Aderendo in masse compatte ai propri sindacati e alle proprie Camere del Lavoro, i lavoratori italiani sanno di compiere un dovere primordiale verso se stessi e le proprie famiglie: il dovere di difendere con efficacia il proprio diritto alla vita e di forgiarsi un migliore avvenire ed una nuova dignità umana e sociale[1].Con queste parole Giuseppe Di Vittorio, allora segretario della Confederazione generale italiana del lavoro unitaria, nel febbraio del 1946, indicava il ruolo che le Camere del Lavoro erano chiamate a ricoprire nella società italiana postbellica: la concezione, cioè, di un sindacalismo costruttivo, attivo nella politica del Paese, ed attraversato dalla tensione verso un “migliore destino”[2]. Di questa storia, della funzione e del ruolo giocato dalle Camere del Lavoro in Emilia-Romagna, dalla loro nascita ad oggi, si occupa il testo Le Camere del Lavoro in Emilia-Romagna: ieri e domani, edito da Editrice Socialmente e curato da Carlo De Maria.Il libro, che raccoglie i contributi di numerosi storici del lavoro e del movimento operaio, ripercorre, dalle origini al presente, la storia degli istituti camerali emiliano-romagnoli, la forza e la radicalità del loro insediamento territoriale, le differenti cronologie che ne hanno caratterizzato l’evoluzione, il rapporto altalenante con il piano politico (che nel corso del Novecento spesso assume tratti “dirigisti e statalisti”, come scrive De Maria nell’introduzione al testo) e l’organizzazione stessa del sindacato, alla ricerca costante di un affannoso equilibrio tra strutture verticali e strutture orizzontali. Del resto, è proprio nell’armonizzazione di questi diversi piani di intervento che dimora una delle originalità dell’esperienza sindacale italiana e della Cgil: l’originalità di questo profilo, inoltre, ha permesso di resistere alle molteplici transizioni della società e della politica nazionale, traguardando nuove sfide, quelle più recenti, che stanno seriamente ponendo in essere una riconsiderazione ed una riconversione delle forme di rappresentanza e di partecipazione.

Dopo un capitolo introduttivo che riflette sulla dimensione territoriale del sindacato e sulla sua attualità dirompente, il testo offre degli affreschi sulle storie delle principali Camere del Lavoro della regione. Si passa, così, da un approfondimento dedicato alle correnti libertarie del sindacalismo bolognese nei primi trent’anni di vita, dalla fondazione della Cdl di Bologna nel 1893 al fascismo (curato da Antonio Senta), alle storie degli istituti camerali di Modena e provincia, Reggio Emilia, Forlì e Cesena, realizzate rispettivamente dagli studiosi Fabio Montella, Mirco Carrattieri e Matteo Troilo.

Nonostante le differenze e le specificità che ogni singolo territorio possiede e, se così possiamo dire, porta in dote, legate soprattutto a diverse visioni politiche maturate in contesti sociali ed economici che – malgrado la contiguità geografica – si rivelano piuttosto diversificati, è comunque possibile ripercorre un iter cronologico comune e parzialmente sovrapponibile. Le storie delle Camere del Lavoro emiliano-romagnole, infatti, affondano le loro radici nella fervente attività associativa popolare già presente in questa regione, e nella propulsione emancipativa dei lavoratori, che, in funzione di interessi collettivi, avevano iniziato a dar vita, nella seconda metà dell’Ottocento, a forme di associazionismo autogestito (si pensi alle società di mutuo soccorso, alle leghe e alle cooperative di lavoro e di consumo). Gran parte di queste forze confluiranno nei nuovi istituti camerali, che si diffonderanno in tutta la regione nei due decenni a cavallo del 1900, raggiungendo una diffusione sempre più capillare e radicata, sia nelle realtà urbane che nelle campagne.

La proliferazione delle Camere del Lavoro e la loro crescita in termini di iscritti si accompagna, oltre che allo scontro interno tra le diverse correnti politiche (socialismo riformista, socialismo massimalista, repubblicanesimo, sindacalismo rivoluzionario e anarcosindacalismo), ad un percorso di lotte e di rivendicazioni culminato nel “biennio rosso” ed estirpato, da lì a breve, dalla violenza squadrista. Le Camere del Lavoro, rinate dopo il fascismo e la guerra in un’Italia da ricostruire, continueranno a rappresentare nei decenni successivi attori fondamentali del processo di consolidamento democratico a livello territoriale, in un costante ed estenuante lavoro di saldatura sociale tra gli ambiti del lavoro e gli ambiti della vita, prefigurando quel “passaggio dalla totalità della classe alla complessità della persona” che verrà suggerito da Bruno Trentin alla fine degli anni Ottanta.

A fianco dei capitoli dedicati alla storia degli istituti camerali della regione, e dopo la sezione fotografica, a cura di Carlo De Maria e Matteo Troilo, sulla storia della Camera del Lavoro di Forlì (che ne valorizza l’archivio storico recentemente riordinato), il testo propone la lettura di tre saggi tematici, imperniati su tre differenti focalizzazioni. Il primo di questi, realizzato da Tito Menzani, offre una riflessione sul rapporto complesso che intercorre, nella seconda parte del Novecento, tra il mondo cooperativo (una delle peculiarità del tessuto economico e sociale dell’Emilia-Romagna) e gli stessi istituti camerali, soffermandosi in particolar modo sullo scenario romagnolo. Segue un denso articolo di Marzia Maccaferri, che tematizza il passaggio della storia sindacale relativo agli anni Sessanta e Settanta, prendendo come osservatorio privilegiato l’istituto camerale di Bologna e il sindacato bolognese nel suo complesso; per arrivare al saggio conclusivo di Sante Cruciani, dedicato ad una riflessione più generale sulle politiche sindacali della confederazione nazionale in relazione al ruolo territoriale delle Camere del Lavoro. In questo senso, infatti, il rapporto tra la confederazione e gli istituti camerali ha vissuto momenti di incentivazione e potenziamento dell’azione sindacale su base territoriale, come momenti di emarginazione e messa in secondo piano, soprattutto in corrispondenza di quelle fasi storiche in cui risultava centrale e dominante l’azione contrattualistica delle diverse categorie sindacali.

La struttura territoriale del sindacato, entrata in un cono d’ombra negli anni d’oro del fordismo, sembra oggi rivendicare una nuova centralità: il libro, che già nel titolo propone questa tesi, sostiene la necessità di recuperare “uno spirito di autogestione dell’intervento sociale” (così De Maria nell’introduzione), mediante l’incontro tra sindacato, movimenti sociali e comunità professionali attorno ad esigenze comuni, nel contesto di una crescente frammentazione del lavoro. In fondo, la riscoperta dell’esperienza del mutualismo, come prima radice da cui hanno preso linfa le Camere del Lavoro e la cooperazione, suggerisce la ricerca di un nuovo modello di confederalità, di “nuove strade federative”[3], grazie alle quali il sindacato si confermi capace di raccogliere le esigenze dei ceti subalterni, tornando ad essere punto di riferimento dell’agire collettivo nel territorio.

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Daniele Dieci. Laureato in scienze storiche presso l’università di Bologna e l’Université Diderot-Paris VII (Dîplome en histoire). Attualmente è assegnista di ricerca presso la Scuola di Scienze Politiche dell’Università di Bologna e ricercatore presso l’Ires Emilia-Romagna. Si occupa di storia urbana e del territorio, di storia del lavoro e di analisi delle pratiche lavorative in chiave diacronica.

 


[1] G. Di Vittorio, “Il lavoro salverà l’Italia”. Antologia di scritti 1944-1950, a cura di F. Loreto, Roma, Ediesse, 2007.

[2] Ibid.

[3] C. Minghini, F. Chicchi, Quali alleanze? Giovani e sindacato di fronte alla frantumazione del lavoro, Roma,Ediesse, 2011.

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per far fronte a una società in rapida mutazione
a cura di Carlo De Maria
Storia
Bologna, Editrice Socialmente
2013
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