrivò prima che mi potessi preparare a dovere all’arrivo dei nostri ospiti: la ragazza mi venne vicino e mi baciò sul collo, sussurrandomi che avrei dovuto vestirmi. Sembrava divertita dal mio stordimento, ma senza alcuna malizia; pareva piuttosto intenerita dal mio evidente smarrimento e pronta a ricondurmi, con dolcezza, in quella che a tutti gli effetti sembrava una nostra quieta consuetudine. Ma naturalmente più quella nostra giornata appariva ordinaria e uguale a tante presunte altre giornate che sembrava avessimo passato insieme, più lo sgomento per la forza di quella finzione si impossessava di me e faceva vacillare la mia fede nei miei
ricordi. Guardandomi allo specchio, mentre già sentivo le auto parcheggiare fuori casa e gli ospiti risalire per il vialetto d’ingresso, sentii l’acuto dispiacere di dover vedere conclusa quella messinscena, alla quale mi pareva addirittura di essermi già affezionato e a cui non avrei più voluto rinunciare. Ma nel primo gruppetto di ospiti Maria non c’era.

Ci sedemmo a tavola quando all’appello non mancava più nessuno: mi aspettavo che da un momento all’altro, riunita la compagnia, dovesse entrare Maria fra le risate o l’imbarazzo generali, ma quando la ragazza portò in tavola il primo non successe assolutamente nulla. Gli ospiti erano conoscenti vari, gente che spiccava per la mancanza di caratteristiche peculiari: nessuno che fosse particolarmente antipatico o intelligente, attraente oppure oggettivamente brutto, nessuno di troppo infelice o che avesse palesemente successo, nessuno che si potesse compatire né invidiare in eccesso. Erano tutti di un’età compresa fra la mia e quella della ragazza (e di Maria), li avevo conosciuti negli anni precedenti negli ambienti più vari, in circostanze che avevano perso ogni importanza, e ognuno di loro più o meno sapeva chi fossero gli altri. Fino a quando continuai a pensare a una macchinazione sempre più incomprensibile e tortuosa da parte di Maria e della ragazza, mi sentivo amareggiato per la scelta di una giuria tanto mediocre e con così scarsi legami profondi con me; ma col procedere senza increspature della cena, nello scorrere del vino e delle chiacchiere insulse, nel cambiare delle luci della notte di fuori e dei volti dei commensali, accesi dagli alcolici o intorpiditi dall’ora sempre più tarda, finii per dimenticare quello che credevo dovesse capitare e mi accontentai di sentir chiamare la ragazza col nome di Maria, come se di Maria realmente si fosse trattato.

La mattina successiva ci risvegliammo abbracciati e io non ricordavo bene come fosse finita la serata. Intontito dalla
notte e, probabilmente, dalla bevuta della sera prima, per alcuni istanti non mi capacitai di cosa stessi facendo a letto con quella bella sconosciuta, poi progressivamente riemerse la certezza di quella nuova situazione e quei due soli giorni passati insieme mi parvero un tempo lunghissimo. Non riuscii a ricordare cosa avessi sognato, ma ero quasi sicuro che Maria, la mia Maria, fosse entrata in quei sogni, come volendosi riprendere almeno una piccola parte di me e della mia vita. Quando la ragazza si svegliò, mi guardò sorridendo, dicendomi che la sera prima avevo bevuto troppo e che avevamo fatto l’amore a lungo durante la notte. “Continuavi a chiamarmi”, mi diceva sussurrando, “continuavi a dire Maria, oh Maria e una serie di altre cose che mi vergogno a ripetere…” e scoppiò in una risata aperta e pulita che mi fece sentire come se fossi io l’impostore, io colui che aveva tramato per sostituire il legittimo compagno della ragazza e insinuarsi nel suo letto.

Dopo aver fatto colazione insieme, con la ragazza che dimostrava di conoscere perfettamente i miei gusti e le mie abitudini, mi disse che sarebbe stata fuori tutto il giorno per una serie di appuntamenti con galleristi e altri artisti. Io la baciai sulla porta di casa e la guardai mentre saliva sull’auto di Maria e partiva. Dopo poco decisi di guardarmi attorno per la prima volta da quando ero rientrato. Pensai di poter trovare degli indizi chiari sulla volontaria defezione di Maria o qualcosa che dimostrasse che la nuova Maria fosse un’attrice straordinaria, capace di fingere quella confidenza che aveva dimostrato nei miei confronti, come se fossimo stati insieme da sempre. Rimasto solo in casa, mi pareva finalmente di essere distante da entrambe le ragazze, pensavo che probabilmente non sarebbe tornata nessuna delle due e che quella giornata di solitudine non era che un anticipo di quello che mi sarebbe toccato per il resto dei miei giorni.

Nel cono scuro di quella solitudine che mi pareva già insopportabile, il ricordo delle due ragazze già andava confondendosi, così che a un certo punto non riuscii più a stabilire con certezza quale Maria avesse lasciato la casa quella mattina e quale dovessi sperare di rivedere; certamente sentii fortissima la mancanza di entrambe. La sensazione che, alla fine di quella giornata, tutto sarebbe tornato alla realtà che credevo di ricordare, ovvero quella precedente al mio ultimo ritorno a casa, svanì non appena mi misi effettivamente a studiare la casa, con i suoi oggetti e i segni che inevitabilmente Maria doveva aver lasciato giorno dopo giorno vivendo lì con me. Di fatto, tutto parlava di me e della nuova Maria: fotografie, odori, qualche capello, ogni cosa non era che il racconto di anni passati insieme in quella casa da me e dalla ragazza, come se l’altra Maria, la ragazza che amavo e che mi aveva salutato con affetto il giorno in cui ero partito, non fosse mai esistita. E d’altra parte, a cena, nessun invitato si era tradito o aveva lasciato filtrare anche solo un momento di perplessità davanti alla nuova Maria; lei stessa non poteva aver tenuto così a lungo e in modo così credibile la sua parte, se di una finzione si trattava; e quanto alla mia Maria, se anche avesse ordito davvero lei questo scherzo mostruoso, non sarebbe mai potuta restare ancora dietro le quinte a vedere la mia totale disfatta e la rapida cancellazione dei cinque anni della nostra vita precedente. Fu solo allora, e pochi minuti prima che lei rientrasse, che accettai davvero ciò che avevo a tutti gli effetti davanti agli occhi: che la mia ragazza doveva essere sempre stata questa Maria e che l’altra, quella con cui ricordavo di aver vissuto per cinque anni in quella casa, non era altro che un vizio della mia immaginazione; un sogno, forse, che si era confuso con la mia memoria.

Nel tempo passammo con la nuova Maria tutte le tappe forzate delle nuove relazioni, con la sola, notevole eccezione che se per me questi erano i passaggi significativi attraverso cui si andava costruendo un nuovo rapporto, per lei sembrava tutto parte di una routine ormai consolidata. Io restai scosso dal primo litigio, lei lo assorbì velocemente come se nulla fosse; ricevemmo la visita dei miei genitori e l’incontro fra lei e loro fu del tutto naturale, come se si conoscessero da tempo; poi dovetti partire nuovamente e lei mi salutò con naturalezza, come mi aveva salutato l’altra Maria, dimostrando una certa abitudine alle mie partenze. Al ritorno entrai in casa cercando di non farmi sentire e mi avvicinai furtivamente al suo studio con il desiderio di sorprenderla (o forse di sorprendere la vecchia Maria, che mi attendeva o che dava istruzioni all’attrice per quella macchinazione a cui non riuscivo più a credere): lei, la mia nuova Maria, stava dipingendo e quando la salutai si girò sorridente e mi corse incontro per baciarmi.

Fra noi, a quel punto, andava tutto bene, non posso negarlo. Potrei dire che eravamo felici, soprattutto quando riuscivo a dimenticare in che modo lei fosse entrata nella mia vita; quando invece ci pensavo, e pensavo all’altra Maria e a quanto anche con lei fossi felice, mi prendeva un senso di sconforto che non sapevo spiegarmi, un’acuta nostalgia non solo per l’altra Maria e per la mia vita di allora, ma anche per la nuova Maria e per il presente che stavamo vivendo e che un giorno, magari rientrando da uno dei miei viaggi, avrei trovato irreversibilmente mutato. La naturalezza con la quale passavamo il tempo insieme e la serena armonia con cui condividevamo una larga parte delle nostre rispettive vite, non mi rassicuravano affatto; piuttosto, mi sembravano far parte di un gioco crudele che un giorno, all’improvviso, mi avrebbe privato di ogni cosa con ancora maggiori rimpianti. Percepivo come intollerabile la mancanza della mia nuova Maria, anche se lei era ancora con me.

Passò così circa un anno e non so dire se e come il mio rapporto con la nuova Maria cambiò rispetto a quel primo, sorprendente giorno in cui c’eravamo incontrati. La confidenza e l’empatia che ci dimostravamo erano le stesse con cui, in maniera inspiegabile, avevamo vissuto il nostro primissimo incontro, quando lei, almeno per me, non era che una sconosciuta. Cominciavamo a fare progetti, cosa che avrei trovato prematura dopo appena un anno di relazione ma che per lei, che sembrava aver vissuto insieme a me un tempo molto più lungo, era scontata. Per altro, la sua carriera di pittrice procedeva a passi spediti verso un notevole riconoscimento pubblico, tant’è che fu lei a cominciare a viaggiare con maggiore frequenza, proprio quando le mie trasferte divennero più sporadiche e potei passare molti mesi senza mai allontanarmi da casa. Ad ogni modo, le mie sensazioni, quando era lei ad assentarsi da casa e non viceversa, non erano molto diverse da quelle che avevo provato io nei miei tanti viaggi: erano le consuetudini vissute con lei a farmi sentire a casa, erano la sua presenza, la sua voce, il suo corpo a consegnarmi il pieno possesso della mia vita per come la immaginavo e la comprendevo. Con lei lontana, anche io mi sentivo distante centinaia di chilometri da casa.

Nel frattempo i nostri amici, intorno a noi, avevano cominciato a sposarsi o a fare figli. Persone che non sentivamo da mesi ci chiamavamo e noi sapevamo già, dopo i primi convenevoli, che ci avrebbero comunicato una notizia relativa all’una o all’altra cosa. Maria sembrava accogliere con emozione e intensa partecipazione ognuna di queste notizie, come se le vivesse anche lei in prima persona e, forse, come se lei pure le desiderasse, anche se a me non aveva mai detto nulla esplicitamente. A fasi alterne, a seconda della giornata, rideva a voce alta e ululava al telefono, oppure si commuoveva guardando in modo indecifrabile fuori dalla finestra, come in cerca della comprensione di un passante più che della mia. Io cercavo di mostrarmi altrettanto partecipe, ma la realtà è che non ero minimamente interessato a quanto succedeva alle varie coppie di amici che ci informavano di queste loro novità. Mi sentivo completamente estraneo a ciò che ci raccontavano e che a loro pareva essere un’epopea unica e irripetibile, quando tutti non avevano che da raccontare sempre le stesse sensazioni, le stesse speranze, le stesse paure di chiunque altro nella loro condizione. Quanto a me, ero perfettamente a mio agio nella vita che io e Maria vivevamo insieme e non sentivo alcun bisogno di imporci una svolta di alcun tipo, tant’è che quei cambiamenti, che fossero la formalizzazione di un’unione stabile o la scelta di fare un figlio, mi sembravano invariabilmente gli indizi inequivocabili di una qualche segreta infelicità a cui goffamente i nostri conoscenti cercavano di porre rimedio.

Nei primi giorni di un giugno pieno di sole e già troppo caldo, ci invitarono a una festa di matrimonio in una villa di campagna che doveva suggerire, nelle intenzioni degli sposi, un certo gusto anticonformista e ribelle, ma che di fatto probabilmente ospitava due feste di matrimonio ogni fine settimana. Tutto nella villa sembrava essere progettato dal primo momento per ospitare dei ricevimenti di quel tipo: la grande sala al primo piano poteva accogliere un buon numero di tavoli circolari per otto persone, a piano terra gli ambienti erano più piccoli e permettevano una certa differenziazione nelle attività offerte agli invitati, la grande scalinata che univa i due piani era la scena perfetta su cui scattare le fotografie o lanciare il bouquet. Sul retro, un bel giardino ampio, con vaste zone lasciate, non senza malizia, a un’illuminazione piuttosto scarsa, permetteva che nell’atmosfera estiva la festa si sfogasse definitivamente, con gaiezza e un certo irragionevole senso di importanza.

Dopo aver cenato al tavolo assegnato, insieme a coppie che conoscevamo e con cui avevamo ripetuto gli stessi discorsi e gli stessi scherzi di sempre, seguimmo il progressivo
disperdersi della festa in tanti diversi momenti che parevano del tutto slegati gli uni dagli altri. Muovendoci fra le sale al piano terra e il parco, che invitava gli ospiti con un penetrante profumo di un qualche fiore che io non avrei mai saputo riconoscere, io e Maria finimmo per perderci di vista. Mi trovai così a vagare da solo per il parco, riconoscendo a stento persone che probabilmente conoscevo da tempo e salutando con grandi sorrisi altri che forse non avevo mai visto prima. Nell’oscurità e nell’aria umida, ebbi a un tratto la sensazione di essermi infiltrato in una festa a cui non ero stato invitato, fra estranei cortesi e in fondo non troppo indispettiti dalla mia presenza. Con il procedere della serata provai a vincere il disagio e in qualunque gruppetto di persone provassi a infilarmi, continuai a trovarmi con un bicchiere pieno in mano e assolutamente niente da dire a chi mi stava intorno e mi guardava come per incoraggiare l’inizio di uno scambio di battute.

Quando finalmente riguadagnai l’uscita per tornare nel parco in cerca di Maria, in un punto piuttosto buio e accarezzato da una leggera, insperata brezza, incontrai la compagna di un amico di vecchia data con cui qualche ora prima mi ero intrattenuto in fila in attesa che si liberasse il bagno. La ragazza non conosceva nessuno e aveva perso il suo accompagnatore, stava dunque in giardino a prendere un po’ di fresco e a guardare con aria malinconica le luci della casa da una distanza che pareva non più colmabile. Le dissi che anch’io avevo perso la mia compagna e, forse fin troppo incoraggiato dalla penombra, aggiunsi che il destino ci aveva fatto  incontrare soli, seppure solo temporaneamente, e bisognosi di compagnia. Nonostante l’aria austera, che le indovinavo nel profilo perché non riuscivo a vederla chiaramente, la ragazza sembrò stare al gioco e così, da subito, il nostro incontro prese la piega sbagliata. Non passò molto – di fatto non saprei dire quanto, possono essere state ore delle quali non ero più in
grado di tenere il conto o pochi insignificanti minuti – e io e lei ci spingemmo con passo furtivo verso il limite più lontano del parco e, forse almeno parzialmente nascosti da un cespuglio di fiori che sembravano scintillare nel buio, finimmo l’uno nelle braccia dell’altra. Senza che nemmeno potessi esattamente rendermi conto di quanto stessi facendo, la spogliai e l’aiutai a sfilarmi almeno i pantaloni, e, in un’oscurità che sembrava essersi addensata sopra di noi, facemmo l’amore senza foga, con una nota tragica e felice nei movimenti e nei bisbigli che ci scambiammo all’orecchio. E mentre, sempre distesi, cominciammo a rivestirci, le vidi nel buio i denti bianchi e la sentii dire che si chiamava Maria.

Tornati alla villa prudentemente distanziati di qualche decina di metri, trovammo i nostri rispettivi compagni, o almeno io trovai la mia e non vidi più la ragazza che, devo immaginare, aveva a propria volta trovato il suo e se n’era tornata a casa. La mia Maria sorrideva con gli occhi resi opachi da un’ubriachezza che le appesantiva i movimenti, seduta un po’ troppo vicino a un bell’uomo alto che notò il mio sguardo e sembrò allontanarsi impercettibilmente da lei. Andai a sedermi accanto a Maria e lei mi sorrise con espressione svuotata dall’ebbrezza; le chiesi se volesse tornare a casa e lei rispose che voleva restare ancora un po’ alla festa. La assecondai, incapace di sentirmi in colpa o soddisfatto di quanto era successo nel parco: non ero felice né amareggiato, non ero preoccupato, non desideravo rivedere la compagna del mio amico che si chiamava Maria né mi pareva di avere troppa voglia di tornare a casa con la mia Maria. Semplicemente mi disposi ad aspettare la fine della festa, il ritorno a casa e il risveglio dell’indomani come qualcosa che, per quanti sforzi potessi fare, non sarei mai riuscito ad evitare.

L’immagine di copertina è L’epreuve du sommeil di Renè Magritte