Giovanna Dal Bon è nata a Venezia. Vive da sempre la scrittura come ecoscandaglio per sondare diversi piani di realtà; ne insegue la crepa e l'erosione fino ad installarsi nella parola poca. Fulminanti gli incontri e definitivi i congedi.

Ada Negri: la febbre della scrittura

Di Giovanna Dal Bon

Scrittura in costante movimento di fuoriuscita; scrittura armata e combattiva dice l’urgenza di dar voce e dunque una sorta di emancipazione, a donne che voce non hanno: le ultime, le vilipese, logorate nella fatica instancabile del corpo “sulle mani i calli della granata e del mattarello, unghie corrose, nocchiute e screpolate”. Creature che pur soffrendo “tacciono e lavorano”: raccoglitrici di riso, operaie, fornaie, cucitrici, contadine cantastorie che “non chiedono nulla a nessuno”. Anime del sottosuolo in un paese ancora arcaico, rurale, sulle soglie dello stravolgimento industriale. Ada Negri nasce a Lodi nel 1875 e cresce in due stanze buie e anguste della portineria di palazzo Berni.

Sua madre è operaia, il padre alcolista morirà giovane, la nonna Peppina è portinaia e cameriera della  celebre mezzosoprano Giacinta Gisi “recisa e brusca nei modi che amava le vesti da camera e i sigari virginia.” Le ristrettezze economiche e di spazio alimentano in lei la necessità di fuga, di aperto, di vita ampia; sente tutto ascolta tutto è avida di apprendere, di poter dare nome alle cose. Studia il giorno e la notte febbrilmente riversa in “fogliacci notturni” l’ansia di ribellione che la scuote e divora. Dirà alla fine della sua vita di non aver mai amato nessuno come la scrittura.

Diventa maestra delle elementari e come primo incarico a diciotto anni si invola a Motta Visconti “con solo una valigia irta di gibbosità”. Sono anni di vitalità e immersione nella natura che descriverà nel racconto “la cacciatora”, nella sua prima raccolta “Sorelle” del 1917. Sono anche gli anni in cui prende coraggio e invia la sua produzione poetica a due giornali. Grazie ad un articolo elogiativo apparso sul Corriere della Sera a firma di Sofia Bugi Albini, diventa un caso letterario. L’editore Treves la pubblica. Per decreto ministeriale riceve una docenza a Milano. Esce dall’ombra e la sua vita cambia radicalmente. Si appassiona alla causa socialista, conosce Filippo Turati, Anna kuliscioff che definirà sua affine, e un giovane suo coetaneo, Benito mussolini. Sarà lui a farla ammettere in seguito, prima e unica donna, all’Accademia d’Italia.

Se la poesia rimane ancora nell’alveo poco originale di un certo decadentismo scapigliato, è nella forma racconto che Ada ha modo di esprimersi con piena originalità. La sua scrittura è istintiva, a tratti onomatopeica; procede a scoppi, a sbalzi, in continua vorace scoperta. Azzarda in neologismi per arrivare a toccare il reale; sperimenta, forza la lingua a ritmi di respiro. Si nutre di percettività mobile, sinestetica: “toccare le foglie degli alberi era lo stesso che toccare la mia propria carne” si legge in un racconto di “Sorelle”. Lingua in mimesi con l’evento naturale “entrare nel verde compatto frullii raggi filtrati brividi e lucori d’acqua”. Anche nella raccolta “Le solitarie” del 1920 indugia in ritratti di donne che non abitano la convenzione e restano nella memoria. Anticipatrice di temi che sono ancora di emergenziale attualità: la violenza domestica, lo stupro, l’annichilimento omicida. Sono molto spesso donne sole, donne minacciate da mascolinità oppressive. Ada rompe la griglia del patriarcato e travolge con impeto di ribellione gli schemi e i paradigmi, anche quelli sacrali e intoccabili di una maternità a tutti i costi; parla espressivamente di “grembo squarciato” riferendosi al parto e in un racconto descrive con crudezza di dettagli un aborto. Anche nella vita privata è anticonformista e autonoma; divorzia e va a vivere da sola a Zurigo per un periodo. Voce forte e inaudita di donna che non teme. Finirà la sua vita nel 1945  in un oblio pessimistico, travolta probabilmente dall’orrore della guerra.

In copertina una foto di Ada Negri, di Emilio Sommariva. Presa da wikipedia