Laureato in Storia Contemporanea con 110 e Lode all’Università di Pisa (1994), dottore di Ricerca e insegnante di Storia Contemporanea presso l’Universidad Autónoma de Madrid (1999-2010) e Visiting Teacher presso la New York University (2003). Autore di vari saggi storici sulla storia economica del franchismo e della transizione democratica, tutti pubblicati in Spagna. In campo letterario, l’autore tiene, dal 2013, un diario che è risultato finalista, nel 2016, del premio Saverio Tutino, indetto dall’Archivio Diaristico Nazionale di Pieve Santo Stefano. Ha pubblicato nel 2018, per i tipi di Catartica Edizioni, il romanzo Il corso dei destini incrociati; una prima versione del manoscritto è stata finalista, nel 2017, del premio Guido Morselli, organizzato con il patrocinio e la collaborazione del Comune di Varese e del Comune di Gavirate. Il suo ultimo libro è Un male urbano, Felici Editori

IL TEMPO, LE PAROLE E I MESTIERI DEGLI ALTRI

Di Marcello Caprarella

“…Elle laissa ses regards filer de toute leur longueur dans ma direction, sans expression particulière, sans avoir l’air de me voir, mais avec une fixité et un sourire dissimulé…”.

M. Proust, Du côté de chez Swann (Première partie)

Io vivo a Madrid. Faccio il traduttore. Roba tecnica, perlopiù. Tengo anche un diario. Giorno dopo giorno scrivo le cose che mi succedono o che mi succedono attorno. Cerco di non parlare solo di me, di far palpitare il mondo in questo segreto che non legge nessuno. Due giorni fa, per esempio, ho trascorso diverse ore dietro alle parole degli altri. Mi ha contattato una ditta del settore ferroviario. Producono freni per i treni della Metropolitana di Madrid. Volevano un preventivo per la traduzione in spagnolo di un documento assurdo: il manuale di una macchina che serve a riempire buste di patatine e tubetti di dentifricio. Non so a cosa sarebbe potuto servire a una ditta che produce freni. Forse qualcosa legato alla carica di un sistema pneumatico. Non lo so, ripeto. Era tutto molto confuso, con diversi sconfinamenti nel ridicolo. Il manuale era stato tradotto in “francese” dall’italiano. Un francese come quello di Fantozzi quando, in una splendida mattinata di tarda primavera, parte in campeggio con Filini, caricandosi una barchetta sul tetto della macchina. Scoppia un diluvio biblico e la barchetta si riempie di pioggia. A un passaggio a livello, per colpa della frenata, l’acqua piovana caduta nella barca si rovescia sulla limousine scoperta di un ministro del petrolio arabo, al quale il servo italiano, nel tentativo di asciugarlo con un fazzoletto, dice, il cuore in mille pezzi: “C’est tout bagné!“. Il francese del manuale era di quel tipo. Ieri mattina mi hanno telefonato di nuovo e avevano una fretta pazzesca, la segretaria della ditta ferroviaria e il suo capo. Bisognava tradurre il manuale (20.000 parole) prima della fine della settimana. Ed eravamo a giovedì. Stamattina hanno cancellato l’ordine. L’ho saputo solo perché ho telefonato io per esporre alcune perplessità, mie, e castronerie, dell’altro “traduttore”. Poche, le più eclatanti. Tanto non avrebbero capito. La segretaria factotum mi ha detto di non preoccuparmi più, come se fosse lei a farmi un favore e tutte le ore trascorse ad analizzare quel delirio non contassero nulla. Il tempo degli altri vale ancora meno delle loro parole, per alcune persone, che poi sono le stesse che danno un valore enorme al proprio tempo. La segretaria mi ha infatti chiarito che dall’Italia le avrebbero mandato un riassunto dei contenuti del manuale, e io credo che sia meglio così, che sia meglio un disastro stringato che uno prolisso. Il tempo degli altri lo valuto, io. E anche le loro parole, più confuse delle mie. Molto di più. Forse è più confuso anche il mio tempo, oltre a valere meno del loro, però avrei preferito uno ieri e uno ieri l’altro persi in maniera diversa, con un glossario diverso. Mi sento ogni giorno più sporco di parole aride, grottesche, approssimative. Che non mi appartengono, ma che mi invadono, mi risucchiano. Come il tempo che vivo, insomma. Vorrei guadagnarmi di che vivere in modo meno disonesto, più limpido. Mi piacerebbe fare un lavoro manuale, di forza fisica. Non lo dico per posa: lo penso e ci penso sul serio. Non guadagnerei meno di ora, credo. E avrei meno nevrosi. Il fornaio, come il bisnonno, per esempio. Altri tempi… Non aveva studiato ma, stando ai racconti di mio zio G., era un uomo intelligente e che si coltivava, il bisnonno. Trovava anche il tempo per leggere. I libri gli piacevano. Io, invece, ieri e ieri l’altro non ho nemmeno letto le mie due o tre pagine quotidiane di Proust, in francese. Devo ricordarmi di leggerne otto di colpo, per rivincita, per rifarmi la bocca, alla ricerca del tempo perso. Questo pensavo, prima di addormentarmi, ieri sera.

Il sonno, a casa mia, è difficile da conciliare. La colpa è del rumore del riscaldamento. Un rumore che ti trapana il cervello e che è continuo. È iniziato quando ci hanno installato le famose valvole per l’autonomia del consumo. In estate uno se ne dimentica, ma da fine ottobre in poi la tortura riprende. Stamattina, dopo l’ennesima notte passata quasi per intero ad ascoltare un ruscelletto allegro di acqua calda scorrere nei tubi, mia moglie si è andata a lamentare da Faustino, il portiere. Era ubriaco, tanto per cambiare. Ha spalancato le braccia, come a dire che lui non poteva farci niente. Mia moglie è risalita indignata e ha scritto all’amministratore condominiale. Oltre a segnalare il problema della rumorosità del riscaldamento, avrebbe voluto aggiungere un paio di righe sull’infingardaggine del portiere, ma io l’ho dissuasa. In questi giorni provo una grande tenerezza per Faustino. Oggi è 6 gennaio, il giorno in cui in Spagna si fanno i regali. Faustino ha sistemato in portineria, sin da prima di Natale, un alberello bonsai, con sotto un pacchetto, che presumo vuoto, a fare da richiamo, a invogliare noi condòmini a donargli qualcosa, salutandoci tutti con giovialissimo entusiasmo, quando usciamo ed entriamo. Come i negri alle porte dei supermercati. Così si è comportato Faustino negli ultimi giorni. Nelle sue condizioni, si tratta di uno sforzo immane, che ieri ho voluto premiare, con un giorno d’anticipo rispetto alla Befana, che qui in Spagna sono i Re Magi. È stato al ritorno dalla mia quotidiana passeggiata, verso le sei del pomeriggio. È stato quando ho visto i suoi occhietti da cane bastonato dietro le lucine intermittenti dell’alberello, con la sigaretta e il piccolo televisore, entrambi accesi. È stato quando l’ho sentito dire, mellifluo di cognac: “¡Que tenga Usted buenas tardes, don Marcello!”. Se uno vi dice una cosa del genere, dandovi del Don, voi che fate? Io gli do immediatamente e automaticamente venti euro. Ho agito in maniera finissima, della quale mi sento molto orgoglioso. In quel momento era entrata la moglie di Faustino, che è quella che si sobbarca il vero lavoro pesante, cioè la pulizia delle scale e il ritiro dei cassonetti dei rifiuti. Faustino, invece, è tutto concentrato sulla vita contemplativa e l’intrigo. Sua moglie mi ha preceduto sul portone e si è fiondata sulla guardiola a sibilare i soliti insulti al marito: “¡Vago! ¡Borracho! ¡Inútil!”, coronati dal rituale e definitivo “¡Qué vergüenza!”. Lui era passato dalla televisione a fissare il vuoto, con il gomito destro appoggiato sul tavolino e a sostenere la faccia giallastra. Mi sono bloccato con il pretesto di aprire la cassetta della posta, ho lasciato che la moglie completasse l’elenco di recriminazioni coniugali e aprisse la porta dell’appartamento al pianterreno in cui lei e Fustino abitano, gli sono passato davanti e gli ho dato i venti euro, che lo hanno ridestato dal torpore. Non solo mi ha detto “¡Gracias!”, come solo lo direbbe un amico vero e che lo è per sempre, ma ha aggiunto che oggi avrebbe telefonato lui personalmente al responsabile della ditta che ci ha installato le valvole. “¡Es amigo mío!”, ha specificato con orgoglio. È uno che gli avrà dato più di venti euro, deduco io. A mia moglie non ho rivelato questo piccolo segreto tra me e Faustino, perché lei, persona pratica, trasparente e corretta, queste cose da uomo di mondo con un tocco misogino non le capisce bene, logicamente. Non le ho raccontato nemmeno il sogno, riparatore, fatto poche ore prima. Il sogno che, incurante del gorgoglio del riscaldamento, ha miscelato Proust ed Eça de Queirós, del quale ieri ho appunto finito di leggere, nell’edizione spagnola, Os Maias. Nel romanzo, capolavoro del realismo tardottocentesco, c’è un personaggio infame che colpisce molto: obeso, gaffeur, cafone, servile con i potenti, ricchissimo e aspirante a playboy. Anzi, è uno che crede di essere un playboy e che sbandiera le proprie conquiste femminili, reali o inventate che siano. Il personaggio si chiama Dâmaso. Quelli che lo conoscono, come il giovane Carlos Maia, sanno che si tratta di un cialtrone maligno, e lo umiliano o cercano di umiliarlo in mille modi. Ma Dâmaso è un muro di gomma, gli rimbalza tutto sulla ciccia e contrattacca con la maldicenza sistematica, la calunnia aperta e le lettere anonime, con la cattiveria strategica di una portiera parigina. Io ho sognato una specie di Dâmaso che incontrava una specie di Swann. Io ero lo Swann, più o meno. Il sogno era condito anche da una manciata di piccante alla Truffaut, del Truffaut de La femme d’à côté. Mica male come feuilleton, no? Vediamo. Ero in una piccola città di provincia, qui in Spagna. Non ricordo il nome della città, ma era in Castiglia. Di quello sono sicuro, per via di una certa luce, di un certo scenario urbano, di una certa chiusura della gente. Valladolid, forse. Nello struscio serale, perso nelle mie fantasie, incrociavo lo sguardo di Laura, una mia ex fidanzata. Una storia di vent’anni fa, dei tempi in cui frequentavo la Biblioteca Nacional. Un passato che non sanguina più. Mi domandavo solo come e perché fosse finita in provincia una come lei, così cosmopolita, di ottima famiglia madrilena, mezza inglese. La vedevo leggermente avvizzita, ma ancora appetitosa. Mi sorrideva furtiva mentre ci incrociavamo, procedendo in direzioni opposte sul viale del salotto buono della città, tra saluti incrociati dei notabili del posto. Era a braccetto di un uomo grasso e con la barba. Inspiegabilmente (è la coerenza narrativa dei sogni) ritrovavo quell’uomo di lì a poco, in un bar nel quale ero andato a prendere un aperitivo prima di cena. Era solo. “Questo devo farmelo amico…”, pensavo, spinto dalla curiosità e da un pizzico di gelosia retroattiva. E ci riuscivo. Rompevo il ghiaccio salutandolo con un leggero inarcamento delle sopracciglia. Lui azzardava un titubante: “Ci conosciamo?”. Io gli rispondevo che non ero del posto, ma che per lavoro capitavo spesso da quelle parti e che facevo sempre la stessa passeggiata serale, per cui il suo volto mi sembrava conosciuto. Lui assentiva, scambiavamo i convenevoli e i commenti calcistici di rito. Trasmettevano una partita di Champions League. Giocava il Real Madrid, e lui seguiva la telecronaca con trepidazione, dedicandomi solo una chiacchiera genericamente cordiale, intermittente e distratta. Al 93º, segnava Sergio Ramos, di testa ed io, mentendo in modo spudorato e vergognandomi, contemporaneamente, molto, condividevo l’esultanza del mio nuovo amico, dichiarandomi tifosissimo del Real Madrid. Gli offrivo due birre. Lui si apriva e iniziava a vantarsi del proprio status. Non si chiamava Dâmaso, ma Miguel, ed era giudice, oltreché ¡once veces Campeón de Europa! come teneva a sottolineare, gonfiandosi ancora di più, come un tacchino in doppiopetto. I camerieri avevano mille riguardi verso di lui: Don Miguel di qua, don Miguel di là… Piovevano le tapas gratuite, abbondantissime e ipercaloriche. “Così è facile sentirsi un semidio e ingrassare a tappe forzate”, dicevo tra me e me. “Don Miguel, lei ha anche una moglie molto bella!”, lo adulavo, da vera carogna, pur di farlo sbottonare. La tattica funzionava. Il mio Dâmaso/Miguel non taceva nessun dettaglio: “Laura è una vera perla, ma non è mia moglie. Siamo fidanzati da un anno e conviviamo da un mese. È avvocata, ma sta tentando il concorso in Magistratura. Domani ha la prova scritta! È tornata a casa prima per un ultimo ripasso: è molto coscienziosa!”. “Complimenti vivissimi, don Miguel!”, gli dicevo io. Lui prendeva ancora più confidenza. Abbassava il tono della voce per bisbigliarmi, prendendomi per un braccio e passando al tu: “Si vede che sei un uomo di mondo. Ho bisogno di un consiglio sul dress code: secondo te, domani, quando accompagnerò Laura alla prova scritta, devo mettermi il frac?”. Io gli consigliavo di sì, aggiungendo che il frac era indispensabile in casi del genere. Ci accomiatavamo dandoci appuntamento all’indomani, alla stessa ora, nello stesso bar, per festeggiare assieme alla sua attuale fidanzata e mia ex la buona riuscita dello scritto del concorso. Mentre tornavo in albergo, mi davo dell’imbecille e mi maledicevo: “Ora lei gli spiffererà tutto e ci farò la figura del coglione bavoso…”. La sera dopo, con il cuore in gola, ero al bar dell’appuntamento prestabilito. Con qualche minuto di ritardo, si presentava il mio Dâmaso/Miguel, ancora una volta solo, e mi offriva subito una spiegazione: “Laura è leggermente indisposta, ma mi prega di porgerti i suoi saluti, domanda quanto tempo ti tratterrai in città e spera di rivederti presto, nel passeggio. Dice che i miei amici sono anche suoi amici. Vuole che tu venga a cena da noi, una di queste sere. Lo scritto è andato male…”. E poi mi sono risvegliato, raggiante.
Questo spiega solo in parte (ma è già qualcosa) l’allegria di oggi, questi venti euro elargiti con leggerezza, come se uno fosse davvero un signore in frac, un re mago insonne, con una bacchetta magica che è una macchina del tempo, ma solo nei sogni.

In copertina una foto dell’autore persa da unicaradio.it