Gianrico Gualtieri è nato a Napoli il 10 febbraio 1962. Dopo aver conseguito la maturità artistica (1979), ha frequentato la Facoltà di Architettura e l'Accademia di Belle Arti. A partire dagli anni '80 avvia una ricerca artistica sulle tecniche della pittura antica, formandosi dapprima alla scuola del '600 italiano e in seguito, alle scuole fiamminga e olandese. Esegue numerose copie e lavori personali, con una predilezione per i generi della natura morta e del paesaggio.

Metafisica della Luce : la nascita della pittura ad olio

Di Gianrico Gualtieri

Ogni civiltà ha una  sua tecnica artistica che la caratterizza e che è basata su princìpi e valori essenziali che sono, in qualche modo, una particolarizzazione della verità, così come lo è quella civiltà specifica. Ognuna di queste tecniche « parte » da elementi simbolici che si collegano a considerazioni e teorie filosofiche e spirituali che poi la tecnica, mettendo in opera i suoi materiali e processi, « visualizza », manifesta e rende visibile. Dalle verità invisibili a quelle visibili e manifeste, questo il cammino.

Abbiamo già accennato al fatto che la nostra civiltà cristiana è una civiltà ibrida, formatasi dall’innesto di una piccola setta esoterica della tradizione giudaica sul tipo della religione di stato propria all’Impero romano. L’arte cristiana ai suoi inizi si distingue, in pittura, solo per i temi, ma le tecniche sono sostanzialmente quella dell’affresco e la tradizionale pittura a tempera su tavola che era già nota e in uso nell’antichità classica.

A causa di tale genesi e natura specifica, la civiltà cristiana ha dovuto affrontare una serie di « crisi » e cercare di superarle affrontando, al contempo, il problema di una sua specifica identità, sia sul piano del pensiero, sia su quello visivo dell’estetica e delle arti.

Alla metà del XII secolo si avverte un’esigenza di rinnovamento che è anche un approfondimento della ricerca dell’identità specifica della civiltà cristiana. Si profila quella che gli specialisti hanno battezzato « Metafisica della Luce » (categoria storiografica utilizzata per la prima volta da Clemens Baeumker in un suo saggio su Witelo del 1908), della quale il vescovo francescano Roberto Grossatesta  (Stradbroke, 1175 – Buckden, 9 ottobre 1253) è sicuramente il più celebre rappresentante con la sua opera De Luce (si veda in proposito l’eccellente edizione critica del De Luce per le edizioni Pisa University Press, 2016, con testo latino a fronte, traduzione e commento di Cecilia Panti e prefazione di Pietro Bassiano Rossi).

L’opera di Grossatesta, della quale riassumeremo qui le tesi essenziali per i nostri scopi, è peraltro di una fondamentale importanza ed è stata molto rivalutata anche in campo scientifico moderno, in quanto è stata vista come un’anticipazione di diversi secoli di quella che sarebbe poi stata la teoria del Big Bang. E al di là di questo aspetto, la riflessione del vescovo francescano è davvero profonda, sia razionalmente sia sul piano della spiritualità, perchè rielabora in maniera creativa ed originale temi e problemi della filosofia e della cultura spirituale del suo tempo.

Le tesi esposte nel De Luce possono essere riassunte nei termini seguenti : l’universo si è originato dalla « subitanea e infinita espansione di un ‘punto’ o ‘atomo’ di luce » che espande la materia, la trascina con sé e al tempo stesso le dà forma, creando la varietà delle cose visibili. La Luce è dunque anche ‘prima forma’ ed è impossibile non pensare ad un riferimento al Logos come origine e fonte di tutte le cose visibili. La teoria di Grossatesta si articola ovviamente in dettagli abbastanza complessi nel tentativo di spiegare e risolvere le complesse aporie del rapporto tra Luce infinita e creazione finita, affrontando anche qui, come è stato notato, problemi che saranno affrontati solo dalla matematica moderna col calcolo infinitesimale.

A giudizio di chi scrive, l’interesse maggiore e il valore della riflessione del vescovo francescano è nel suo essere insieme fisica e metafisica, un po’ come avveniva per i presocratici. Siamo in un’epoca nella quale non è ancora avvenuta una netta cesura e separazione tra i diversi ambiti del sapere. Una concezione universale ed enciclopedica della quale l’ultimo grande rappresentante sarà il nostro Tommaso Campanella.

Ma veniamo, dopo questi brevi cenni sulla temperie della « Metafisica della Luce », su Grossatesta e sulla sua opera più celebre, all’argomento centrale del nostro scritto : come nasce e quali significati ha la tecnica della pittura ad olio ?

In uno dei nostri precedenti articoli abbiamo accennato ai tentativi di « rinnovamento interno » compiuti dalla civiltà cristiana, in particolare nel XIII secolo ad opera di Dante nella letteratura o di Giotto in pittura ; questi apporti vivificano in profondità la tradizione ma abbiamo anche accennato all’alterazione del ‘naturale’ dinamismo fisiologico dell’arte all’interno di una civiltà e conseguentemente allo ‘squilibrio’ verso un naturalismo unilaterale che si svilupperà sempre più, senza riuscire però, per lungo tempo, ad eliminare completamente il simbolismo, che resterà presente nei temi, nel sostrato generale della cultura che darà origine alle opere d’arte, e finanche nelle innovazioni tecniche richieste dal grado di naturalismo crescente.

Il De Luce è databile intorno al 1235 e per quanto le tesi in esso esposte siano uniche e quasi geniali per l’epoca, va risituato nel quadro di una « Metafisica della Luce » , cioè di una speculazione tra fisica, metafisica e simbolismo che informa di sé tutta un’epoca. L’importanza attribuita alla luce determina, dapprima, una trasformazione nel modo di pensare e costruire l’architettura : è la nascita dello stile gotico, con una enorme importanza attribuita alle superfici vetrate attraversate dalla luce.

Frammento di vetrata con san Giacomo in abiti da pellegrino, Colonia o Basso Reno, ultimo quarto del XV secolo, Vetri colorati, pittura a grisaglia, piombo, Colonia, Museum Schnütgen

E sono proprio queste innovazioni e la loro importanza che sfoceranno, al culmine di un lungo periodo di elaborazione fatto di tentativi e di successivi miglioramenti, nella nascita di un’immagine che è il frutto di una tecnica completamente nuova e con un suo profondo simbolismo : la pittura ad olio.

Anche se Jan Van Eyck (circa 1390 – 1441) è stato talvolta considerato l’inventore della pittura ad olio, quest’ultima è il risultato finale di un processo lungo e laborioso di perfezionamento intorno all’idea di una immagine che sia come attraversata dalla Luce e che la renda presente, manifesta, proprio come avviene nella vetrata ; si tratta di ripensare il modo di concepire l’immagine, nel suo simbolismo e correlativamente, nel suo costituirsi tecnico-materiale.

I primi tentativi ruotano intorno all’idea di vernice, si cerca di conferire brillantezza alle pitture realizzate a tempera all’uovo applicando una vernice, sulla quale si comincia a riflettere : il termine può essere validamente messo in relazione con Bereniké, che evoca naturalmente il mito della regina Berenice e della sua bellissima chioma trasformata in stelle, cioè in luce. Bereniké che significa « portatrice di vittoria » e segna una vittoria della Luce : quella luce che la vernice conferisce e della quale è simbolo.

La stessa Veronica, al di là delle etimologie immaginarie (ma non per questo sprovviste di un loro senso) di « vera icona » e di « vera vittoria », ha la sua vera etimologia nella stessa radice del nome Berenice, significa cioè « portatrice di vittoria ».

Santa Veronica e il velo con il volto di Gesù, dipinto del 1433 di Hans Memliing

L’immagine così concepita intende, nel suo stesso costituirsi, essere un’immagine della Luce, della quale proclama la vittoria.

Ecco il collegamento con le tesi esposte nel De Luce : l’immagine deve mostrare e testimoniare la potenza della creazione divina costituendo un modello analogico di tale creazione ; la sua tecnica, che la rende visibile, deve riassumere e « testimoniare » tale creazione. L’artista, tesi corollario che verrà poi ampiamente sviluppata nel Rinascimento, è creatore analogamente a Dio.

Ecco il fulcro centrale, questa analogia e il fatto che l’immagine deve rendere visibile il processo della creazione divina. La vernice conferisce brillantezza ma non permette di impregnare l’essenza stessa dell’immagine di trasparenza e di luce, occorre riflettere ancora, trovare qualcos’altro, e si vede nell’olio la sostanza ideale. Innanzitutto per i suoi significati simbolici, il Cristo è l’unto del Signore e l’olio era un simbolo di regalità, la noce simboleggiava Cristo anticamente e uno dei primi oli ad essere sperimentato fu l’olio di noce, solo in seguito si passò all’olio di lino.

Inoltre, dal punto di vista tecnico, l’olio utilizzato all’epoca non era certo quello spremuto a freddo che conosciamo oggi, che si presta alla fabbricazione industriale ma con risultati più che mediocri sul piano tecnico. L’olio veniva cotto in presenza di ossidi per renderlo più siccativo, ne risultava una materia molto spessa e viscosa, più simile ad una vernice che ad un olio, ed è certamente nel tentativo di trovare vernici sempre più adeguate che si è giunti a sperimentare con l’olio, è noto che esistevano vernici spesse da applicare col palmo della mano, erano probabilmente a base di olio cotto.

L’immagine concretamente era realizzata così : la tavola che serviva da supporto era preparata con una mistura di gesso e colla che una volta asciutta veniva imbiancata, su questo gesso imbiancato veniva tracciato un disegno, talvolta a punta d’argento, la matita dell’epoca, altre volte a pennello. Si  stendeva poi su tutto uno strato trasparente di una verniciatura tra il bruno, l’arancio e il dorato, che aveva per funzione di lasciare la luminosità del bianco trasparire, ma di permettere più facilmente ai colori sovrapposti di coprire. Difatti i colori erano utilizzati a velatura, che è il tratto distintivo e caratteristico della pittura ad olio, venivano cioè applicati in strati trasparenti e mai completamente coprenti, difatti sotto molti dipinti fiamminghi si può ancora leggere il disegno sottostante attraverso gli strati trasparenti di colore. Ogni strato di velature andava lasciato asciugare prima di poter passare allo strato seguente, per questo spesso un grosso polittico richiedeva anche qualche anno di lavoro.

Jan Van Eyck, Santa Barbara, 1437

Ogni pittore aveva le sue proprie formule e materiali ed anche segreti di bottega, e così è stato fino al XVIII secolo quando il razionalismo ormai preponderante ha fatto piazza pulita dell’artigianalità in senso lato e con essa, dell’arte.

Chiudiamo qui il nostro excursus sulla nascita e sul simbolismo della pittura ad olio, facendo notare come con l’avvento di quel razionalismo (tanta ratio e così poca ragione!) siano state dimenticate e neglette anche le origini e il simbolismo della nostra pittura ad olio, tecnica principale e distintiva della nostra ormai compianta civiltà.