Marco Candida è autore di 17 romanzi e due raccolte di racconti. Il suo esordio è del 2007 con La mania per l'alfabeto, Sironi Editore. Nel 2010 è stato incluso nell'antologia americana Best European Fiction. Suoi racconti sono apparsi su importanti riviste americane e alcuni suoi scritti sono stati oggetto di tesi e corsi universitari. Per ulteriori informazioni consultare il suo profilo facebook

Letteratura a livelli: livelli di letteratura

di Marco Candida

Negli ultimi mesi ho scoperto il mondo del learning English tramite i reel su Facebook e su Instagram. Ci sono moltissimi insegnanti e tutti insegnano assai bene (come Joanna, ad esempio), ma ho personalmente preso in simpatia Mike The Chameleon. Tutti questi insegnanti (tra cui Mike The Chameleon) confezionano video di un minuto o due al massimo e ti insegnano in quattro e quattr’otto cose che un libro ci mette un paio di capitoli a insegnarti. Molto ficcante. Molto efficace. Soprattutto se non sei proprio alle prime armi. Ci sono varie categorie che ritornano di video in video. Ad esempio, la categoria “Stop Saying”. Mike The Chameleon come gli altri English teachers ti insegna modi differenti di dire una frase d’uso comune. Per esempio, ci sono molti altri modi di dire “Thank you” in inglese come “You shouldn’t have”, “I appreciate it”, “That’s kind of you” e così via. Il presupposto della serie “Stop Saying” è che è “noioso” sentire sempre e solo “Thank you”. Meglio variare ed espandere il proprio vocabolario. Non usare sempre “very”. Provare alternative: “Very nice” “Catering”, “Very rude” “Despicable”, “Very careless” “Loose”. Non dire sempre: “Can you repeat?” ma provare: “What was that?” o “Come again?” o “I didn’t catch that!”. E ci sono altre serie di questi video.

Quella che però ha attirato in modo particolare la mia attenzione è la serie di video denominata “Basic English/Advanced English”. Questa serie di video ti insegna a utilizzare espressioni che “ti facciano parlare come parla un native speaker”. Perciò, esiste un modo basico di esprimersi in inglese (un modo scolastico) e un modo avanzato (un modo reale). Un livello superiore. Ad esempio, basico è dire: “I don’t know” avanzato dire: “Beats me”. Basico è dire: “Call me” avanzato: “Give me a buzz”. Basico è dire: “I don’t understand” avanzato “I don’t get it”. Basico è dire: “I’ll see you soon” avanzato “I’ll catch you later”.

Questo modo di insegnare mi ha fatto rizzare le antenne. Trovo interessante che una lingua possa essere insegnata in questo modo. Che esistano diversi livelli di conversazione. Diversi modi di esprimersi. Voglio dire, è ovvio che esistano: ma che uno venga considerato più avanzato di un altro, per l’utilizzo di espressioni come queste, lo trovo curioso. Tipo: se dico “Come butta?” o “Oggi come gira?” al posto di “Come stai?” in Italia non credo nessuno mi consideri a un livello di italiano più avanzato. Ma, in America e in Gran Bretagna, a quanto pare, sì. Ma prima di saltare a conclusioni, ho data un’occhiata a interviste di scrittori e a titoli di giornale in inglese; e sono zeppe di frasi idiomatiche di livello avanzato d’inglese. Perciò, questa faccenda del livello avanzato è reale. Attenzione!, anche per noi italiani, in fondo, le cose stanno allo stesso modo. Forse non a livello di conversazione spicciola (ritengo di poter affermare con un certo grado di sicurezza che noi al posto di “Grazie” al massimo diciamo “Grazie infinite” o “Grazie mille”, ma non diciamo “Dio ti benedica”, “Non basta il mondo per ringraziarti” o che so io… O quantomeno, queste espressioni non sono intercambiabili, vanno usate nel giusto contesto), ma a livello di italiano scritto esiste un modo avanzato, ricco, di esprimersi rispetto a un modo più basico, elementare. Il mio professore alle medie inferiori, del resto, lo diceva sempre: basterebbe leggersi ogni giorno l’articolo di fondo di un giornale per arricchire il proprio vocabolario – e aggiungo io: al giorno d’oggi con una connessione Internet decente basterebbe ascoltare i video di commento ai fatti di cronaca, per non parlare delle lezioni di filosofia, di Diego Fusaro, per far diventare assai più ricco il proprio modo di esprimersi. Perciò, sì, anche in italiano, ovviamente, esiste un modo avanzato di esprimersi e un modo basico. Anche se io continuo a trovare curioso, innovativo, in un certo modo, questo approccio alla lingua.

Forse lo trovo così per via del modo in cui la lingua italiana viene insegnata a scuola. A scuola, dalle elementari in avanti, non ti insegnano a esprimerti in italiano – non nel modo di questi insegnanti, almeno. Non ti danno liste di modi di dire, proverbi, frasi fatte da utilizzare al gabinetto, in cucina, al ristorante, quando prepari una torta o vai in banca. Queste cose, al limite, le insegnano nelle ore d’inglese. Nelle ore di inglese ti insegnano (in inglese) a indicare a un passante la via per raggiungere un certo posto (i celeberrimi “go stright”, “turn right”, “turn left”), ma a nessuno viene in mente di farlo in italiano. Sarebbe utile? Forse. Forse insegnare qualche frase idiomatica in italiano agli alunni nelle ore d’italiano servirebbe. Quante volte ai bambini, ad esempio, ma anche agli adolescenti, sembra impossibile scucire anche solo una mezza parola? Gli fai una domanda e rimangono muti. Tipo: “Oggi cosa hai fatto?” e loro non sanno cosa dire. Non sapendo cosa dire si rintanano nella più classica scusa di “non avere voglia di parlare” e più avanti di “non avere voglia di parlare con te”. Invece, magari è solo l’abitudine a mancare, l’abito mentale, la griglia di domande atta a trovare le cose da dire su un determinato argomento. Sicché, quando il passante ti chiede dove sta la stazione, tu anziché dire: “Vada dritto”, “Giri a destra e poi a sinistra”, gli dici: “Vada fino là. Poi c’è un negozio di scarpe con un’insegna grande, ma grande grande e poi… poi da lì chieda a qualcuno e senz’altro le sapranno dire perché è vicinissimo”. Dunque, sì, ne abbiamo ben donde, in fondo, a sostenere che questo modo “basico” e “avanzato” di considerare una lingua, e di trametterla agli altri, ci appaia curioso, rivoluzionario quasi, a causa di come la lingua noi l’abbiamo appresa a scuola.

Durante una delle sue dirette su Instagram Mike The Chameleon ha pure fornito una spiegazione secondo me assai illuminante sull’utilità di leggere un racconto o un romanzo a una classe di alunni. In un mio articolo dal titolo “Il tracciato della Tradizione” (presente negli archivi dell’Ottavo) mi chiedevo a cosa potesse poi veramente servire leggere un romanzo in classe (Promessi Sposi o Divina Commedia). Ed ecco che la risposta mi è arrivata nel corso di una lezione molto basic (ma forse non così basic) di american-english. Serve per esercitare livello di attenzione e comprensione. Certo. In un libro di storia e geografia le informazioni vengono date in modo ordinato e consequenziale. Persino un articolo di giornale o un saggio, per quanto impegnativo, userà criteri d’ordine nell’esposizione. Ma nei romanzi la faccenda si complica. L’esposizione non sempre è ordinata. Le informazioni vengono fornite secondo un ordine arbitrario (non del tutto arbitrario; in realtà, di solito si tratta di una regola interna alla narrazione, che va colta) e questo costringe il lettore a uno sforzo supplementare di attenzione. Poi, il vocabolario è di norma più ricercato o è più ad ampio raggio. In un romanzo non è infrequente trovare un termine tecnico afferente al mondo della pesca e subito dopo un altro termine tecnico afferente al mondo della, facciamo per dire, falegnameria. E’ possibile. I romanzi sono un terreno assai più eterogeneo, vario rispetto ad altre forme di testo. Infatti, tutti abbiamo probabilmente sperimentato almeno una volta nella vita il senso di sconforto che prende quando in un romanzo stai leggendo una frase dal costrutto semplice, ma con una parola che non sai assolutamente cosa voglia dire e che ti costringere a interromperti e a mettere mano al dizionario – o oggigiorno al cellulare digitando su Google. Il romanzo ha questa caratteristica. Sembra tutto semplice e invece devi fermarti ogni tre righe. In più devi tenere alta la concentrazione per capire cosa sta succedendo, come evolve la trama degli eventi. Un testo basico, elementare ti spiega tutto per bene: “Cappuccetto Rosso attraversava il bosco e andava dalla Nonna”. Ma se fosse stato William Faulkner a inventare la favola di Cappuccetto Rosso chissà che razza di storia sarebbe venuta fuori! Almeno quattro pagine per spiegare che Cappuccetto Rosso è discendente di quarta generazione di pellerossa il cui capostipite fu Rosso Cappuccio di Toro e poi almeno un’altra decina di pagine per raccontare tutto ciò che il bosco che sta attraversando Cappuccetto Rosso fu prima di essere il bosco che è (prima un appezzamento di terreno desertico, poi un accampamento, con i primi alberi piantati per rendere il terreno coltivabile, poi una cittadina di modeste dimensioni, prima del grande saccheggio e del grande incendio, che però non ha reso il terreno arido e ha consentito venissero piantati faggi e querce e qua e là qualche sequoia) e poi naturalmente… c’è Il Lupo Cattivo. Il tutto narrato mettendo un punto fermo ogni quattro paragrafi. Un modo avanzato di intendere un testo narrativo, dunque, è l’ordine delle parti. Più un testo è disordinato e più necessita di uno sforzo supplementare d’attenzione da parte del lettore. Poi, un testo di narrativa può tacere informazioni. Amputare intere parti. Sta al lettore addirittura dedurre ciò che il testo non dice, ma sottintende. E qui, disastri, anche dai migliori autori, sono stati fatti. Un conto è “La gelosia” di Alain Robbe-Grillet. Un conto è “Shining” di Stanley Kubrick. Date situazioni stereotipate (un noir nel caso di Robbe-Grillet, un horror nel caso di Kubrick; un omicidio nel caso di Robbe-Grillet, una casa stregata per Stanley Kubrik) si può procedere ad amputazioni, omissioni, consapevoli confusioni fino a portare il fruitore dell’opera nel marasma più completo – come accade tanto in Shining quanto nella Gelosia. Perché il fruitore si aspetta certe cose e tu, zac!, lo prendi in contropiede disattendendo le sue aspettative; e ciononostante, lo stereotipo è talmente consolidato che regge, e il fruitore si sente ingannato, certo, ma non pensa che ciò che ha davanti è tutto solo un pasticcio. Un conto è raccontare, tanto per dire, un viaggio in treno Torino-Milano ossia non una situazione densa di stereotipi sui quale lavorare, pretendendo di mescolare troppo le carte. Viene fuori una roba, per quanto ben scritta eccetera, da buttare. Ma un romanzo di livello avanzato è anche quello che punti molto sul vocabolario – magari utilizzando lemmi provenienti da più vocabolari. Gadda. Dario Fo. Circa i modi dire, certamente Manzoni o Verga utilizzano espressioni idiomatiche piene di sapori (in Verga ad esempio “armare la farsa”, come fa eccezionalmente ben notare Brancati in “Don Giovanni in Sicilia”), e possono servire in taluni contesti per arricchire il proprio italiano. Ma con l’avvertenza di fare attenzione, oggigiorno, a esprimersi in un italiano variopinto. Perché si potrebbe dare l’impressione di volersi nascondere – anche se non è così. Bisogna sempre tenere a mente da chi il testo che si sta scrivendo verrà letto. Di solito, poeti e scrittori preferiscono un italiano piano, senza eccessivi sobbalzi. Sebbene anche questa preferenza andrebbe, forse, messa in discussione. Se è infatti pratica lodevole utilizzare una lingua il più vicino alle cose quando si racconta, quando si spiega, invece, quando si scrive un articolo e si devono esprimere giudizi, diventa più difficile rispettare questo atteggiamento. Difficile per un discorso persuasivo non utilizzare un linguaggio avvincente, che faccia esplodere, con cautela, certo, qualche immagine nella mente del lettore. Pertanto, cosa è narrare, altra cosa commentare. Se nella narrativa l’uso di un linguaggio esornativo è quantomeno da usarsi con estrema cautela, nei discorsi persuasivi non può essere condannabile a priori. Specialmente quando la condanna preveda una crocefissione in sala mensa…     

In conclusione, penso che tanto in inglese quanto in italiano, tanto nel corso di una normale conversazione quanto in contesti più impegnativi, valga la regola latina “Si rem tene, verba sequentur”. Se hai qualcosa da dire, non avrai bisogno di un livello avanzato di inglese per rispondere al quesito “How’s it going today?” o “What have you been up to?”. Ti metterai a raccontare quello che ti è successo, e se è qualcosa di rilevante, non ti servirà esagerare le espressioni per farlo notare al tuo interlocutore. Non avrai bisogno di idiomatic exspressions. Non ci sarà livello basico o livello avanzato. Ci sarà, invece, una storia.