Voci di donne dal nord
Di Rossella Pretto
Con un po’ di svagatezza estiva ti poni in ascolto delle voci di donne il cui volto appare dalle pagine dell’antologia pubblicata da Crocetti editore. Sono Eva Ström, Ann Jäderlund e Linnea Axelsson – Voci di donne dal Nord (cura di Maria Cristina Lombardi, pp. 224, euro 18) -, poetesse svedesi di diverse età e provenienze (Axelsson, ad esempio, canta una sorta di morbida epopea lappone), di ispirazioni plurime e con origini che risalgono alla coscienza, glaciali e tramate di silenzi e stupori.
La più grande, Eva Ström, ha formazione medica e una limpida, verde vena a cui attingere per regalare vertigini agli alberi, all’esperienza che se ne fa.
Scrive:
Con un bosco nel mio nome sento gli alberi chiamarmi
chiamarmi con foglie e chioma, rami e tronco,
chiamarmi con ogni anello al bosco di anelli, bosco di pioggia, da ogni vaso
che scorre nel tronco e
dove la linfa sale dall’humus delle radici alla chioma
questa mattina ho bisogno di sapere
da quale tipo di albero fu intagliata la scultura di Santa Brigida nella chiesa di Vadstena.
Era tiglio, frassino o quercia?
Com’era, come fu abbattuto e in quale stagione?
Era un tiglio che serbava il ricordo delle sue foglie a cuore,
la sua trama sottile o i fiori gialli gocciolanti miele
che tu sentivi fin nell’estasi e si sparse nel tuo viso dissolto
e si avvicinò a Dio in un’unione che dalle estreme punte dei rami
scese fin giù alla radice che si torceva godendo.
Brigida, accetti questa corona, chiese Dio, ed io udii
la domanda e disegnai su un cerchio di carta da dolci la santa
nell’attimo in cui la domanda scoccò come freccia di frassino
e trafisse il suo corpo tremante. Sì, rispose, sì, sì e sì,
e in quell’istante si trasformò in albero e legno,
per l’eternità avrebbe avuto per testa la chioma del tiglio,
foglie invece di parole, e donato ombra come fanno i grandi alberi
a chiunque cercasse rifugio in lei
dalle parole ardenti.
E lascia anche te tremante, come Dio con il frassino o con la santa patrona di Svezia che scrisse 8 volumi di rivelazioni e il cui corpo riposa nel monastero di Vadstena, a parte alcune reliquie romane. Perché è sempre la domanda che scocca precisa e ferisce, se ben posta. Così credi. E domande qui ce ne sono, parecchie, una sapienza antica, forse tutta femminile, fatta di terra e sangue, fatta di parole intrecciate in racconti. Come in “Dio e il Baobab”:
Quando Dio vide che l’alto Baobab cresceva
dritto verso il cielo, s’indignò e strappò l’albero
con tutte le radici gettandolo a testa in giù nel terreno
finché la sua chioma non sprofondò sotto terra
mentre le antiche radici, piccole e rattrappite, divenivano una misera chioma
senza più traccia dell’antico orgoglio.
Chi passa accanto all’albero di baobab Kondanamwali
può sentire le tormentate grida
di quattro fanciulle prigioniere:
l’albero se ne era innamorato e, adirato, serrate
le aveva nella corteccia, quando cercarono
amanti più umani. Nessuno osa cogliere i suoi fiori bianchi, nemmeno il fulmine
perché chiunque ne spezzi un ramo
viene punito dalla sua ira, così che mai
i bouquet nuziali delle fanciulle possano lasciare l’albero.
La conoscenza è come il tronco di un baobab, nessuno
ha braccia sufficienti ad abbracciarla ma l’acqua vi scorre dentro
quando gli elefanti in tempo di siccità strappano la corteccia
per bere dalla fonte mormorante. E il leone
riposa là, all’ombra.
Di Dio e del Baobab.
Che splendida, splendida poesia, quanto possiamo amarla? Te lo chiedi e non vuoi risposta, solo stare in quell’eterno desiderio poetante che si scatena tra i versi e li abita.
Lasci anche una poesia di Ann Jäderlund – questa, disturbante, insonne, come colei che l’ha scritta e il cui senso per l’esistenza non si compone, rimane a sbrani:
Le notti sono anche bianche
Come se
non ci fossero
Con una sorta di orli
vagamente delineati
Cosa faremo
di tutto ciò che
non sappiamo
Quello che non esiste
si insinua nel tutto
e prende il suo posto
I fiori di lupino sul tavolo respirano
L’erba alta
l’abbiamo falciata
Non si può dormire
Ogni mattina sorge
lo stesso giorno denso
Che cosa terribile
tutti questi impulsi
che semplicemente scompaiono
perché sono abbandonati
Come detto sopra, Linnea Axelsson canta invece il suo popolo, i Sami, le usanze, una lingua in dissolvimento.
Solo qualche verso dal poema Ædnan, vincitore del premio August:
La lingua
svedese cresceva
lungo i pensieri
–
La lingua sami dormiva
da tempo nel corpo
bloccata
dentro
dalla vergogna
Non viene bloccata però in questo bel poema che descrive la vita di due famiglie nomadi legate ai cicli naturali e magici della transumanza.
Da ascoltare in tempi di compulsiva voglia di esserci e di contare!
Voci di donne dal nord
Poesia
Crocetti
2025
224 p.,















