Laureato in Storia Contemporanea con 110 e Lode all’Università di Pisa (1994), dottore di Ricerca e insegnante di Storia Contemporanea presso l’Universidad Autónoma de Madrid (1999-2010) e Visiting Teacher presso la New York University (2003). Autore di vari saggi storici sulla storia economica del franchismo e della transizione democratica, tutti pubblicati in Spagna. In campo letterario, l’autore tiene, dal 2013, un diario che è risultato finalista, nel 2016, del premio Saverio Tutino, indetto dall’Archivio Diaristico Nazionale di Pieve Santo Stefano. Ha pubblicato nel 2018, per i tipi di Catartica Edizioni, il romanzo Il corso dei destini incrociati; una prima versione del manoscritto è stata finalista, nel 2017, del premio Guido Morselli, organizzato con il patrocinio e la collaborazione del Comune di Varese e del Comune di Gavirate. Il suo ultimo libro è Un male urbano, Felici Editori

Recensione di Codice Arcadia. Fu fatto per quello che era, di Vito Benicio Zingales, Felici Editore, Associazione Qulture, Pisa, 2023

Di Marcello Caprareòòa

In un panorama letterario nel quale vanno per la maggiore i gialli/thriller scritti in modo piatto e sciatto, sull’onda dei cliché narrativi dei commissari gastronomi, distratti, innocentemente trasgressivi e sentimentali senza sobbalzi, il romanzo di Vito Benicio Zingales è come un sasso lanciato in uno stagno che crea onde concentriche che catturano il lettore. O una pietra liscia e sottile come la lama di un coltello, nel gioco del rimpiattino dei rimandi che conducono lontano. Al lettore, quindi, la scelta, perché questa è un’opera che può farti viaggiare o intrappolarti, ma non rimanere indifferente, perché ti interroga di continuo, ti fa andare avanti e indietro come nel gioco dell’oca, o ti ipnotizza.

C’è un luogo, sì, che è la Sicilia, ma che potrebbe essere un luogo qualunque, del mondo allo sbando. C’è un tempo, sì, che sembra quello attuale, ma in cui si snodano sentimenti e atti brutali e complessi, senza tempo: la rabbia e la calma, l’istinto e la riflessione, la violenza spicciola e la delicatezza più estrema, la comprensione e la sopraffazione. Carte che si mischiano, ruoli che si invertono: scafati poliziotti rapinatori, mafiosi con un senso dell’onore e delle istituzioni molto sui generis, laddove le istituzioni sono corrotte. I gialli che vanno per la maggiore, si diceva: monocordi, rassicuranti. Questo libro, invece, sotto l’apparenza formale del poliziesco, cela e rivela una denuncia articolata e particolareggiata del degrado etico e civile. Senza sconti, senza concessioni facili, senza manicaretti. Un boccone amaro, intriso di sangue e di ferro. È un romanzo che non punta sulla linearità, quello di Zingales, ma sui contrasti e gli opposti, per mostrare una realtà controluce, cruda: l’architettura del Bene e del Male, nei richiami empirei e terreni, nella dismisura e calcolata misura dei muratori massonici.

All’oscuro delle intenzioni, dei progetti e degli atti degli iniziati che reggono e fanno e disfano la trama e le vite dei protagonisti, si contrappone la luminosità della prosa icastica di Zingales. È quello il vero codice del romanzo, la chiave di lettura che rischiara, che sciorina e spiega – nell’accuratezza quasi vivisezionatrice delle descrizioni – il Caos e l’Ordine, il lassismo e il rigore morale che convivono, si confondono, ci confondono, ci guidano e guidano i passi dei personaggi verso l’ineluttabile o il rimediabile. Convivenza di elementi, giova insistere, non compartimenti stagni da compitino narrativo: abuso e giustizia, azioni raffinatamente elementari o articolatamente essenziali. Anima e budella. Il precipitato di una musica e di un’estetica rapsodiche, a metà tra Gomorra ed Eyes wide shut, se vogliamo dirla in termini di possibile trasposizione cinematografica. Il manicheismo del bianco e del nero, certo, ma con tutte le declinazioni del grigio di un mondo di mezzo fatto di innalzamenti inattesi o di altrettanto imprevedibili adesioni all’abisso della condotta, della coscienza. La damnatio memoriae e la dolcezza dell’oblio che non è nel perdono ma, appunto, nella dimenticanza più o meno cosciente, voluta, forzata, indotta. La corporalità più brutale di un taglio alla gola e il più raffinato degli esoterismi nell’erezione di un edificio, nella disposizione rinascimentale e georgofila di un giardino. Il metafisico che si fa carne e piombo. L’etereo e il simbolico che si trasfigurano nella pesante mano di un giusto ambiguo, mai univoco.

Io non so dirlo altrimenti, il romanzo di Zingales, se non con queste suggestioni, questi lampi. Come quello – bellissimo e non so fino a che punto inconscio – scagliato dallo stesso autore, quando scrive di una lama che sapeva ancora di olio di camelia bianca, e che a uno ha fatto ricordare il ¡Qué perfume de flor de cuchillo! di lorchiana memoria, del García Lorca della Canción del jinete, impastata di sangue e purezza, di galoppo e rigor mortis. In termini calcistici, si direbbe che uno squarcio di luce del genere vale il prezzo del biglietto, come quando uno applaude a una giocata di Antoine Griezmann che dà un senso e sblocca tutta una partita.

Quello di Zingales, in definitiva, è un romanzo da leggere e rimuginare, che esige attenzione e abbandono, perché entrambi condurranno alla meta, al chiaro fuori dal tunnel, alla desolata constatazione del buio che tornerà, semplice e indecifrabile.

Codice Arcadia. Fu fatto per quello che era Book Cover Codice Arcadia. Fu fatto per quello che era
Quetzal
Vito Benito Zingales
Narrativa
Felici Editore
2023
302 p., brossura