Le città dei poveri
Di Geraldine Meyer
È spesso nel lavoro di ricerca delle piccole case editrici che si nascondono delle belle sorprese. Come nel caso dei quattro racconti di Le città dei poveri, di Gleb Ivanovic Uspenskij, curato e tradotto da Marica Fasolini e pubblicato dalla viterbese Sette Città. Un nome, quello di Uspenskij, pressoché sconosciuto e di cui, solo ora, possiamo leggere questi racconti inediti. I motivi per cui il suo lavoro non ha conosciuto il successo e la notorietà di altri scrittori russi è da ricercarsi in primis, come ci spiega la bella e accurata introduzione, alla mancanza di un romanzo. Uspenskij, infatti, nato nel 1843, scrisse soprattutto racconti brevi e, soprattutto, quelli che sono definiti bozzetti.
Piccole pennellate, rapidi ritratti, pochi e rapidi gesti e nessuna introspezione psicologica. Eppure, in questi racconti, vi è dipinto, con nitidezza e profondità, tutto un mondo; quello della povera gente, dei disgraziati, di quegli uomini e donne che, dopo la fine della servitù della gleba del 1861, si trovarono catapultati nelle grandi città, a trascinare una vita di difficoltà, solitudine e disorientamento.
E di questa umanità, della “sensualità delle vite disperate” Uspenskij è, in questi racconti, un meraviglioso cantore. Due ambientati a Mosca e due Pietroburgo questi racconti ci portano nel ghiaccio moscovita, nella povertà di case buie e piccole, nel fumo dei samovar, nella “ferocia” con cui le città si mangiavano una umanità dolente.
I personaggi che affiorano da queste pagine conducono il lettore in una Russia che, certo, abbiamo imparato a conoscere dalle pagine di penne immortali, ma che qui emerge con una vividezza quasi etnografica, con la chiarezza di una immagine fotografica e di un frammento cinematografico. Il robivecchi che si arricchisce sulla miseria altrui, le sarte che rappresentano molto bene la sottomissione delle donne, la vecchietta sola con il suo cane o l’anonimo vetturino, sono facce di una società, di un proletariato che, tra gli anni ’60 e ’70 del XIX secolo si trova a vivere tra la fine di un’epoca e l’inizio di un’altra, tra un già e non ancora.
Piccoli, brevi ritratti di un popolo fatto di piccoli impiegati, prostitute, operai, negozianti, povertà, solitudine e alccol per combatterle o fingere che non ci siano. La durezza delle loro vite raccontata in pagine in cui non manca però l’ironia. Quella più amara. Quel senso, tutto russo, di una drammaticità che, se da una parte schiaccia a terra, dall’altra fa volare la vita nel sublime della disperazione.
Grazie alla casa editrice Sette Città per avere portato alla luce questo piccolo scrigno di bella letteratura russa.

Fuori collana
Racconti
Sette Città
2025
105 p., brossura