Laureata in lingue e letterature occidentali e in lingue orientali, urdu e arabo. Laurea anche in filosofia, pedagogia clinica. E' antropologa trasformazionale e psico terapeuta

Letteratura femminista orientale: il rancore e l’amore soffocato per la terra lontana di chi emigra –Shirin Ebadi e la difesa dei diritti umani

Di Maria Rosaria D’Acierno

La giornata internazionale per commemorare la violenza sulle donne e i loro diritti, vedono impegnato tutto il mondo il 25 novembre con manifestazioni che intendono dare sostegno morale ma anche materiale alle vittime di violenza, le quali, molto spesso, o per paura o per pudore non denunciano coloro che abusano con arroganza e prepotenza di quelle donne che dicono di amare. Tutti conosciamo le lotte che combattono tali crimini nel mondo Occidentale, e il movimento femminista ha raggiunto consensi ed adesioni illimitate. Purtroppo, poco si sa sul movimento femminista del Medio Oriente, e sulle scrittrici musulmane che hanno denunciato attraverso una vasta letteratura la violazione di tanti loro diritti. Sono ancora poco conosciute, pur essendo numerose e pur avendo scritto, in modo molto avvincente, le loro storie sotto forma di romanzi, ambientando gli accadimenti in contesti storici e documentandoli con date e luoghi reali.  

La letteratura femminile dei paesi orientali è soprattutto rappresentata da scrittrici emigrate in Occidente per ragioni politiche o per ideologie culturali. Il femminismo che si profila nei loro scritti è così acceso che il dolore di non poter lottare nelle loro terre per mettere fine a tanti soprusi, quasi le distrugge. Come afferma  Carlo Saccone ‘sono forse più tradotte degli scrittori maschi, e questo indubbiamente trasmette subito al pubblico italiano ed europeo un’idea della grande vivacità del mondo culturale iraniano e ribalta il vecchio stereotipo della “donna musulmana non emancipata” (C. Saccone: La storia dell’insegnamento di lingua persiana in Italia). Anche Anna Vanzan analizza la questione femminile in Oriente dove le attiviste si battono per acquisire parità di diritti: ‘In realtà, il dibattito religioso e politico in materia di genere è presente da tempo immemore nella civiltà musulmana’ (A. Vanzan, Le donne di Allah, Mondadori, 2013, p. 13). L’attenzione verso le questioni femminili si sviluppa fin da bambine in queste donne, perché c’è sempre qualcuno che prende decisioni al loro posto, e come afferma la scrittrice palestinese Khalifa Sahar in Una primavera di fuoco (2007), ‘scelgono le parole’, per denunciare i pregiudizi misogini della propria cultura. I sentimenti che maggiormente animano gli scritti di queste donne, che sono state costrette ad emigrare sono due:  l’amarezza di perdere una parte di sé e la rabbia per la perdita. Una amarezza talmente profonda e sottile che si confonde con la rabbia, rabbia che dà loro la forza per riscattare una immagine negativa che potrebbe profilarsi dietro al loro esilio. Un riscatto che si traduce in un elogio per tutto ciò che richiama la cultura profonda dei loro paesi di origine (Haifa Zangana – irachena, Hoda Barakat – libanese, Betool Khedairi – Bagdad, Suraya Sadeed – Kabul, Nadia Ghulam – Kabul, etc. ).  Se per alcune di loro l’unico luogo abitabile rimane la ‘non appartenenza,’ per altre, invece, il rifugio diventa quello linguistico, così che, pur conoscendo perfettamente la lingua del paese nel quale hanno deciso di vivere, preferiscono scrivere in lingua madre, come per sentirsi  protette, ed offrire, quindi, una maggiore protezione anche al lettore (Goli Taraghi: ‘Scrivo in persiano, perché è la mia lingua, quella che mi permette di sentirmi a casa ovunque io sia.’; Leila Abouzeid: ‘scrivo e lascio interviste in arabo per due ragioni: 1) per diffondere tra il mio popolo le mie idee, e 2) perché considero il francese la lingua dei nostri oppressori – The Year of the Elephant, Return to Childhhood). La scelta della lingua è un processo delicato che implica molti sentieri, percorsi fatti di stretti e frantumati scorci, i quali richiamano alla memoria lembi  di vissuti che sembravano anche dimenticati: ‘Alla lingua si offre il ruolo e la funzione di difesa’ (M.R. D’acierno, Emigrante/Immigrant; le antropologie trasformazionali, L’Orientale Editrice,1996, p. 73). La condizione del sentirsi straniero sia del paese ospitante che del proprio si trasforma in un insanabile esilio interiore, esilio che, nel tentativo di essere superato si rifugia in una infinità di frammenti intimi che esaltano le proprie radici pur di ristabilire quel legame profondo con la propria terra attraverso sottili memorie che risalgono alla quotidianità della loro vita vissuta in un tempo remoto. In genere, tutta la letteratura orientale femminile è molto ricca di figure importanti, le quali stanno influenzando la letteratura di genere del Medio Oriente. Queste scrittrici, anche quando lontane dai propri paesi per ideologie politico-culturali, continuano a battersi, con quell’ardore e amarezza caratteristici dell’animo dell’emigrante, per aiutare i propri connazionali ad uscire dal baratro nel quale sono caduti prigionieri. Questo sentimento di ambiguità, caratteristico per qualunque emigrante sembra giungere all’esasperazione anche in questo nostro momento storico, quando una folla smisurata di profughi, pur essendo consapevoli di rischiare la propria vita e quella dei propri cari, si affida ad un barcone per fuggire per sempre da una terra che dà loro solo dolore, incertezza, delusione, angoscia, ma soprattutto tradimento. Tradito e traditore, questo sentono gli emigranti. E ancor più feroce è questo sentire quando si arriva alla decisione finale dopo aver attraversato i bui sentieri della disperazione, della indecisione, della rabbia, dello smarrimento. La produzione letteraria delle scrittrici iraniane e in genere delle scrittrici del mondo arabo (Farxonde Ãq…, Farib…,Vafi, Zuy… Pirz…d, Azar Nafisi, Nahid Rachlin, Azadeh Moaveni, Arjane Satrapi – autrice del famosissimo Persepolis, Nahid Tabatatai, Gina B. Nahai, Bahiyyih Nakhjavani) è quanto mai vasta e travolgente; travolgente di sentimenti di rivalsa e di speranze disilluse, traboccante di denuncie per tutto ciò che hanno patito, sentimenti che si rafforzano specialmente quando da lontano si cerca disperatamente di salvaguardare nel proprio paese i diritti umani, i diritti delle donne, non solo come stabiliti per legge, ma soprattutto per affermare quella libertà che è l’essenza della vita umana.  Shirin Ebadi, premio Nobel per la Pace, nei suoi scritti riflette questo fermento, fermento che si agita tra i ricordi della ‘Teheran cosmopolita degli anni 70 con i suoi ristoranti eleganti e i giardini ben curati e il modo straordinario in cui Ahmadinejad si sta impadronendo della città, riformandola per adeguarla alla sua visione estremista del mondo’. Ha lottato Shirin Ebadi anche contro se stessa pur di rimanere nella sua Teheran, per non lasciare soli tutti coloro che le chiedevano aiuto, che la imploravano di difenderli nei tribunali. Lei, che come giudice, si distingueva per far valere quei diritti umani che appartengono a tutti gli esseri. ‘La storia dell’Iran è la storia della mia vita (Shirin Ebadi, Finché non saremo liberi, Bompiani 2016, p. 5). La forza che dobbiamo apprezzare in Shirin Ebadi è quella di non cedere mai ai ricatti, alle intimidazioni, alla paura, ma di assumere un atteggiamento deciso e risoluto anche quando il disagio e il terrore si impadroniscono della sua anima. Per superare la malinconia del suo esilio Shirin Ebadi si rifugia nei versi di quel grande poeta che è Rumi, versi che recita in persiano: ‘’La tristezza per me è il tempo più felice …”. La disillusione profonda sopraggiunse quando l’ayatollah Khomeini subentrò al posto dello scià, proclamando la vittoria dei rivoluzionari (1979). La sua posizione fu chiara quando l’8 marzo la radio annunciò che tutte le impiegate della pubblica amministrazione avrebbero dovuto coprire i capelli, perché così ordinava Khomeini. Ma è proprio allora che si scopre la forza delle donne iraniane che, non solo non lasciarono il loro posto di lavoro, ma si opposero a tutte le angherie imposte dal governo.  ‘… per questo motivo’, dice Shirin Ebadi, ‘oggi esse sono in una posizione di rilievo nei quadri della Repubblica islamica. Donne in gamba, attive nella società. Eppure, nell’immaginario occidentale le musulmane sono sempre e solo sottomesse, velate e picchiate, analfabete: ‘ Gli occidentali non sempre hanno una immagine corretta dell’Iran, un paese indoeuropeo. Ma nonostante le donne facciano paura alle autorità tanto da far rintrodurre dal governo del presidente Ahmadinejad le quote azzurre nelle facoltà di Medicina, Odontoiatria e Farmacia, nonostante il movimento femminista sia vecchio di oltre cento anni, ancora non ottengono con facilità il divorzio o l’affidamento dei figli, sono penalizzate nell’eredità, nelle testimonianze davanti ai giudici, nel risarcimento in denaro in caso di ferimento o morte violenta. Ma anche se le donne iraniane siano state represse fin dall’inizio della rivoluzione del 1979 a causa delle leggi discriminatorie adottate dal regime, esse hanno lottato e il movimento femminista è diventato sempre più forte in tutto il mondo arabo, dove le donne hanno vissuto un risveglio.’  La battaglia per i diritti umani che Shirin Ebadi combatte da anni si fonda sul concetto di giustizia inteso come obiettivo. ‘Non si può spiegare cosa sia la giustizia, bisogna sentirla’ (Shirin Ebadi, Il mio Esilio, p: 44).  Ma Shirin Ebadi continua la sua battaglia, proprio perché ama l’Iran e, quindi, non vuole permettere che il lavoro di tante donne sia vanificato. Vuole difendere un Iran che è sospeso tra Occidente ed Oriente, tra le tradizioni e la globalizzazione, tra il passato e il futuro:  ‘… l’Iran è un paese grande cinque volte e mezza l’Italia … . Un gigante (Il mio esilio). Oggi, che l’Occidente è a diretto contatto con il fenomeno della emigrazione, conoscere le storie di queste donne, i loro paesi di origine, le loro paure e le loro speranze, dovrebbe aiutare a sviluppare il sentimento dell’accoglienza, perché stimolato dal fatto che gli emigranti sono nostri vicini, nostri fratelli, e la loro diversità è uno stimolo alla conoscenza di lingue e civiltà millenarie dalle quali è nato anche il nostro mondo occidentale fisicamente non molto distante dal loro, unito da un mare nostrum che ora addirittura copre tanti corpi di nostri fratelli. Un mare, che mentre sembra offrire la libertà con le sue onde sempre in movimento, nonostante il suo inesorabile divenire, diventa una tomba ferma, una tomba nostra, che giace nei suoi fondali. Il plurilinguismo e il pluriculturalismo, che potrebbero abbattere quell’eurocentrismo scaturito dal relativismo culturale, sono solo uno dei risvolti positivi legati al flusso emigratorio del nostro secolo; potrebbero rappresentare la scoperta dello sconosciuto, del negato, scoperta raggiunta attraverso gli infiniti spazi propri della libertà che offre la parola. Quella libertà cangiante e sempre varia e nuova come la offre il deserto che con ‘Quelle sabbie ondulate consentivano infinite interpretazioni; le alture e le valli procuravano numerose opportunità di congettura. … Libertà, per il beduino, era l’aria che respirava nel deserto. Era uno spazio aperto a ogni possibilità tra il conosciuto e il negato, il luogo disabitato dell’attesa tra due eventi reali (Bahiyyih Nakhjavani, La Bisaccia, Le Lettere, 2001, p. 8-7). Gli stimoli che il mondo degli emigranti ci offre abbracciano anche la nostra letteratura, e sono molte le scrittrici e gli scrittori che, attraverso i loro romanzi ci parlano di Adua (Igiada Scego), di Samia (Non dirmi che hai paura, G. Catozella), di Enaiatollah Akbari (Nel mare ci sono i coccodrilli, F. Geda), della signora Magazehi (Maurice Bigio, La ragazza di Teheran), di Alì, Houssein, e la grandezza della millenaria civiltà persiana (A. Sacchetti Misteri persiani), di Maman Nzusi: ‘Una donna nera e pazza ….. Incarna un fantasma femminile intrappolato nella memoria millenaria della gente di questo continente (Io sono con te, M: Mazzucco, Einaudi, p. 15). M