Marcello Chinca ha svolto la professione di avvocato per venti anni sino al suo ritiro nel 2007. Svolge ora l'attività di critico letterario e d'arte. Scrittore

La maratona di Sydeny

Di Marcello Chinca

A Sydney ci andò nel 1984 per tre mesi, a seguito del padre che vi risiedeva per lavoro già da qualche tempo. Avevano un appartamento a Double Bay di fronte alla baia. La mattina lui si metteva uno zaino alle spalle con tutto l’occorrente per la giornata: asciugamano, costume, un cambio blue-jeans e maglietta, un libro, una bottiglia d’acqua, sigarette. Correva per prepararsi alla Maratona che si sarebbe tenuta in città da lì a due mesi. Ogni giorno cambiava percorso e col tempo correndo una media di un paio d’ore ogni volta perlustrò quasi l’intera città, passando davanti all’Opera House, il Darling Harbour poi per l’Harbour Bridge, oppure attraversando l’Orto botanico o Chinatown in direzione di Boundi Beach, oppure direzione Paramatta.

Correva per le strade meno trafficate, a volte inoltrandosi per i numerosi parchi della città. Finito l’allenamento sostava nelle spiagge che si era prescelto, si faceva ancora una mezz’ora di nuoto, poi si stendeva sull’aciugamano, per leggersi un libro, una sigaretta in mano. Più tardi si cercava un Fish&Chip per mangiarsi qualcosa. Al ritorno prendeva un autobus ed a pomeriggio era finalmente a casa.

La sera usciva con un palyboy italiano, residente a Sydney già da tempo. Si chiamava Carlo, in città si manteneva lavorando da cameriere e la sera era un abituè dei più esclusivi locali notturni della città. Carlo era un romano ed un fascista dichiarato. Per ragioni mai sondate era dovuto riparare in Australia. Carlo mostrava un vivo interesse per lui, per il fatto che fosse italiano, per il suo atletismo estremo, e pur conoscendo le sue opposte visioni politiche lo apprezzava, pur criticandolo che lui fosse un po’ troppo isolato, sempre a leggere sti cazzi di libri. Quel suo intellettualismo lo scandalizzava e cercava di convincerlo che lui vivesse in simbiosi di tanto in tanto con la città anche per i suoi aspetti più futili. La vita andava goduta anzittutto, diceva.

Fu così che lo invitò varie volte in una discoteca assai in voga allora. Nel caos della folla a ballare Carlo gli aveva presentato varie ragazze australiane, tentandolo ma invano. Finchè una notte vide che il suo amico, così ritroso e schivo, era stato invitato a ballare da una ragazza di una bellezza incomparabile: mezzosangue libico-italiana, dalla carnagione scura, capelli ed occhi neri, un corpo mozzafiato. La ragazza mostrò un subitaneo interesse per lui, maliandolo con la sua sensualità che lui trovò naturale quando ballavano, quando lei si stringeva a lui platealmente, finchè una sera Carlo s’accostò all’amico, dicendogli di seguirlo. Uscirono dal locale per fumarsi una sigaretta. Carlo gli disse di lasciare perdere la ragazza. L’altro ne chiese il motivo. Quello gli indicò una Rolls Royce parcheggiata a due passi da loro, l’autista in doppiopetto in attesa. Disse: ‘Vedi quell’auto? Appartiene ad un boss italiano che vive qui. Questo Boss è il marito della puttana che tu stai corteggiando. Lui non viene mai qua. La ragazza ci viene da sola, ma è sorvegliata. Vedi l’energumeno, vedi il rigonfio sotto la giacca, bè è una pistola, cazzo! Ora capisci? ‘ ‘Cosa devo capire?’ ‘ Non puoi! Non è roba tua, ti metti in un casino della madonna se continui a strusciartela addosso, chiaro?’

Fu così che quella breve esperienza estatica terminò nel peggiore dei modi. Per riparare Carlo gli organizzò la settimana successiva un incontro a quattro nel suo appartamento. Le due ragazze australiane erano carine per carità, ma assolutamente incolori, prive di qualsiasi femminilità, ragione per la quale lui ne fu subito angustiato. Non se ne fece niente ovvio. Carlo si trombò una delle due nella camera adiacente al soggiorno dove lui e l’altra continuarono a parlare, imbarazzati dail trambusto che proveniva dalla camera.

Il giorno della Maratona tutto il percorso della gara era stato sgombrato dalle automobili, era una giornata fresca e limpida. Lui s’era rimpinzato di pasta al burro e una bistecca al sangue. Appena partiti, passarono sull’immenso ponte di ferro dell’Harbour Bridge che divide la città. Decine di migliaia di passi echeggiarono sull’asfalto. Per quasi due terzi del percorso corse assieme ad un medico australiano sui cinquan’anni. Correvano leggiadri, sorpassando gli altri competitors quasi con alterigia. Per due ore, avanzando affiancati, chiaccherarono tranquilli, sino a quando lui cominciò ad avvertire la fatica. Altri due kilometri e l’acido lattico avrebbe neutralizzato i suoi muscoli, lo sapeva, era finita la sua spinta propulsiva. Troppo poco tempo per prepararsi adeguatamente. Dovette abbondonare il suo compagno e proseguì ormai claudicante per gli ultimi 8 kilometri che mancavano.

Fu un peccato s’intende, l’australiano aveva finito la maratona con un tempo di 2 ore e 48 minuti, lui ci mise un’ora in più ma ce l’aveva fatta, Cristo, lui la maratona l’aveva conclusa, pur procurandosi un’ernia all’inguine per lo sforzo disumano.

Per circa due giorni non potè neanche alzarsi dal letto! Suo padre e molti suoi colleghi organizzarono per lui una cena al Basement sotto il ponte per festeggiarlo. Mangiò aragoste accompagnate da vino bianco italiano. Nelle successive serate che gli rimanevano, non avendo voglia di uscire con Carlo, finì per ricercare qualche avventura nei pressi di King’s Road.  Individuò subito una ragazza biondo-platino che gli piaceva. Spiccava tra tutte e lui s’avvicinò a lei proprio nel momento in cui questa stava litigando con un cliente ubriaco che ne pretendeva la prestazione. Lei si rifiutava di andare assieme a quel rottame. Dovette intervenire lui, con la sua altezza ed uno sguardo feroce perchè quel rottame demordesse. La ragazza lo ringraziò. Si presentarono. Lei si chiamava Jolie, uno schianto col suo completo in simil-pelle nera e gli stivaletti. Lo condusse in una camera. Si spogliarono ma non ci fu verso. Per almeno un’ora Jolie tentò di tutto, senza che lui si decidesse a venire. Lui disse che non faceva niente. 

Per altri due sabati lui andò a trovarla, nella camera ci riprovarono, finendo solo per parlarsi. Lei gli raccontò della sua vita in Nuova Zelanda, una vita monotona che aveva deciso di tagliare venendosene qua a fare il mestiere. Non aveva che 19 anni e non pretendeva nulla dal futuro. Lui le disse delle sue aspirazioni, lei l’approvò in toto. Bisogna sempre fare ciò che più ti piace, sosteneva ottimista. Lui le chiese allora se le piacesse fare la puttana, lei rispose sì, lo accettava come condizione temporanea perchè era il modo più semplice per guadagnarsi la vita, senza padroni, se una si sceglieva con chi andare ovvio, gli precisò. Lui annuì peplesso.

La sera prima della sua partenza per Roma lui andò a salutarla sulla strada. Jolie ne fu dispiaciuta, gli regalò una sua foto. Si baciarono per la prima volta.

Dopo un anno da che era ritornato a Roma seppe che Carlo era morto in un incidente di moto. Fracassato contro un camion all’uscita della discoteca. Non ci fu niente da fare, morto sul colpo. Gli dispiacque davvero, Carlo era un fascista sì, ma era un ragazzo vitale, gentile ed incontenibile nel cercare di rendere felici anche gli altri, nessuno più di lui avrebbe meritato di vivere! Veramente lo pensava!