Una bussola per bandiera. Poesie dopo Gaza, la poesia civile di Simone Sibilio
Di Valeria Di Felice
Se è vero che la poesia è anche la testimonianza di una memoria condivisa, è altrettanto vero che nella raccolta Una bussola per bandiera di Simone Sibilio c’è quel filo resistente che lega la parola al cuore pulsante dell’autentico. Un filo tessuto con l’efficacia di una fisionomia letteraria già riconoscibile nonostante sia – la sua – un’opera prima, uscita per Di Felice Edizioni nel 2021 e ripubblicata in seconda edizione nel 2024 con l’aggiunta della sezione “Poesie dopo Gaza”. In questa raccolta Simone Sibilio, docente di lingua e letteratura araba alla Ca’ Foscari di Venezia e attento traduttore, si fa interprete di una dimensione corale e, nell’intercapedine tra realtà e luogo ispirativo, condensa l’essenza – attraverso la sua erranza – dell’avvicendamento umano, il suo disorientamento di fronte alle derive della storia e le sue possibilità di riscatto.
In un contesto, come quello dell’Italia contemporanea, in cui la poesia di impegno civile potrebbe essere più valorizzata, Sibilio preannuncia già dal titolo una visione dalla forte caratura sociale, una tempra letteraria sensibile all’altro e decisa nel raccontarlo. Nel costante scavo della sofferenza umana, la parola ne coglie l’urgenza del canto ma anche le tante espressioni del coraggio: quel coraggio che a volte è forza resiliente portata al confine della sopravvivenza, come la storia di Fatena al-Ghurra, poetessa gazawi residente in Belgio, che durante una sua visita ai familiari a Gaza nell’ottobre del 2023 è rimasta accanto ai suoi affetti, sospesa “al giudizio ineffabile di chi scrive i destini del tempo”, in una terra di devastazione dove “tra un foglio ritrovato e uno bruciato / c’è la misura del mondo / e il rimpianto / di braccia troppo corte per arginare i venti / per chiudere i battenti di una predetta morte”.
Altre volte quel coraggio diventa gesto radicale, sacrificio estremo in nome di quei valori inalienabili che dovrebbero essere fondativi di ogni cultura. È l’esempio di Aaron Bushnell, il giovane militare dell’aeronautica statunitense che nel mese di febbraio del 2024 si è dato fuoco davanti all’ambasciata israeliana di Washington per protestare contro il genocidio del popolo di Gaza: “Aaron, ardono in te tutti i dogmi arruolati, i valori ostentati, / le leggi inapplicate. / Sei anche tu vittima del crimine impunito. / Non credere al mostro che ti dà del pazzo. / Né a chi ti traduce come un verso scomposto. // Eri solo troppo umano per vivere.”
Vita e morte si rincorrono in queste pagine di tormento, inquietudine, denuncia, ma anche di intensa consonanza verso i più deboli e gli emarginati, verso le periferie del mondo. Tra i proclami di guerra, sono le madri, i padri, i bambini che affollano la coscienza dell’io lirico, un io completamente teso all’ascolto nella consapevolezza che la scissione tra il poeta e la grande famiglia umana, come direbbe Czesław Miłosz, “scompare e la poesia diventa un articolo di prima necessità come il pane”.
È l’humanitas che attraverso la parola, mai frutto di improvvisazione né di un lascito emozionale senza freni, scorre tra le macerie di uno scenario di guerra, quanto di un paesaggio interiore segnato dalla precarietà del futuro e dai barbarici contraccolpi della storia: “Che colore vorranno incollare alla Storia? / pagina bianca su lapide nera.” Come non riecheggiare il lapidario aforisma di Adorno, secondo il quale “scrivere una poesia dopo Auschwitz è un atto di barbarie”. E come non pensare al massacro a Gaza che ripropone la stessa tragedia nell’atavica narrazione della questione israelo-palestinese, sotto la persistente minaccia dell’annientamento del popolo palestinese e della sua memoria?
In questo “sangue rappreso di rivalsa”, è la voce dell’oppresso che si erge dalle ferite incolmabili dell’occupazione e delle rovine, è il peso di una storia subita che non ha più parole per comprendersi, è anche il silenzio lacerato che scende nei cimiteri “irrorati dalla ruggine delle armi”, dove “i vivi non soffrono e i morti non dormono”. Tra i detriti e l’insalubre aria di questo tempo, “le case dimorano negli interstizi tra metafora e memoria”, e la perdita rimane vuoto indicibile – senza nome e senza nomi –, scolpito sulla pelle di un destino comune che sembra inglobare le identità individuali. Con la celebre frase “I vecchi moriranno e i giovani dimenticheranno”, attribuita al fondatore dello Stato d’Israele David Ben Gurion, si apre la lirica “Non dimenticheranno”: quasi un antidoto – quel non dimenticheranno – alla cesoia distruttiva della mano coloniale che ha reso Gaza una prigione a cielo aperto nell’attesa di una cancellazione radicale di ogni traccia. Di fronte allo sradicamento di un passato collettivo costretto alla necropolitica, Sibilio fissa un inventario memoriale, vale a dire versi accumulativi che reagiscono alla minaccia dell’oblio: “Le chiavi appese a tralci d’ulivo / le foto di un altare, la strada dolorosa, / i colli e i pozzi, i salici e i frantoi / le capre nei pascoli, i muli e i carretti / i bambini nella polvere, gli anziani sugli aratri / il canto che propaga le onde del passato / i versi di sangue, le spranghe e le catene / la cenere e il sudore, le mappe e le barriere / la nave che partì nella notte del destino / il cavallo abbandonato a far compagnia alla casa / le contadine in coro ad addestrare il lutto / i miliziani in raduno presso l’acquedotto / lo scavo nella terra, i frutti del mattino / la schiena ormai ricurva, le mani sul catino / il porto illuminato e i pescherecci vigili / i letti ancora caldi tra i petali di maggio. // I vecchi moriranno: è certo. / Ma i giovani non dimenticheranno.”
È lo spirito di un popolo resistente ciò che emerge in queste pagine dense di richiami, echi, omaggi, sguardi: quello palestinese ma anche tutti quelli che lottano quotidianamente per l’autoaffermazione e la salvaguardia della propria casa, intesa come dimora congenita del cuore. È il dispiegarsi della quotidianità che svanisce man mano sotto la gravità delle macerie, sotto il grigiore della polvere; il “cognome di un mondo caduto / dalla memoria / e dall’alfabeto”. Tuttavia, sotto questa spada di Damocle che ingravida l’esistenza di dolore, c’è anche la bellezza di una tregua, l’attaccamento struggente alla vita: c’è l’amore per la terra, il tempo del sospiro, “il silenzio della sera e la brezza sulla riva”; c’è la lezione della nonna, il ricordo che “una stella, qualunque siano le sue punte, è lì a donare luce”. C’è una frontiera dell’immaginazione nella quale si amplifica la vita e il suo valore, c’è un tempo sospeso nel quale si rigenera la possibilità di un domani.
Se la prima sezione della raccolta è incentrata su Gaza, con la seconda e terza sezione – “Nel canto” e “Ancora lì, oltre i margini” – l’orizzonte si fa più ampio e l’esperienza dell’esodato, dell’emarginato, del rifugiato, dell’oppresso si dilata in una visione onnicomprensiva, senza confini: dagli induisti ai curdi, dagli eritrei ai siriani.
Sono liriche intrise di un’ispirazione universale e accompagnate da un corredo iconico e simbolico che chiama in causa il naufragio esistenziale di molti migranti costretti a immaginare e a cercare un altrove. Una poetica votata al tempo del viandante, un tempo cogente, inderogabile, ambivalente che espone l’uomo al rischio della perdita – anche di se stesso – ma anche al sogno della salvezza. Sono i transiti della paura, dell’angoscia, della preghiera, della rabbia, dell’illusione, che scorrono nel rotocalco dei migranti, prigionieri della grande storia che ricade come condanna sui singoli destini. Ed è di fronte a questa morsa – discarica delle derive dell’ignoranza e del potere – che il senso fraterno si rafforza: “oltre appelli e statistiche / oltre epigrafi e evidenze / saremo ancora più fratelli.” In questo concentrato di umanità, Sibilio si immerge nelle sonorità aspre, amare, infrante, ma anche commosse, decise, di un coro di migranti che si alza simbioticamente e che canta all’unisono nonostante la dispersione e le infinite direzioni dei passi. Il migrante spesso è una corda tesa tra la drammaticità di una situazione dalla quale fugge e la speranza, spesso disattesa o infruttuosa, di una possibilità di sopravvivenza. Ogni poesia è portatrice di una intuizione colta nel limbo della frontiera. Ogni poesia è la bussola che riconduce alla bandiera della dignità. Ogni poesia è la tessitura di quel filo che, legando la parola al cuore pulsante dell’autentico, ricuce le maglie rotte dell’umanità.
















