Graziella Enna, nata nel 1969 a Oristano, laureata in lettere classiche presso l’Universita degli studi di Cagliari, insegnante di lettere.

Tutto scorre. Con Grossman tra le mistificazioni dei totalitarismi

Di Graziella Enna

Difficile allontanarsi dalla lettura di un simile capolavoro e non essere indotti a rileggerlo più volte. Ogni pagina annovera una tale densità di riflessioni, di interpretazioni esaustive e chiare dei fatti descritti da catturare l’attenzione e l’interesse del lettore in maniera irresistibile e totalizzante. Tutto quello che avremmo voluto sapere sulla Russia del Novecento è pronto a travolgerci in questo libro, presentato con una potenza espressiva nuda, diretta fino alla crudezza. Grossman svela impietosamente le mistificazioni ideologiche tipiche dei totalitarismi, si interroga sulle eterne e insolubili dicotomie che li hanno caratterizzati: chi siano veramente accusati e accusatori, carnefici e vittime, schiavi e padroni, sommersi e  salvati. Sono insolubili antinomie che hanno fatto non solo la storia del popolo russo dopo la rivoluzione ma rispecchiano in generale l’oppressione generata dai grandi totalitarismi. Il romanzo prende le mosse da un viaggio in treno, foriero del  cambiamento radicale della condizione del personaggio principale, che diverrà l’inizio di una presa di coscienza in concomitanza col ritorno ad una vita normale. Ivan Grigor’evič, protagonista e narratore interno della vicenda, ha infatti  trascorso 30 anni di prigionia prima in carcere e poi nei gulag della Kolyma: da brillante studente universitario nutrito di ideali di libertà,  è diventato un uomo prostrato,  indurito, disilluso, sofferente, come tutti i reduci.

Dopo il suo ritorno si inserisce nuovamente nell’ambito lavorativo e tenta di ricostruire la sua esistenza interrotta. La trama è ridotta all’osso, si può affermare che l’elemento pregnante della narrazione sia il dissolversi della nebbia in cui erano immersi i ricordi di Ivan nei terribili anni della notte polare siberiana da cui emergono un monologo interiore serrato, a volte simile a un flusso di coscienza, lucido, consapevole capace di attuare una disamina sconvolgente della storia russa del Novecento. Il suo ritorno a Mosca e a Leningrado diventa un elemento perturbante, imbarazzante e scomodo per i parenti e gli amici di un tempo. Ivan riesce a inviare il telegramma del suo imminente arrivo al cugino Nikolaj, che ha vissuto una tranquilla esistenza piccolo borghese grazie alla sua codardia, alla semplicità di adattarsi al potere, per paura e per sete di rivalsa di studioso poco considerato e ignorato. Era stato facile per lui assecondare le idee del potere, uniformarsi a dicerie spacciate per verità inconfutabili sul presunto operato assassino o illecito di medici, scienziati, farmacisti ebrei o altre persone ritenute indesiderate. Ancora più semplice credere alle accuse infamanti rivolte ai suddetti innocenti considerati nemici del popolo e votare per la loro espulsione: divenire sciacalli dalle sfortune altrui, in sintesi. Nikolaj inizia ad avere una crisi di interiore di fronte al cugino, sa bene di appartenere all’immonda schiera di persecutori con la coscienza pulita al momento delle accuse o delle delazioni.

Del resto nessuno avrebbe mai dubitato della colpevolezza di coloro che erano finiti nei gulag, erano rei confessi,  o meglio, indotti dalla tortura a dichiararsi tali.  Nikolaj l’avrebbe scoperto dopo la morte di Stalin, quando lo stato confessò i propri orrendi delitti, le sevizie inflitte, proprio quello stato infallibile, perfetto e divino che tanto aveva idolatrato e incensato. Il suo comportamento gli appare in tutta la sua ipocrisia e torbidezza. E trovarsi di fronte Ivan, suo cugino, non fa che acuire il disagio, la cognizione della sua condotta immorale e vile, contrapposta al coraggio che Ivan aveva dimostrato nell’affermare il valore della libertà in uno stato che l’aveva condannato alla damnatio memoriae perpetua. In un’atmosfera imbarazzante di sollecitudine e affettata cordialità, Ivan percepisce la distanza incolmabile che esiste tra loro, comprende il passato ruolo di connivenza col potere del suo parente. Nikolaj dal canto suo vorrebbe inginocchiarsi e chiedergli perdono perché si rende conto che il vero sconfitto è lui, che inconsciamente gli invidia l’infima posizione di detenuto che ha ricoperto in cui  non era stato più costretto a votare per la condanna di altri esseri umani e a sancirne irrevocabilmente il destino.

Non è l’unico incontro di Ivan questo, ma diventa paradigmatico nel romanzo per esprimere la disparità tra chi era riuscito a vivere negli agi e nella tranquillità e i superstiti inghiottiti nei gulag per anni che vengono accolti con un atteggiamento pietistico e patetico, ignobile risarcimento per i loro animi vilipesi e i loro corpi vessati da fatiche e stenti. Tra gli informatori e i delatori del partito che causarono la rovina di milioni di persone, ci furono talvolta persone virtuose, dalla condotta ineccepibile, padri e figli esemplari, amanti della scienza, della letteratura, della musica, amici premurosi e devoti. Il protagonista-narratore prende come esempi quattro uomini, definiti Giuda, che vengono descritti in base ai loro infami comportamenti: il primo, costretto a calunniare, finisce lui stesso nei lager per scarsa furbizia e viene disprezzato al suo ritorno, il secondo, intelligente e riservato, attratto dal fascino irresistibile del potere, per il terrore che gli incute, diviene confidente della polizia, il terzo invece, parvenu di oscure origini, raggiunge alte cariche nel politbjuro con centinaia di delazioni, l’ultimo, privo di spessore morale e intellettuale, avido di beni materiali, gode nello smascherare i nemici del popolo, pur di procurarseli, con volontarie e consapevoli denunce. Insomma chi accusare? Lo Stato o la perfida abiezione e la squallida vigliaccheria in cui precipitano gli uomini? Questo è il tormentoso interrogativo a cui non riesce a dare una plausibile spiegazione e che lo affligge perennemente.

Gli rimane una sorta di magra consolazione nell’amara e beffarda impossibilità di  distinguere innocenti e colpevoli in uno stato in cui la libertà non esiste. Ecco, si affaccia gradualmente  la vera cifra del romanzo: il significato della libertà. Se si scorrono le pagine di un libro di storia risulta chiaro che la Russia visse nella mancanza di libertà in ogni tempo e nessuno riuscì ad affrancarla dalla millenaria schiavitù, tantomeno un regime totalitario e monopartito che voleva far decollare la Russia trasformandola ex abrupto in una potenza industriale e competitiva fondata su una feroce burocratizzazione dello stato e una mostruosa politica repressiva utile soltanto a procurare un’immensa forza lavoro di prigionieri schiavi. Ivan per ritrovare la sua larva di libertà riesce a trovare un lavoro in un artel, (cooperativa di lavoro), e alloggia in affitto presso una vedova, Anna Sergeevna.  Inizia dentro il suo animo a profilarsi chiaramente il senso di tutto ciò che è accaduto in Russia e si domanda quale sia il ruolo e il modo di vivere di una nuova generazione nata sulle ceneri di quella perduta e come miseramente sia naufragata l’idea di libertà. Ivan per la prima volta prova una sensazione insolita nel poter lavorare senza scorte, senza sentinelle, senza insulti, benché si renda conto del misero salario che gli permette solo una vita grama, che non gli pesa abituato a quella ben più dura del gulag.

Per questo motivo scopre che la maggior parte delle persone svolge lavoretti in nero per poter arrotondare i magri e insufficienti introiti col costante timore che le proprie attività illecite vengano scoperte. Nella lotta sommersa per una vita migliore, in cui si fabbrica qualche oggetto utile o capo di vestiario o si coltiva qualcosa per sé di nascosto, si manifesta lo spontaneo e insopprimibile desiderio di libertà connaturato alla natura umana. Anche le manifestazioni culturali come cinema, teatri, romanzi, imbavagliati dal potere, suscitano in Ivan angoscia e fastidio, perché mostrano una realtà fittizia, convenzionale e stereotipata, non corrispondente a quella vera. Gradualmente riesce a comprendere le dinamiche della società e si rende conto di aver conosciuto veramente l’animo umano e le sue debolezze nella vita brutale e spietata del gulag, dove si lottava per un cucchiaio di minestra in più o per un alleggerimento del lavoro. Da uomo libero intuisce come anche le persone altere e agiate siano a loro modo avidi sciacalli della società e scorge in loro meschinità, cupidigia, paura, esattamente come nel lager.

Una differenza sostanziale però discrimina i liberi e i detenuti: i primi cancellano il passato e per uniformarsi al tempo presente e al potere e vi si adattano docilmente, gli altri invece erano rimasti fedeli alle idee della loro epoca e avevano trovato nella libertà, valore unico e imperituro, la forza, lo stimolo, la sola via in grado di riscattare la loro condizione di dannati. La convivenza con Anna Sergeevna e con il suo nipotino di dodici anni, gli consente di sciogliere la sua anima avviluppata ancora dalla crudezza della prigionia, rinascono in lui sentimenti sopiti da decenni, di tenerezza e affetto, umanissimi e leciti. Anna irrigidita nei tratti del volto, che denotano una giovinezza non ancora sfiorita, è stata testimone di eventi tragici. Entrambi pertanto si portano addosso un doloroso passato che intuiscono reciprocamente dal modo di comportarsi e agire nella quotidianità. In Ivan sono vividi i ricordi della condizione femminile nei lager, donne abbrutite, mascoline, o madri e mogli disperate e costrette a violenze di ogni tipo. Si inserisce nella narrazione la storia struggente della dolce Maša, giovane sposa e madre, deportata perche non ha denunciato il marito, la cui vicenda diventa esemplare e, nella sua carrellata di volti e storie parallele, immerge il lettore nei drammi quotidiani di milioni di famiglie russe. Ivan trova in Anna una donna protettiva e scorge qualcosa che mai aveva visto negli occhi di nessuno: compassione autentica, delicatezza, bontà.

Nasce un sentimento tra loro che li spinge ad aprire il loro cuore, a liberarsi del fardello di tutti i ricordi angosciosi. Anna espone in modo drammatico, crudo e disperato il processo di dekulakizzazione, iniziato prima con l’arresto dei capifamiglia e poi delle famiglie intere. Anche in questo caso i più danarosi riuscivano a corrompere col denaro gli esponenti della GPU (sezione della NKVD), mentre i più deboli erano destinati a soccombere. Inizia poi una spietata e ignobile propaganda, persino per radio, contro i kulaki, (molto simile a quella hitleriana contro gli Ebrei), essi sono additati come non uomini, ma come esseri immondi e repellenti, sfruttatori, parassiti, Liquidati brutalmente i kulaki, uccisi o deportati, iniziò l’epoca dei kolchoz, della collettivizzazione integrale, ma il rendimento delle colture colò a picco, le quote produttive imposte dallo stato erano impossibili da raggiungere. Tutto questo generò un’ondata di perquisizioni e requisizioni che portò alla morte per fame tra indicibili strazi di  migliaia di persone soprattutto in Ucraina. Queste sono tra le tante pagine crude del romanzo le più difficili da leggere, un climax ascendente di eventi turbinosi, che fanno precipitare il popolo russo in una tragica spirale di sopraffazione, violenza e schiavitù. In Ivan si fa strada sempre più prepotentemente la necessità di “trovare un nesso tra il passato e il presente”, ripercorre con la mente le tappe del suo arresto, i terribili mesi in carcere, gli interminabili anni dei gelidi gulag, i tanti che hanno incrociato il suo duro cammino.

Continua a domandarsi come avesse fatto lo stato a divenire un cupo autocrate che aveva privato il popolo di ogni libertà, mandando a morire milioni di persone, riempiendo prigioni e lager per costruire ciclopiche opere a volte inutili e in luoghi inospitali. Inizia così una spietata analisi delle figure di Lenin e Stalin. La Russia che si era liberata dal potere degli zar, aspettava un uomo nuovo che la sottraesse dalla sua millenaria schiavitù e la rendesse più vicina alla libertà degli stati dell’occidente europeo ma paradossalmente iniziò un irreversibile processo che andò proprio in senso contrario. L’uomo si rivelò bifronte, da una parte intellettuale, colto, modesto, dall’altra spietato contro i suoi oppositori, fanatico della sua nuova fede. Divenne perciò sì un vincitore ma della non- libertà.

Dov’è mai la speranza della Russia, se il più grande dei suoi riformatori, Lenin, non ha distrutto, ma raorzato l’unione tra lo sviluppo russo e la non-libertà, il servaggio?”

La rivoluzione proletaria,  il desiderio del popolo di diventare padrone delle terre si rivelò incompatibile col nuovo Stato che sarebbe divenuto invece il trionfo del nazionalismo e Stalin ne  divenne il nuovo padrone. Unione di marxista europeo e satrapo asiatico, coltivò il culto di se stesso, della burocrazia e della polizia, il disprezzo della dignità umana. Costruì uno stato completamente privo di libertà, mettendo in piedi un apparato che non era che un’enorme teatrino in cui solo in apparenza esistevano le direzioni dei kolchoz, degli scrittori e degli artisti, del politbjuro, delle assemblee, dei comitati, ma in realtà era solo lui a decidere. La libertà insomma fu sconfitta in ogni campo, nella politica, nella cultura, nell’agricoltura, nel lavoro degli operai. Con la scomparsa della libertà, Stalin  diede la prova più spietata della sua follia sia nei piani quinquennali che prevedevano opere che si rivelarono inutili, che negli apparati polizieschi e negli organi di sicurezza dal carattere repressivo che applicavano la tortura con inaudita crudeltà. Così prima con Lenin, poi con Stalin e infine  dopo la sua morte, la Russia rimane uno stato senza libertà. Ivan Grigor’evič trova finalmente la risposta a tutti i suoi interrogativi: per quanto sia potente uno stato, la vera forza e la vera vita hanno significato solo nell’ essere uomini liberi. Da una parte o dall’altra del filo spinato la libertà è il valore immortale, l’unico per cui valga la pena vivere e lottare.

Ivan Grigor’evič non si stupì che la parola LIBERTÀ – fiorita sulle sue labbra quando, studente, era finito in Siberia –, che quella parola vivesse, non fosse scomparsa dalla sua testa neanche adesso”.

Tutto scorre Book Cover Tutto scorre
Vasilij Grossman. Trad di Gigliola Venturi
Storia
Adelphi
2010
229 p., brossura