Paolo Umberto Pasquon, nato a Eraclea tempo fa, ha sempre litigato con le note biografiche che talvolta gli venivano chieste; anche questa volta è stato così. Lavoro, studi fatti, vita personale, sono tutte cose di cui riesce a parlare a fatica. Sappiate solo questo: gli piacciono le auto veloci e italiane, la disco music degli anni settanta, vecchi noir in bianco e nero, scrivere storie. Le cose che non gli piacciono sono molte di più, avete presente la lunghezza di Guerra e Pace? Nonostante tutto, continua a essere fiducioso nel futuro e a voler sempre scoprire cosa c’è Oltre la Collina.

Il sentiero della lucertola
di Paolo Umberto Pasquon
Ormai ne era sicuro: quello non sarebbe stato un giorno come gli altri.
Aveva passato tutta la notte sveglio, cercando di metter giù qualcosa per il pezzo su Paolini e nonostante i suoi sforzi, non c’era stato verso. Alle otto aveva telefonato il direttore dicendogli che aveva tempo fino a mezzogiorno per mandare qualcosa, in caso contrario, era meglio che si trovasse un altro lavoro. Tante bestemmie e una colazione schifosa dopo, s’era infilato di corsa in un taxi per andare in stazione. Gli
faceva male la testa ed era così nervoso per la mancanza di sonno e il resto, che per poco non si mise a litigare col tassista che secondo lui se la prendeva un po’ troppo comoda. Si strinse nel cappotto e contò fino a dieci. Suonò il cellulare. Era Lucia.
«Sei già partito?» «Non ancora, sto andando adesso a prendere il treno », rispose togliendosi la mascherina per ingoiare un antidolorifico. «Sbrigati, sai che non mi va di stare sola.» «Senti Lucia, il treno non lo guido mica io sai?». «Sbrigati e basta, o mi devo mettere a urlare?». «Calmati, tra tre ore sono a casa, non puoi resistere ancora tre ore?». «Tre ore? E tu che ne sai quanto lunghe possono essere tre ore, eh? Sono come il buio che non passa mai». «Lucia, Lucia, aspetta!». Non rispose, aveva messo giù. Gli venne l’istinto di buttar fuori dal finestrino il cellulare. Com’era diverso quando c’era Gioia. Poi era venuta quella cosa. Leucemia fulminante avevano detto i medici, e in un mese era tutto finito. Sua figlia avrebbe compiuto sei anni di lì a una settimana, pensò stringendo le mani in tasca. Lasciato il taxi, s’affrettò verso il treno che era appena arrivato da Venezia. Salendo alzò lo sguardo e vide il cielo sopra Mestre svanire incorporato dalla melassa opalescente della nebbia. Gli parve di scorgere
qualcosa, un uccello forse. Trovò il suo posto, si sedette e guardò fuori. A mala pena scorgeva i palazzi dall’altra parte della ferrovia. Tutto era come ovattato e pareva sospeso tra questo e un mondo irreale. Le persone coi visi travisati dalle ormai perenni mascherine anti Covid, si muovevano rapide, ansiose di arrivare a destinazione. Rabbrividì. Un rumore lo fece girare e vide una donna che si stava sistemando difronte a lui, faticando non poco con una valigia rossa mentre, in lontananza, un fischio prolungato annunciava la partenza. Il Freccia Rossa 1000 si mosse con uno scarto improvviso. Lei perse l’equilibrio e gli rovinò addosso. Andrea sentì una gran botta allo stomaco e rimase senza fiato per il colpo. Gli salirono
le lacrime agli occhi. «Mi scusi», disse lei rimettendosi in piedi. «Non è niente», rispose lui non appena riuscì a respirare di nuovo notando che non indossava la mascherina.
Il treno aveva preso velocità e il frastuono di poco prima scomparve sostituito dal ritmico pulsare dell’acciaio in corsa e dalle asettiche comunicazioni multilingue diffuse dagli altoparlanti. La carrozza dove si trovava era stranamente vuota, a parte loro due, ma con la pandemia ancora in corso, la gente non aveva ancora ripreso a spostarsi molto. Andrea tornò ad assopirsi cullato da quel movimento ma, come spinto da
un pensiero improvviso, aprì gli occhi e s’accorse che lei guardava nella sua direzione. E adesso che vuole?, pensò osservandola più attentamente. Era mora coi capelli lisci, quasi corvini, sciolti sulle spalle. Occhi verdi, grandi, penetranti. Viso proporzionato, un po’ troppo pallido per i suoi gusti. Non riusciva a definirne l’età, era una di quelle donne che potevano avere vent’anni come quaranta o più. Ma dallo sguardo riusciva a capire che non era proprio una ragazzina. Indossava una gonna nera e una maglia dello stesso colore. Gli unici gioielli erano un paio di orecchini e una collana di perle dalla foggia antica. Per un momento, gli parve di averla già incontrata, ma dove? Lei s’era girata a guardare la campagna sfilare via sommersa sempre più dalla caligine ipnotica. «E’ così rassicurante», disse osservando una fila di auto sparire oltre la cortina bianca. «Scusi?», fece Andrea seguendo il suo sguardo. «Dicevo che è così rassicurante essere qui e non là, dentro a quelle scatole di acciaio e plastica. Sembrano dei feretri.» Andrea la fissò attonito e si mosse irrequieto senza accorgersi che dalla tasca del cappotto gli era caduto un taccuino. Lei lo raccolse e lo trattenne per alcuni istanti. Se lo rigirava tra le mani incerta. Poi, come se avesse deciso, disse: «E’ qui dentro che tieni le cose che scrivi, vero?» Andrea, in un primo momento, non riuscì a parlare, sorpreso da ciò che stava accadendo, poi come scosso da una scarica di adrenalina sbottò: « Non capisco di cosa stia parlando», e allungò la mano per
riprendersi il taccuino. «Sono Anna, anche se il nome non ti dirà niente», fece seria, «non ti ricordi di me? Dai leggimi qualcosa di quello che hai scritto. E non le bozze di lavoro, ma le altre cose». Non era una richiesta ma un ordine quasi. Andrea vide le sue mani aprire il taccuino e sentì la sua voce uscire lentamente dalle labbra e non
riusciva a smettere di farlo. Iniziò. “Il sole nasconde la sua ombra oltre muretti di fango essiccato. Un mattone scrostato si stacca mostrando quel che dentro si cela mentre un refolo di vento solleva nell’aria e spinge via volute di polvere bianca. Nascosta nell’ombra, una lucertola dagli occhi di smeraldo si sporge incerta saggiando con la lingua l’aria carica di umori e di vita. Istinto puro e primordiale la costringe a ritrarsi a fondo nel buio. Lontano nel cielo ceruleo un falco volteggia rapace di preda. L’aria si fa calda e l’orizzonte assume contorni sfocati, tremolanti. Tutto svanisce, come i ricordi di quell’estate, tanto tempo fa”. «Ma che sta’ succedendo?», si chiese non appena ebbe terminato. «Forse è il mal di testa», e si passò una mano sul viso come a risvegliarsi da un incubo. Ma lei era ancora là e parlava. «Ecco vedi, non è difficile. So quante volte hai desiderato farlo. E’ stato solo il coraggio a mancarti. Perfino con tua moglie; solo con tua figlia una volta l’hai trovato. Te la ricordi quella notte, vero? Io sì, c’ero.» «Ma chi sei? Dimmi chi sei, e come fai a sapere tutte queste cose ?», urlò allora lui, nonostante il mal di testa che lo tormentava. «Sei un’artista, anche se non sai di esserlo. E vado matta per gli artisti. I poeti poi, sono i miei preferiti. Proprio non ricordi? Guardami bene» Ad Andrea sembrava tutto così assurdo, irreale e angosciante allo stesso tempo. Per un momento pensò di essere impazzito Lui un artista? Ma se scriveva solo articoli sul teatro! Quelle cose, erano cose sue e nient’altro. Poi, pian piano, tutto si fece più chiaro. Tutto iniziò a prendere forma e allora sì che arrivò la paura. Tempo addietro era stato con Lucia a una mostra dedicata a ritratti femminili dell’Ottocento e in uno di quei quadri (*), si vedeva una figura femminile che assomigliava come una goccia d’acqua alla
donna che aveva davanti: stessi occhi, stessi capelli, stesso viso. Stessa collana e orecchini. Stava distesa su un sofà, indossando un semplice lenzuolo e rivolta verso chi la ritraeva con lo sguardo fisso a guardare oltre la costrizione della tela. Ma era la storia di quel quadro a lasciarlo veramente di ghiaccio. Ricordò infatti, che il dipinto era l’ultimo portato a termine da un semi-sconosciuto artista scozzese, certo Andrew
Gioberti, poco prima di morire misteriosamente. Vi era ritratta quella che si riteneva fosse stata la sua amante e modella, svanita nel nulla dopo la sua morte. Scosse la testa come a ricacciare certi pensieri e nel farlo s’accorse che non gli faceva più male, anzi! «Hai capito ora?», disse lei fissandolo. «Si. E adesso ?» «Chiudi gli occhi.» «Che razza di giornata!», esclamò, a quel punto Andrea. «Almeno, fa’ che non duri molto»
«Non temere, andrà tutto bene. Gli artisti, come ti ho già detto, sono quelli che preferisco e per loro ho sempre un tocco speciale», disse lei sfilando con una mossa delicata la mascherina dal capo reclinato di lui.

(*) Arte e dintorni, pag. 32 sez, 4 – ritratto a olio su tela di Andrew Gioberti
Titolo “The touch of Death”

In copertina Salvador Dalì, La tentazione di Sant’Antonio, 1946