Vladimir D’Amora è nato a Napoli nel 1974. In poesia ha pubblicato Pornogrammia , Edizioni Galleria Mazzoli, 2015 (finalista Premio Fiumicino 2015), Neapolitana Membra , Arcipelago Itaca, 2016 (Premio Itaca 2016) Anima giocattolo (finalista Premio Trivio 2016)

Garrincha

Di Vladimir D’Amora

Era ancora lì, visibile.

A non sconvolgere la sua maniera di non essere stato, non fuse mai alcun rispetto con la sopravvivenza a corrispondere rimasto maestro di un sorriso per il seme di Brasile.

Così lesto e largo, fu laterale, radicale. Capì essergli non ignoto l’io, in fine, se fu privato della luce, chiese alla povertà un’elettricità assuefatta al dondolio di cosa, di un’ora di pelota. Volle anche morire da sé. 

Salendo sentiva la sua mente salire, fu in una sera in uno stadio colmissimo, il suo primo lancio con la mente dalle cosce, da quella coscia. Oggi si apre un archivio e si scopre che garrincha sputava il sangue alla sua amica prediletta, ma allora era sobrio. Nel suo brodo maniacale, la natura, la causa che lo rovinò, due cose ancora distanti. Con quella maglia di zebra, come una zebra che non è cavallo e neppure jungla nera, un gancio atavico quella coscia che quella sera, in quella partita, desiderata come donna, consegnati tutti gli astanti a quelle anse di dio, a quella lingua d’uomo.

Garrincha nacque malconcio, nacque male in brasile, dove si nasceva male. La fame, come in un campo di algebre scarrupate dopoguerra, la paura di essere scoperti e gettati ai campetti nell’immagini custodite per pomeriggi di un adolescente che tornavano alla sera nella mano, la paura sempre dell’oro. Nero bianco carioca giallo e bruciò Garrincha, quando il male t’infila in una storia che ti possiede sì, ma come senza parola, senza pensiero: fu solo gesto Garrincha. E il gesto si ripete, si ripeteva a botofago, in Cile, nella classifica muta che un cane se lo prese, e il cane era Garrincha. Che calciava dando al caso, lasciando al caso, di figliare dentro: uno spirto di una guerra spicciola, una intimità così viva, che si abbandonò a ciò ch’era sempre stato, quando lasciò le casacche plaudite in quegli spettacoli ancora spettacolosamente immaturi: ma vergini. Erano gli anni sessanta. E i movimenti di dio apparivano ancora tanto assoluti, da prospettare e compiere finte assieme senza criterio e scosse, all’istante. Per l’istante.

Gettando la sua somiglianza al volatile, alla logica delle conseguenze – la vita di garricnha – quella sera firmò con questa firma statica sull’ala, statico lampo, che sembrava il passero cacciato nella selvaggia ora ai bordi dell’acqua del suo primo essere, quando nacque. Quella sera tre essenze di colore: la gamba, la maglia, lo spazio di prato.

Quella sera a Garrincha gli si dovette chiedere di non umiliare il gioco. La sua stessa vita.