Piero Dal Bon è poeta, saggista, critico letterario. Tra le sue pubblicazioni, volumi anche collettanei su Volponi, Pirandello, Papini, Pavese, Ungaretti, Primo Levi e testi di Moresco di cui ha fatto traduzioni e scritto prefazioni e postfazioni

                                  Plurilinguismo ed espressionismo della prosa sperimentale di Corporale

Di Piero Dal Bon


L’analisi stratigrafica di questo saggio, di taglio metodologico stilistico e linguistico, condotta sull’imponente, ma mai definitivamente impostosi, stratificato, complesso e torridamente fluviale romanzo Corporale (1974) di Paolo Volponi,[1] pretende di descrivere il comportamento «idiomatico» del terzo romanzo dell’autore urbinate. La trattazione, prendendo il suo tortuoso e precipite abbrivio dalla presentazione delle scelte narratologiche dell’autore sulla base degli splendidi, fondanti e germinativi, apporti teorici dei magistrali archetipi del francese Genette e il sovietico Bachtin (dagli esiti di pensiero imprevedibili), illustra, cataloga ed interpreta la compresenza stridula e sodamente strampalata di vari registri all’interno del conflagrato testo, barocco-espressionistico, anche nella sua convergenza, osservata tangenzialmente, e nel sottotesto delle note, con quanto di più “avanzato” (l’aggettivo, lo sa, è di una discutibilità apodittica) si scriveva in Italia in quel  franto frangente d’anni, spesso farneticanti, per impellenze di viscere o imperativi di programmi.

            I pionieri nell’individuare come la prima mossa dell’immaginazione strutturante di Volponi fosse l’elusione delle aspettative, lo spiazzamento rispetto ad un orizzonte storico d’attese, furono tutti i primi lettori[2] di quello che fu l’accreditato esordio Memoriale (rimando alla bibliografia contenuta nel primo volume delle opere complete, curate, con indiscussa e ammirata competenza, passione, e non miope acume dall’amico Emanuele Zinato). In effetti anche le parche (Volponi non era troppo dato a teorizzazioni esclusivamente letterario-arcadiche, verso cui strabordavano spesso le sue irate intemperanze) enunciazioni, meta- naturalmente, di poetica dell’autore insistono su alcuni concetti di ordine conoscitivo che possono essere sia quello del superiore potenziale conoscitivo presente nel folle nevrotizzato,in Corporale in sospetto di psicosi conclamata, e di bipolarità o ciclotimie rapide (essa, psicosi, agirebbe nella manipolazioni, neologistiche, idiolettiche, vagamente joyciane, di un linguaggio “altro”, per nulla normativo, ed eccentricamente endofasico, qualche volta, e nello straziato sfilacciamento della ricostruzione della propria vicenda biografica, integrata, scollata, appesa) sia quello, ad esso contiguo, della scrittura come gesto e strumento di messa a nudo, di  spietato e disperato disvelamento della menzogna storico-sociale, inibente agnizioni, e viventi, auspicate, compenetrazioni bio-politiche, in una temperie apocalittica ed egotistica, che rammenta gli ardimentosi, spaziosi e magnanimi frammenti reboriani, apprezzati dal Raboni critico sopraffino di La poesia che si fa (curato con pertinente incontinenza dal solito factotum Andrea Cortellessa nel 2005 per i tipi di Garzanti, valorizzati da critici di selettive schifiltosità, ognuno da fronti loro proprie, come Franco Fortini e Gianfranco Contini, entrambi un po’ dappertutto, ma soprattutto il primo, in martellante analiticità, nel saggio monografico einaudiano, nel volume coordinato da Asor Rosa,[3] il secondo nelle quotate Varianti, che hanno figliato e proliferato come di dovere, corsi istituzionali, parentesi, volumi di epigoni che non gli sfiorano neppure le scarpe, per non dire le gravate e acrobatiche ali della penna.[4]

La mossa organizzativo-tattica (ma poi di entropia in disordine si passa e s’impazza, sino al furioso dileguo dell’explicit) di partenza, lo si è detto molte volte,[5] è la costruzione di un personaggio romanzesco intemperante e visionario, al quale l’autore firma una fiduciosa delega in bianco per la gestione della sua vicenda narrativa, sfrenandone in tal modo al massimo, con un’immediatezza difficilmente contenibile, le possibilità esplosive e conoscitive, risolutamente antimimetiche.[6]            

La deviante e deflagrata mente del personaggio-uomo di Volponi salta subito all’occhio in quanto la condotta della narrazione da parte di una prima persona bislacca aizza un’angolatura prospettica di amplificatio, per iperbole o ipobole, deformante, di un aguzzo, spostato, arbitrio soggettivistico, per cui gli avvenimenti raccontati e il giudizio sopra di essi arrivano al lettore quasi unicamente filtrati dalla voce inaffidabile, del principale portatore di prospettiva del romanzo, il narratore interno, in forte odore di una follia variamente classificabile[7] Dico, ho detto, spesso filtrati, e passati al rammemorante setaccio, perché è necessario, e urge imperativamente, specificare, in postille non fioche, che molte zone, dialogiche, epistolari e altro, lasciano che si insinui una focalizzazione diversa: la parola altrui, tenuta a bada, manipolata, con alterazioni beffarde, o rimossa o censurata dal plurivalente, proteico (e perciò attualissimo),[8] ambiguo, narratore omodiegetico, si fa veicolo di altri punti di vista. Soccorre il concetto di plurivocità bachitinano, accanto, come vedremo, a quello carnevalesco e parodico della logica dominante, normativa-o meglio delle varie logiche dominanti dei discorsi normativi-coercitivi (chè tali mi pare vengano percepiti tutti i discorsi e i linguaggi loro con i quali si misura l’anarcoide protagonista, narrante o narrato, sempre sulla soglia dell’ ex lege o outcast come un Wakefield meno smunto e impercepibile). Delle focalizzazioni plurime, provocano l’apertura polisemica costitutiva di questo testo: la parola intemperante, fagocitante e assimilante del protagonista entra in attrito con le verbalizzazioni altrui, o anche con i linguaggi non verbali: il vocabolario diffidente del senso comune (del principio, pure, di realtà) che la condanna come astrusa e poco verosimile, i codici e sottocodici avvallati dal prestigio delle scienze e delle ideologie, la prossemica e il linguaggio muto di cose e nature. Il lettore viene messo in una posizione difficile, divisa, da una parte di verifica critica della veridicità e plausibilità di quanto viene narrato e proposto, dall’altra di adesione emotiva, incondizionata, al discorso, spesso prepotentemente autoritario, e automitificante, del narratore (“Io sono solo e sono  l’unico idolo di me stesso”). In Corporale il discorso del testo, la rigogliosa messe dei discorsi che in esso conflittano è vischiosamente caotica e stratificata: se Berardinelli ha parlato di una “struttura più libera e rischiosa” rispetto alle parabole oggettivanti ed esemplari dei precedenti romanzi, Nicoletti in un saggio eloquente, sontuoso e persuasivo, nella sua prudente e discreta distanza (forse autoprotettiva) ha fatto osservare come,

… la materia romanzesca è stretta da un presente colmo di realtà dove al dialogo serrato si alternano… lunghi monologhi, brani di diario, lettere prolisse come i pensieri di un insonne, lacerti di saggistica manageriale, dichiarazioni politico-ideologiche, questionari di politica estera, un lemmario allusivo e ironico, un lungo inventario di oggetti d’antiquariato…A questo magma materico si accorda un impasto linguistico straodinariamente ricco, fino alla dispersione estrema, caoticamente figurale, che tocca i tasti della volgarità quotidiana, della cronaca, como dell’aulica quanto monocorde meditazione ideologica  ancora soprattutto quelli della vivida pulsione dei sensi.[9]

           In effetti il disegno costruttivo si fa  magmatico e avvolto, molto sperimentale, e asseconda le spinte più irriverenti ed informali nei confronti dei tralicci tradizionali del genere romanzo, di per sé, lo si sa, piuttosto spugnoso, plastico.  Spicca subito l’alternanza di una condotta in prima persona nella prima e nella terza parte, e di una in terza persona nella seconda e nella quarta, giustificata, sí, da un bisogno di distacco ironico-critico dal personaggio e dalla propria materia, ma anche da un’espressione immediata a livello di forme significanti di una “società reificata e reificante” (questa, almeno, era l’intenzione dell’autore nelle sue dichiarazioni a Ferretti nel   volume monografico di questi del 1972- La Nuova Italia, Firenze,  p. 8). Volponi sfrutta, insomma, la plasticità del genere romanzesco per approdare, ad una sorta di carnevalesca polifonia, che pur mantenendo la strategia dei primi due, la dialettizza e relativizza mediante un accanito collage, che non nasconde le proprie ambizioni di totalità, di opera-mondo (è il titolo del saggio di Franco Moretti del 1994), specchio deformante, anche linguistico, di un’epoca (di “demone della totalità” da cui sarebbe posseduto il protagonista ha parlato sempre Berardinelli).[10]Inoltre in Corporale, infatti, come avvertì Pasolini, un po’ abborracciato come spesso gli capitava, e più, nel parlare di un romanzo che gli garbava poco , per varie ragioni che spiega bene Zinato in uno recente saggio,[11] il protagonista,

Aspri … non è … un pover’uomo, la mimesi linguistica del quale è “semplice”. Egli è un vero e proprio intellettuale: quindi l’intellettuale Volponi è costretto a mimare un linguaggio paritetico al proprio, impegnandosi non a esprimere la poetictà mitica di un uomo umile, ma a esprimere tutta la prosastica complessità di un uomo storico. (Pasolini 1979: p. 36)[12]

Volponi va verso una prosa sempre più inclusiva, nella lingua e nello stile. Ci si muove, insomma, in direzione di un plurilinguismo sempre più disponibile a nuove acquisizioni, che si divarica a compasso: in basso, in sintonia con la natura sempre più corporale dell’immaginazione materiale dell’autore, e in alto, nel concettoso dominio di un lessico a forte tasso intellettualistico. In Corporale il linguaggio, zanzottianamente (il romanzo come quote di sperimentalismo gareggia da lontano con la rivoluzionaria La Beltà), pare davvero celebrare e glorificare i propri fasti le proprie furie, rabbie, impotenze,

Oppure solo l’ironia, come mi pare di capire, consente di staccarsi, di andare fuori, e di non essere con gli altri? Ma può davvero bastare l’ironia o la capacità di stravolgere qualche parola? Di interromperla, di slegarla? (p. 426)

            L’irruzione sulla scena del racconto di un io problematico e istrionicamente intellettualizzato  oltre ad avere  conseguenze sul piano dei registri di scrittura, giustifica anche l’abbondanza di momenti critici e metalinguistici., sino a casi di sdoppiamento schizoide tra un io attore ed un io spettatore commentante e/o registico, nei quali si realizza quella, ultramoderna, frantumazione del personaggio-uomo volponiano di cui hanno parlato vari recensori,

Posso davvero assistere alle mie rappresentazioni?

Tolgo per prova il punto interrogativo. (Anche per togliere gli spettatori). Dunque assisto. (Co, p. 512)

La spirale autoriflessiva fa sì che la scrittura si specchi in se stessa e si raddoppi, moltiplichi i propri piani in una sorta teatro mentale, che spiattella la propria fantasmagoricità nel ricorso ai figuranti metaforici del teatro e del cinema. I materiali costruttivi e i principi formativi che li guidano vengono ostentati, l’officina del narratore omodiegetico aperta impudicamente al pubblico: la (de-) struttura ingloba il proprio suo stesso movimento progettante, che è parte, poi, di un progetto più ampio di fuga e scontro dal catalogabile, ma anche dal finito e dal conchiuso,

In queste prime sequenze sono in moto alcuni elementi scoordinati, addirittura in contrasto, per cui non risalta l’unità di un avvenimento centrale. Insomma è come se non fossi contento del mio essere protagonista e volessi attraverso alcune omissioni far risaltare un protagonista assoluto “come dovrebbe essere”. (p. 594)

            Quella di Corporale è, quindi, una lingua rappresentata spesso in azione, nel suo farsi e srotolarsi o riavvolgersi e disfarsi, senza un programmatico disegno, lontana da ogni simmetria, ma improvvisante e serpentina nella mimesi di un ondivago e spesso scornante lavorio interiore: il presente storico sarà il tempo narrativo deputato a registrare la presa diretta sul soliloquio dell’io narrante, e ottempera sia alla rappresentazione senza mediazioni temporali di un suo spaesamento, o, meglio, di una sua immersione vacillante di un qui ed ora opaco,[13] sia alla resa di un parlato recitato (che è anche una colloquialità interiore esibita) deittico e teatrale, che è decisamente preponderante, pur convivendo con altre forme dell’enunciazione: accade spesso (nella prima parte, soprattutto) che il tempo della storia e quello del racconto convergano o si divarichino; ora l’io autoaffabulante registra il presente del vissuto, ora lo distanzia, ora la lontananza è segnalata dal passato prossimo ora dal passato remoto: i tempi verbali  connotano così zone diverse dell’esperienza e si allontanano, o a scrutare  un’infanzia intesa freudianamente come origine traumatica del carattere, come occasione di mutilazione, o indugiano nei prossimi paraggi di una militanza politica e professionale da cui guittescamente sgusciare. Al presente della storia si ritorna per varie vie e da questo si riavvia l’introspezione e il dialogo, rendendo difficile al lettore la comprensione degli andirivieni di un intreccio che altera gli elementi della fabula, mediante bruschi trapassi associativi, volti a rendere il flusso interiore. Non a caso su questo aspetto di analogismo macrostrutturale hanno fissato la propria attenzione sia Guglielmi che Zinato[14], che osserva,

… il dominio apparentemente incontrastato della libera associazione… Il principio di identità diviene estraneo al testo, operano viceversa i principi della sostituzione, dell’equivalenza, dello spostamento e le relazioni di similarità e contiguità.

1.2 Osservazioni su registri alti

         Da una prima serie di osservazioni linguistiche riusciamo a rilevare un’inclinazione di Paolo Volponi al camuffamento parodico. Questo gusto attraversa tutta l’opera dell’autore, e può diventare predilezione occasionale per il gioco e il pasticcio polistilistico: in Corporale si constatano dei fenomeni di letterarietà che chiameremo parodica, compaiono con funzioni apertamente ludiche. La componente aulica, anche marcata, Volponi non la distribuisce ovunque ma la isola e la concentra in luoghi puntuali, senza funzioni manifeste. L’esempio più eclatante è senz’altro la lettera che il protagonista riceve come enigmatico avvertimento in forma di parabola, in cui l’arcaismo è solidale con l’esoterismo iniziatico del messaggio e con gli obblighi di colore temporale. Lo stile del documento ricorre ad un nobile fraseggiare ipotattico e a ricorrenti aulicismi morfosintattici, lessicali, retorici,

E quando un giovane nemico, preso sul campo, era destinato a morire, il primo dì del quinto mese, a piè del simulacro di Tezcalipoca, veniva per un intero anno tenuto in lieta brigata di giovani, i quali, vestito dei più pomposi ornamenti, anzi colle insegne dello stesso dio davanti a cui doveva morire, lo accompagnavano con suoni e canti sul lago… (p. 695)

L’impiego di questo registro distanziante si concentra nella seconda parte (quella in terza persona) ed è funzionalizzato ora al colore temporale delle divagazioni ora alla burlesca solidarietà con i nobili attanti. Tonalmente questi sono momenti di distensione che alleggeriscono la furiosa tensione ritmico-visonaria della prosa dell’autore contrappuntandola a volte in modo ancora più esplicito con le armoniche del burlesco e del beffardo, del satirico,

… accennò ad un passo di danza voluttuoso e rapido e riprese il passo agitandolo nel tumulto, come se lo portassero sulla cima di milioni di risultati, una corona si tolse dal capo e posò il piede, smorzato da una grande soddisfazione ufficiale, davanti all’eterno. (p. 727)

Ma invischiato nel grigiore delle labirintiche burocrazie statali, il personaggio tocca spesso con mano le ottusità e le inerzie di un Potere che più è invisibile più si fa sentire attraverso ridondanze e perifrasi magniloquenti ed eufemistiche: gendarmerie, uffici d’azienda, istituti di salute, tribunali e quotidiani parlano tutti con la stessa voce neutra e impersonale, freddamente rassicurante e benevola. Strumenti di quello che è stato definito il realismo critico-negativo[15] di Volponi, le cadenze formali del linguaggio ufficiale dipingono un’atmosfera sociale livida, repressiva e poliziesca, caratterizzando le pagine del romanzo in modo storicamente pregnante. Uomo della realtà, confitto come pochi altri nel contemporaneo, Volponi punta l’indice contro uno degli aspetti caratteristici della nostra società, rilevando i destini distorti della lingua nazionale che diventa più un ostacolo che un tramite alla comunicazione stessa. La “variante” burocratica dispone di una raggera di utilizzi molto varia: può essere riportata integralmente venendo accolta nel dialogato, così spesso freddo e formale, oppure può essere riportata come lingua d’altri, che il narratore si limita a citare indirettamente, come per scrupolo documentario, per aggiungere veridicità alla propria parola dubbia,

Il graduato della sera prima mi riconobbe e mi disse che erano stati ritrovati altri tre corpi e che si presumeva oramai con una certa fondatezza che soltanto cinque fossero le vittime in mare… (p. 507) Addusse che una gita scolastica all’inizio dell’anno ha risultati più sicuri nel cementare la classe, stabilire rapporti di gruppo, favorire la conoscenza degli allievi e anche per occupare il periodo scolasticamente più incerto… (p. 580)

La parola altrui, che rende ambivalenti i contenuti dei romanzi, si fa largo in questi luoghi, insinuando nelle vicende la violenza di un ingranaggio statale avvertito come totalitario.[16] È attraverso la mimesi di comportamenti linguistici correnti che Volponi mostra in cosa sfocia la persecuzione dei suoi eroi libertari. Secondo un gusto tutto, fin dall’inizio, “officinesco” per i materiali impuri, per cui il testo deve continuamente confrontarsi con quanto sta fuori, il letterario con l’extraletteario, l’autore ama intercalare documenti ufficiali, striduli rispetto al lirismo dominate.[17]  la squallida contemporaneità di una lingua ingessata gioca il ruolo di beffardo contrappunto allo splendore analogico delle folate predicatorie del narratore-protagonista, lo avvilisce e infirma. Sono queste le caratteristiche dello status actualis di una lingua che pretende di inchiodare la realtà in un’immutabilità statica e cadaverica, sono questi i principali attributi di un’abitudine linguistica da stravolgere e oltraggiare in quanto contraria ad una verità che per Volponi è sempre movimento, fluenza o fervido caos. In Corporale l’assunzione all’interno della voce affabulante di modi burocratici viene straniata e ironizzata,

Salsamiti prof. Lamberto presiedeva in una stanza non molto lontana la sessione convocata d’urgenza di un tribunale informale ma unitario e fornito d’ogni confort scorrevole come un cuscinetto a sfere appena sfornato… egli, il Gran Presidente, il procuratore… (p. 714) Il bambino Cino Aspri di otto anni era affogato presso la riva del lago di Varese poco prima di mezzogiorno. Tre insegnanti padri C. avevano messo in acqua una barca a motore capace di venti persone. All’avvio del motore, appena lasciata la sponda, la barca si era capovolta per uno squilibrio nel carico e anche per qualche goffa sbandata del padre C., tutti e tre paonazzi e sul quintale. (p. 702)

Sarà poi proprio rivolta contro la natura necessariamente compromessa e condizionante della lingua,  svelamento dei vischiosi nessi tra ideologia dominante e linguaggio, a provocare sia le soluzioni di surrealistico flusso automatico della scrittura sia quelle di espressionistico neologismo su cui poi ci si soffermerà. Per ora si veda come l’ambiguità costitutiva del romanzo s’avvalga, oltre che dei referti burocratici, anche delle parole delle scienze psicologiche per decretare lo stato patologico del matto volponiano, per esorcizzarne la dolente carica di demistificazione sociale. In   Corporale non si contano i tentativi di braccare l’inquieto Aspri attraverso succesive definizioni, classificazioni (si sprecano i “tu sei… ” “lui è…” miranti a lui, ora disturbatore ora lucido esaltato poeta minore senza poesia, orfano, e altro)[18] a cui reagisce con il camaleontismo proteico, anche onomastico. Proprio sul finire del volume assisitiamo a questo botta e risposta,

-E quali sarebbero le mie ragioni?- Ho saputo tutto. Posso dirle che l’eccessiva interiorizzazione finisce per deformare e bloccare qualsiasi rapporto autentico con l’esterno, uomini e società; per stabilire quindi una indifferenza che diventa una perfetta acquiescenza politico-sociale. ( p. 1005)

La specie linguistica settoriale delle scienze medico-psicologiche, positive e razionali, illuministiche in senso lato, ha il compito di incastrare il matto, di liquidare i depositi stranianti contenuti nella semplice presenza dell’eroe bastonato, nel suo puro esserci, se non nelle sue parole.[19] Il discorso dell’Altro, della sua logocentrica egemonia totalizzante fa capolino spesso verso il finale dei capitoli: la parabola sociale (sottolineo sociale poiché l’avventura si prolunga in una plurisensa fuga finale: la coda è aperta) finisce sempre in avvilenti sordine ospedaliere.

            Ho detto eroe bastonato (brechtianamente) con le stigmate di un’umiltà sociale, che nel campo specialistico di nostra competenza spiega la frequentazione  di accenti di popolaresca esclamatività. Ma quanto di sermo humilis (nel senso sociolinguistico di prelievo dalle zone più basse del repertorio) vero e proprio appare nel racconto?

              1.3 Popolarismi , dialettalismi e regionalismi

            Sono poche le marche popolareggianti del romanzo(per l’individuazione dei tratti tipici del registro m’affido al saggio di Mengaldo, citato nella quinidcesima nota. Le pagine vanno tra la 104 e la 111) è  parsimonioso il dosaggio di quote di scorretezza: le rarissime emergenze di tratti popolari lo fornisce qualche caso di che polivalente che coincide tematicamente con l’esplorazione memoriale dell’infanzia. Sarebbe quindi un caso di compenetrazione nel punto di vista infantile, di porosità della lingua ad una suggestione tematica,[20]

… quando la tenevo da un mese come mia, che si schiariva del mio possesso, che si spartiva sotto il mio cuscino (p. 461)

Nello stesso tempo Volponi si muove all’interno del livello dialettal-regionale percorrendo direzioni contraddittorie: da un lato, infatti, la folla numerosa di personaggi minori (paragonata da Pasolini nel saggio ristampato nel 1979 e citato sopra agli astanti di una pala d’altare) spesso umili attizza la pulsione comica di Volponi e una divertita concertazione poliglottica della pagina;[21] per cui le inflessioni dialettali vengono rilevate con spiritoso puntiglio in una sorta di commedia delle lingue. Si va dal romanesco al romagnolo-marchigiano, al napoletano, con gradi di mimesi diversi delle battute di dialogo,[22]

-Un chilo bello erto, allabrasce, tutto sangue, tutto sangue sopra, sangue sur piatto- (p. 421) -Nutriti, bello mio. Magna… Che bellezza siete, che vigore de gente e de coraggio… Quando ho abbattutto la porta so’ entrata per prima… se sbatteva tutto ma piagneva… -(p. 474) -Ecco che torna il sassen-assassino. ..Mo vè come è bello il sassen, brutta canaglia. Ne vuoi scopare tre di noi, oppure quattro o tutte, bel zovine sassen? -(p. 491) -Questo logale e pullittissimo- (p. 696)-Va’ là Candido, che tant en li fè piò… En se piò bon a fè nient. Oramai stiri le gamb, altre c’el blic- (p. 671)

Ma fuori dal facile folclore di questi casi accade che vocaboli dialettali divengano occasione di un crescendo esultante, di una sillabazione associativa e ditirambica, come se si trattasse di una ritrovata unità di nome e cosa, o di altro. In un brano d’ambientazione marchigiana conosciute da una guida le denominazioni  regionali dei luoghi campestri che sfilano sotto il suo sguardo, Aspri erompe,

-Stano, dunque, è il posto più basso sotto la rupe- dissi forte esultando all’evocazione di quel suono. “Stano stano stano”: ripetevo, esultavo come fossi arrivato sicuro di tutto e per la prima volta con l’ordine di Stalin, Stalin, Stalin… -(Co, p. 845)

E più volte in passi successivi del terzo capitolo la sensazione è che la parola dialettale (ora smete ora sbova ora splaxa) valga più per il suo spessore consonantico che per le sue virtù denotative: quasi fosse una magica chiave d’accesso per entrare nel vero del paesaggio, nelle sue stratificazioni.[23]Nella beffarda panglossia di Corporale trova posto, quindi, anche un isolato impiego “privato” del dialetto al limite dell’endofasico.[24]

            Diastraticamente non dista molto dalla falda regional-popolare dei fenomeni visti la fascia lessicale, fraseologica e sintattica, di estrazione mezzano-basso, colloquiale:[25] Schidionate di elementi informali ed espressivi,  s’accumulano nelle pagine del testo con intenzioni stilistiche di mescidanza e cozzo, anche desublimante. Un vocabolario basso accompagna necessariamente le avventure carnali, le immersioni nel fisiologico di Aspri, ma non solo, sostiene anche i suoi scatti umorali, con sprezzature brusche, di un gusto, anche infantile per l’oscenità, l’improperio o turpiloquio che sia.[26]Nell’elenco che giustappongo mescolo i rilievi, oste cafone… (p. 420) merda, stronzo (p. 428) Una volta l’abbracciai e lei mi mise subito la mano sull’affare: me lo guardò e poi si alzò la sottana; prese una bombola spray da un cassetto e se lo passò fra le gambe su quell’altro affare, sui ciuffi (p. 431) … e andavano via incazzati. (p. 434) … comincia ad andare al cesso (p. 436) La ragazza del bar era scopabile… Stava come sta semplicemente un buco davanti a un palo e un palo davanti ad un coltello… fino a mostrarmi le sue tette irrorate di un sudorino che era già una comunione. (p. 518) … sino all’esplosione dei bulbi, del crapo, di tutta l’anguria. (p. 492) … annusando

come troie… (p. 556) … mostrò due poppe rotonde… (p. 558) … fece il gesto di metterlo nel culo. (p. 599) E così andava a farsi fottere ogni bel ricordino. (p. 857)

            Il fatto è che il protagonista di Co ne fa davvero di tutti i colori: s’ubriaca volentierti, vomita e secerne deizioni, provoca e partecipa a risse in bar molto ambigui, si dedica al racket, frequenta prostitute muovendosi nel Lumpen, spaccia e picchia, e tante altre cose ancora. Forse in questa dimensione canagliesca è avvertibile l’influenza del Diario di un ladro di Genet (ma anche il primo Doblin di Berlin Alexanderplatz e la traduzione caproniana di Morte a credito) passione comune di Volponi e Pasolini[27] negli anni della stesura di Corporale.[28] La lingua, anche sintatticamente, si piega a seguire ovunque queste immersioni nel vitale, radendo il suolo in un impasto svariante ed inquieto come Aspri, come Murieta “el revolucionario”, il suo pseudonimo criminale.

            La dizione scivola verso cadenze orali ed informali, propriamente monologanti . Quella di Corporale è, infatti, una lingua rappresentata spesso in azione, nel suo farsi e srotolarsi o riavvolgersi e disfarsi, senza un programmatico disegno, lontana da ogni simmetria, ma aperta, fluente nella mimesi del caos interiore. Soccorrono qui le osservazioni di Mengaldo su di una lirica postuma di Pasolini,[29] nelle quali avverte come la centrifuga informalità di un testo rifletta una rappresentazione del mondo senza la solidità di schemi ideali o morali (ma in Pasolini non era esattamente così). Il presente storico è il tempo narrativo deputato a registrare la presa diretta, la resa esplosiva di un parlato recitato (che è anche un dialogismo interiore esibito) deittico e teatrale. La forma del monologo porta ad un recitativo segmentato e ricco di scarti: nel breve giro di un periodo registra bruschi passaggi verbali e numerosi deittici,

Tienti questa visione panoramica, ben messa, dentro il petto o anche dentro il cucu… C’è sempre spazio per l’allegria. Ero allegro esaltato dalla scoperta, dal grado che ero riuscito a stabilire e che si rivelava giusto, assorbibile con soddisfazione e senza gonfiore dello stomaco… Questa stagione mi ricorda la borsa di Imelde: ha la stessa pelle variegata e piegata dall’uso. (p. 796)

Dell’avanzamento del discorso, per addizioni successive, esitazioni, pause e incertezze, è “icona grafica e chiave tonale… il modulo dei puntini di sospensione”, [30] impiegato qui nel suo ruolo oralizzante, di simulazione di un parlato-monologato che procede a tentoni. La mimesi microsintattica del parlato s’avvale di questi segni grafici mescolandoli con altri nel tentativo di riprodurre sbalzi ritmici e tonali di un recitativo che denuncia qui, con le continue frenetiche contrazioni buffonesche, gli spasmi ritmici che scaturiscono da sbalzi esclamativi e interrogativi,  una sorta di clownesca ilarità da disperato, di esibizione al pubblico del privato della coscienza. Di qui l’abbondanza di frasi interrogative e quelle esclamative,

Ah! sì, se Imelde mi guarda spaventata posso ancora piangere. Ah! Sì, come posso ridere di me insieme con voi. Posso ridere sì di me, ma di me che resta con voi, che non gliela fa ad arrivare dove gli è indicato da qualche segno… (p. 815) Ma dove è quella spinta che mi ottenebra spesso la testa con l’ansia… ? Ah no, non scherza nemmeno quella mia seconda testa… Fuori il testo: se tu lo reciti, tu lo segui. Pena la castrazione, eppoi la morte sbaragliata giù per le strade… (p. 811)

Il recitativo si stende così su frasi monche, avverbi presentativi-deittici, e tutte quelle sigle linguistiche caratteristiche dell’oralità,[31]

Chissà che il grande procuratore Salsamessa… Quindi dovrà essere una sistemazione temporanea prima di… di… . (p. 731) Mi garba questo parapetto; questo porticato ancor di più; questa piazzetta imbronciata si apre come un pezzetto della mia educazione… Evviva, questa piazza ha un rettangolo materiale e sereno. (p. 731) Adesso concludo preferendo che sia solo un attimo di sollievo. Avanti con giudizio, con le giuste misure. (p. 754)

E questo si verifica anche quando il racconto passa alla terza persona: l’indiretto libero costruisce spesso una complice alleanza tra il narratore e il protagonista: il discorso del narratore s’avvicina quello del personaggio, attraverso percettibili mutazioni sintattiche ed importi lessicali,

 A quell’ora gli uccelli erano appollaiati su e giù dentro le gabbie come morti: qualche gracidio aprendo le ali sfilacciate, con le teste a penzoloni. Qualcuno apriva il becco… Passare agli orsi, almeno quelli sempre assomigliano alla santa Russia. Un buon comunista ama anche Pietro il Grande, le pelliccie della grande Caterina e Boris Godunoff. La grande Caterina che va in slitta sulla neve sfavillante con i finimenti d’oro e sonaglini di smeraldo e rubino… (p. 559)

Ma, insomma, mi pare improprio richiamare come è stato molte volte fatto l’alto modello joyciano del Ulisse, non solo per le caratteristiche allocutive del dettato di Corporale (la scandalo non sta nell’intrusione indiscreta del lettore in una psiche che si ritrae per dare spazio alle cose bensì nell’aggressiva estroversione dell’io sproloquiante che fagocita le cose) ma anche perché nel quotidiano flusso di coscienza di Stephen, di Leopold e di Molly, lo scialo è di triti fatti, “è il vero mondo della prosa: dettagliato, regolare, un po’ banale”[32], senza epifanie. In Corporale il soliloquio è la forma del momento privilegiato e conoscitivo, dell’improvviso rivelante che si staglia sul referto più distaccato; e infatti fanno ressa le tratte regolarmente narrate in uno stile medio sui cui quelle esagitate e fibrillanti dell’oralità sbalzano vivide:[33](ho presenti soprattutto i capitoli di Coletti 1993, e l’intero, spesso splendido, per rigore finezza e onestà intellettuale, Testa 1997). Nella prosa media di Corporale entrano in gioco questioni di alternanza ritmica e di distensione del respiro: enunciati neutri connotano le zone più fluidamente narrative del romanzo, in modo agile, attraverso un fraseggio a scatti, un vocabolario piano,

ll bassetto si alzò in piedi e cominciò ad urlare contro Murieta e prese anche un coltello dal tavolo, di quelli opachi praticamente senza taglio… Il bassetto lasciò il coltello e si buttò. Murieta riuscì a bloccarlo con un ginocchio e a colpirlo con uno schiaffone in piena faccia. Il bassetto traballò e con le mani in avanti e la faccetta rossa urlò… (p. 699)

               1.5. Formazione di parole

            Volponi non ha mai nascosto le proprie preferenza all’interno della tradizione italiana per gli autori di maggiore audacia e vigore stilistico: Dante e la tradizione espressionistica[34] che da lui discende. La schedatura di Corporale offre all’interpretazione delle tipologie alterative non atipiche, “testone”, “labbrone”, “sederone”, “chiappone”, concentrati tra p. 548 e 551, e riferiti all’amico odiato Overath,[35] “pettone” “pietrone sepolcrale con i labbroni” (p. 607) “faccine” “mucchietto” (p. 461) “donnine” “donnina” “pelone” (p. 469). Ad esse si affianca uno sforzo creativo più teso, una manipolazione più energica della plastica delle parole, che porta a punti di acrobazia stilistica e pirotecnia idiolettica quanto timidamente s’affacciava nel romanzo precedente. Aggallano, infatti, composti analogici (anche in serie) binomi d’astratti indicanti ambivalenze psichiche, neoformazioni desostantivali veicolanti il motivo della metamorfosi, alterati inediti, aspre invenzioni neologistiche (con preferenza per il prefisso -s, separativo e intensificante), ora giocose, ora seriosamente sinestetiche (in accordo con la erraticità dei registri),

griccia smusonare (p. 651) smatricciavo (p. 817) slimonare (p. 651) ganasciume (p. 817) lucertolare, pipistrellato, anguillato, dissoflagellato (p. 883), lenzuolo-film (p. 733) cielo-lenzuolo, finestra-occhio-scudo, parole-palpebra (p. 775), albero-fiore (796), rifugio-letto-ala-vela-pietra-barca-vita (p. 815) natura-bisaccia-smembrello (p. 451) vene costellazioni (p. 449) odore-suono (p. 504) giacca-corazza (p. 508) chiapponi (p. 543) bruno-violetto (p. 539), rancore-timore (p. 563), benzinato (p. 642), sciarposo (p. 658), cocherizza (p. 661), rancore-slow (p. 858)s

In Co l’oltranza-oltraggio alla grammatica esplode come segno di una libertaria insubordinazione verso il mezzo linguistico, avvertito sia nella sua insufficienza ad esplorare zone di contenuto insondate dai processi di significazione regolari sia nella sua natura servilemente compromessa: l’audacia formativa è l’altra soluzione di una pulsione che spinge anche (incrociandosi con la prima) all’ecolalìa allusiva, quasi endofasica, all’esclusività privata di un gioco sul significante. Con parole dell’autore la lingua di Corporale è,

… una lingua che cerco di far vivere e reagire in mille modi: la muovo, la scuoto, la porto da una parte e dall’altra e poi la riprendo, l’affondo e l’allungo, la segmento e infine la carico, la deformo, la fletto su se stessa.[36]

            È da questi rilievi che prende forza l’affermazione iniziale secondo la quale è il linguaggio (i suoi trionfi euristico-espressivi, i suoi scacchi gnoseolocici) ad essere il vero protagonista del romanzo, nel “versante dantesco di una lingua tesa, frugata in tutte le sue possibilità”.[37] La moltiplicazione del lessico indica sì la ricerca di una lingua eccentrica e personale, firmata, ma nello stesso tempo è l’equivalente di una vis polemica di uno scontro con la menzogna collettiva: lo sperimentalismo in questo caso è tutto provocato, mosso da una gaddiana furia atrabiliare (parafraso le parole di Contini nell’ormai storica introduzione alla Cognizione). L’aggressione ai significanti, la loro torsione espressionistica, ghignante, è quello che sul piano delle figurazioni sono la caricatura, la dilatazione visionaria, la percezioni per scotomi. Il fatto è che come sul piano spaziale il romanzo si caratterizza per un incessante movimento di ricerca di un luogo fuori da una storia impazzita, di una salute futura, così parallelo allo scorrimento lungo l’asse del viaggio da parte di Aspri, si ha una ricerca di un lessico pesonale:[38]soccorrono in questo caso, le osservazioni del compianto, memorabile, Guido Guglielmi, che qui forse sbava per troppa assertività,

La quête del romanzo è la ricerca di una lingua della verità. Il personaggio per altro deve continuamente misurarsi con le parole degli altri. E solo contrastandole può formulare una parola propria. La lingua così risulta composita. E la tensione-nei termini di Lotman- è tra la sfera dei nomi propri e la sfera dei nomi comuni… E se considerano con Lotman i nomi propri una varietà e un residuo dei nomi mitici o motivati, in cui il significato fa tutt’uno con il significante, allora possiamo dire che Gerolamo torce la lingua ad una pronuncia cifrata e idiolettica.[39]

1.6. Lingue speciali e indicatori di saggismo            

E’ contigua alla crescita delle neoformazioni quella del numero dei sostantivi astratti: nell’esplosione del fenomeno si sommano due motivazioni, quella della rarefazione lirica, in una pensosa indeterminatezza, e quella per cui il movimento verso il generale è pertinente all’abito mentale dello scienziato che estrae dal formicolìo dei dati gli esponenti di leggi generali: “tramite l’astratto i fenomeni naturali e umani sono sottratti alla descrittività dispersiva, anedottica e sintetizzati nella loro essenza o minimo comune denominatore, nella loro struttura semplice sopra la molteplicità dei dettagli” (p. 371 del volume più volte citato di Menglado nel 1991-, che insieme a quello di Roscioni del 1969[40] mi fornisce più di qualche spunto su questo tratto stilistico). Dal momento che queste due propensioni alla letterarietà (da Pasolini definita, senz’altro esagerando, “furibonda”) e all’intellettualismo si acuiscono gli astratti pullulano,

Guardavo la pesantezza del comò e la cecità dello specchio. (p. 134) … la gravità che l’affliggeva la spaventò con una violenza che colpì la stanza. (p. 20) Il furore di Joaquin si placò davanti alla materialità spessa dei coperti. (p. 24) Il caco mi tratteneva con la sua verde fissità. (p. 302) … ma io sentivo trascorrere dentro di lui la veemenza di un contrasto. (p. 936) Ho custodito la lucidità della mia insonnia Guardavo dalla finestra la chiesa del mio santo uscire bagnata dalla notte, dalla barbarie del mio sguardo di prima… (p. 831) Riuscire a superare la stupida superbia di quella monumentalità (p. 716) … Joaquin fu accontentato dalla bellezza del lenzuolo: a un palmo dai suoi occhi la filatura dritta e spessa del lino, la compostezza della statura. (p. 717) … cercavo un delirio di compenso nel turbine… conoscevo la titubanza del suo collo. (p. 495) Questo punto… rappresentava… l’oggettività vera… Sarebbe stato il primo punto di un nuovo scenario di un altro sistema fisico intorno al mio centro (p. 799)

    In Corporale l’ebrietà speculativa e teorica cresce (malgrado la persistenza di idiosincrasie antiintellettualistiche che sforano negli abbandoni sensuali), il saggismo dell’autore si fa largo, aumenta sia il coefficiente di argomentatività, sia l’estensione dei domini del vocabolario, soprattutto in direzione specialistica e settoriale. Un lessico di nobile estrazione saggistica pervade così le pagine del romanzo, fin dalle mosse d’abbrivio del incipit,

Da principio la scena persisteva nell’indulgenza che mettevo… poi vinceva lo scenario oggettivo… e non c’è niente che promani dalla mia coscienza, o dalla matrice di essa… (Co, p. 417-19).

Una rapida ricognizione della prosa ha gioco facile nell’inventariare lessemi di provenienza filosofica e intellettuale, immessi in giri di frase sostenuti,

… rappresentazione dell’estensione al di là di ogni forma predeterminata (p. 452), … mi ritrassi con una visione bianca e dilatata, che promanava dal mio pensiero (p. 473) ), Nel momento in cui avrei più bisogno di me in termini intellettuali (p. 490), … concetto di tempo idealismo relatività. (p. 483) … gli schemi preesistenti non valevano. (p. 488) Le mie convinzioni seguivano i miei ricordi, naturalmente. Per la prima volta capivo le sovrapposizioni e accettavo i tempi (p. 530) … universalità, massimi sistemi, angelicazione della donna (p. 539) Trovo un’altra contraddizione, un altro specchio appannato d’amore nella rovinosa ricerca della realtà (p. 560)

Romanzo-saggio (ma anche romanzo-arca, con pretese enciclopediche) nella migliore tradizione del genere nel Novecento (Musil e Mann, ma anche Gadda, sono dei modelli con cui confrontare l’esperimento, senza) Corporale non rinuncia ad attingere  dai sistemi conoscitivi di molte discipline scientifiche[41] e ne assimila nella sua compagine prensile ed inclusiva i vocabolari con l’ambizioso scopo di sondare lo stato delle cose in un universo degradantesi, in sfacelo “bombesco”. Questa proliferazione linguistica è legata l’idea di un romanzo tentacolare che abbracci la pluralità delle verbalizzazioni esistenti, magari per negarle dall’interno, per demistificare la natura  svuotata di senso storico di un uso in catacresi. La specie linguistica che la fa da padrona tra i vari codici e sottocodici speciali è senz’altro quella che è stata definita il “socioletto intellettuale” (nel binomia Marx e Freud, Mengaldo nell’antologia del 1978 su Sanguineti) attraverso le cui maglie Volponi veicola nelle pagine della narrazione il dibattito di idee, il maestoso alterco dottrinario. La crescente furia critica investe,[42] soprattutto l’amico Overath (“il super consigliere”  il Super-Ego ideologico che incarna le ragioni della Ragione dialettica e progressiva, la voce dell’Ideologia: a lui si debbono le pervicaci razionalizzazioni delle avventure oniriche di Aspri, gli ammaestramenti, le ammonizioni. È caratteristico del movimento del romanzo sovrapporre a sequenze associative, illogiche ed oniroidi razionalizzazioni

immediate: negli intrecci epistolari dialogici immaginari tra i personaggi non si faticherà troppo a rintracciare dense concentrazioni di idee, tra rivoluzione collettiva liberazione individuale, dibattiti su riformismo e scienza, arte e mercato, e molto altro, in un calderone plurilinguistico funzionalizzato alla pluralità dei temi (non come in Gadda, nel quale il plurilinguismo è inversamente proporzionale alla povertà tematica, all’ossessività psichica). Ha insistito sull’aspetto di resa dei conti con tutto il complesso armamentario ideologico degli anni Sessanta Alfonso Berardinelli,[43] le cui parole sarà opportuno richiamare qui,

Nel romanzo di Volponi continua a dibattersi e ad agonizzare l’idea (sceneggiata in termini di progetto e di destino) di una grande ipotesi storica… un’idea di storia e di razionalità, un’idea di dialettica e di progresso, di progetto e di rivoluzione, appaiono nella fitta trama di questa peripezia romanzesca non occasionalmente ma da vere protagoniste. Le trasformazioni e gli spostamenti di funzione avvenuti nel corso degli ultimi dieci quindici anni dentro la costellazione di idee-forza che ha caratterizzato la vecchia sinistra e tanta parte delle nuova attraversano il romanzo di Volponi in lungo e in largo, ne costituiscono la sostanza fino ai livelli molecolari.

            Il massiccio investimento linguistico di modi e stereotipi del verbiage intellettuale (con qualche somiglianza con lo smisurato romanzo conversazione Fratelli d’Italia di Arbasino) avrà quindi una doppia valenza, sia quella ambiziosa di gigantesco affresco psicosociale sia quella di rabbioso e sarcastico Requiem di tutta un’epoca di storia, di una suo ceto dirigente, soprattutto (in una critica dall’interno del tradimento della borghesia progressista, dedita ormai solo a maneggi o economici o carrieristici). Spesso i personaggi “alti” (Ghislanzoni e Salsamiti) vengono rappresentati con la “tecnica della distanza zero”,[44] dell’isolamento metonimico di un dettaglio e appaiono chiusi in un ebete recita di se stessi, della propria posizione. Il linguaggio li ingabbia e li condanna ad una irrimediabile settorialità della visione: la funzione comunicativa non si perde ma appare deformata,

Disse che aveva fatto un tentativo di obbiettivizzare le situazioni, al di là di chiari presupposti ideologici, proprio perche gli interessavano risposte d’impeto, anche se venate di psicologismo.-Occorre provocare una duplice rottura con il fatalismo meccanicistico: la prima nel legame fatale tra coscienza e istituzione di classe; la seconda nel legame altrettanto fatale tra sviluppo economico e vittoria del proletariato- (pp. 664-5) 

Lo stesso impasto è verificabile anche nella voce dell’io narrante: Aspri cerca una liberazione e un’autenticità possibili attraversando la lingua: ma il superamento è progressivo, mentre durano a lungo le mitologie staliniane e collettivistiche. Poco a poco i motivi della critica ideologica vengono sostituiti da un’apoteosi dell’asocialità, e si rinuncia ad ogni tentativo di soluzione dialettica dell’antitesi tra il singolo e l’universale, mentre il primo termine di essa viene affermato con impeto anarchicamente rabbioso (con rimandi allo Stirner più riottoso e meno pietistico cristiano): tratte come quelle che seguono andranno dileguandosi nella voce dell’io narrante,

Tutta questa malinconia mi prende un poco alla sprovvista. So bene che non intacca il mio carattere e che nemmeno offusca la mia determinazione di giuocare la vita secondo il mio progetto; ma mi deprime, mi obbliga a delle misure supplementari. Non posso intenerirmi, anche perché i miei sentimenti non esistono più: la mia psicologia, per dirla con Overath, non ha più alcun rapporto con la sua base e con gli elementi che l’hanno costruita: non sono più catalogabile. (p. 735) La tappa decisiva in questo cammino di emancipazione la rappresenta l’episodio della lettura dell’ennesima egolatrante epistola dell’amico teorico: Aspri-Murieta la sbeffeggia davanti ad uno specchio nel chiuso di una stanza. La parodia è evidente dalla “divaricazione tonale” (l’espressione è compare a p. 152 del saggio su Il Novecento, edito da Il Mulino, nel quale l’autore, P. V. Mengaldo descrive fenomeni stilistici presenti nella mirabolante, stordente prosa di Gadda) del passo interamente costruito sul contrappunto beffardo, e sul rovesciamento carnevalesco del linguaggio alto e filosofeggiante

dell’interlocutore. Gestualità e corporalità esasperate inscenano una sorta di rituale esorcistico, di cerimonia dissacrante[45] liquidando l’impettita dissertazione,

… il metodo, il rituale, è esorcistico o esortativo, non demistificatorio-scientifico. considero… (herr professor tace un momento e soppesa la parole: io soppeso il vasel senza farlo toccare l’orlo del lavandino Ondedei)-… la morte atomica come un’apocalissi… – (c’è tutto, dunque: storia e verità)-… manovrabile… – (il manovratore è già a posto, e nel frattempo scherza, con i bottoni… della macchina e dei calzoni)-… una superalienazione come tutte le apocalissi… – (insiste, herr professor e luccicano le sue stanghette. Sa, professore, che potrebbero fondersi in un millenesimo di secondo insieme con la sua stessa pesante, rifornita, foderata crapa?)-… che ha in sé tutte le alienazioni quotidiane, tutte le microalienazioni del sapere e del potere” . (Io, il sedere, l’ho sempre abbondantemente risciacquato nel bidé e così l’ho perduto e non l’ho incrostato lungo e addosso a… mettere l’istituto che vi pare, il pubblico istituito a vostra scelta… alla cucitura delle mutande). “Ritengo che la lotta sia contro questo: la Cia o l’autoritarismo della famiglia, per esempio, sia uno di quegli Umwege hegeliani che sono poi la scorciatoia del reale”. (Giusto trovare anche uno scorciatoia per la Cesana: non si sa mai). Tutto è passato nel buco del lavandino. (p. 780)

È in tratte come questa che la funzione basso-comica dei segni formali del monologo (riepilogo) riesce in tutta la sua evidenza: l’immediatezza spudorata del parlato e l’ istrionica azione del corpo, delle sue smorfie, vuole mettere alla berlina l’astrattezza di un linguaggio avvertito come anchilosato,

Dunque alla lettura, davanti allo specchio, con tutte le luci accese. A costo di afferrarmi all’angoscia… La lettera… sento intanto il ronzio della finestra che vigila… dovrei ridere… tralascio… mi guardo allo specchio, smorfia, sospendo per graduare la luce, smorfia: sento alcune frasi che rimescolano nella risacca, indubbiamente efficaci, ma vado avanti con altre smorfie, riprese o no sullo specchio; vado anche a mettere le mani sul vetro della finestra che ronzando vibra fortemente… torno alla luce bianca… a leggere davanti alla mia pelle ingrandita dallo specchio… Non mi basta: smorfia e bicchiere d’acqua e schiocco sul palato, liberatorio. Ecco il limite dello scrivente !! Ha avuto famiglia, lui !!! Ed è anche tedesco, ben fornito di vari ordini sociali e mentali, come scatolette di birra, di formaggio e d’itinerari figurati… Torrnare alla finestra. Aprire e bere aria, sputare sul dolce fratello caco, provare a pisciare pesantemente sulle sue poche foglie rimaste. Amore, pisciami addosso… (pp. 778-9)

L’esempio mostra bene la varietà degli elementi linguistici in gioco e il modo in cui entrano in tensione tra di loro registri alti e bassi: quella di Corporale è una lingua di dissonante tensione eteroclita, con continui ribaltamenti di ritmo, di tempi, di tono. Sul piano delle osservazioni macrostrutturali questo significa opacizzazione del momento più propriamente affabulatorio a vantaggio di un antinarratività che è insieme saggistica ed autobiografica.[46] L’aspetto saggistico relega spesso la sequenza combinatoria dei fatti ad un secondo piano, e ne rallenta la scansione attraverso lunghe parentesi digressive, queste, non si concentrano solo negli alterchi “filosofici” tra i vari interlocutori, ma anche, che è pure molto interessante, nelle riflessioni del io su se stesso, nell’attenta concentrazione, tra l’endoscopico e l’introvertente, con cui questi tenta di fissarsi in un’ immagine definitiva. Il che è vero e non lo è perché molte, e contraddittorie sono le pulsioni che tramano il libro, da una parte la ricerca di un sé ipotetico e sempre sfuggente (in una sorta di slittamento identitario) dall’altra la fuga dalla definizione, dall’emorragia definitoria, quasi una coazione alla sottrazione (fissità è fissione). Aspri, insomma, vuole e disvuole il proprio autoritratto marmoreo, o statuario e monumentale (nella nonvolenza sta la differenza dai precendi testi). Ed è pure perciò che il romanzo si fa e si disfa, rifiuta il compiuto e il rifinito, in una sorta di fluida e mercuriale disarmonia prestabilita, specchio della sostanziale incompiutezza del protagonisa, e di quel suo rifiuto a trovare la soluzione definitiva del proprio sè, a conchiudersi, ina scomessa per l’aperto nel nesso e dell’allaccio. Tuttavia spesseggia nell’erratico flusso discorsivo la perentorietà di enunciati generalizzanti tesi a sagomare un’etopea memorabile dell’io,

Le cose che mi piacciono mi catturano e mi dettano il loro giuoco; o m’impediscono ogni spazio e la possibilità di meditare e di decidere.

Forse perché ho sempre dovuto desiderare e anche inventare di desiderare. (p. 450) A  pochi, come a me, è dato, anzi occorre, cercare gemendo: cercare le cose, una parte di sé, lo spazio intero dello specchio. Pochi si accorgono dei vuoti, ovverossia delle cose. (p. 451)

È l’aspetto autoriflessivo del romanzo su cui ha insistito la critica americana (l’italoamericano, metodologicamente ibrido,  Pedroni ha parlato di Aspri come di un soggetto metonimico sempre mancante di qualche cosa e prigioniero del desiderio dell’altro, oltre a mettere in rilievo il gioco di specchi di un io che si sdoppia in conoscente e conosciuto, attraverso le stratificazioni della scrittura diaristica).[47] Nel raddensato impasto concettoso della prosa infuriano quindi gli accanimenti analitici attraverso cui l’io lotta contro un passato avvilito,

Egli fu preso dalla sua stessa finzione, la quale non poteva durare molto accanto alla tendenza naturale del suo animo di precipitare nel pessimismo senza cadervi dentro, soprattutto allo scopo di amplificarlo di fronte agli altri e di giungere ad attribuire a questi le ragioni dei suoi dolori. (p. 615) Prendevo quelle facili vittorie soprattutto contro me stesso e contro il timore che la solita mia naturale tendenza, seguita a perdifiato e a capofitto per tutta la gioventù vissuta come un tempo altrui, di un me stesso presunto, mi esaurisse nell’esaltazione di qualche sentimento. (p. 766)

La temperatura assertiva viene segnalata da un presente gnomico, assoluto, nel dettare massime che individuano leggi psicologiche universali,

... rimasi maliconico, in quella incertezza atona e più pesante che si ha quando la ragione della malinconia non è presente. Allora si è costretti a cercare una ragione e il dolore s’ingrossa perché si teme che sia molto profonda, e poi perché se ne trovano diverse che erano state riposte da tempo. (p. 494) Nell’indulgenza per se stesso, o solo nella convinzione della fiducia in se stesso o nella negligenza dei propri limiti, o per un’impressione favorevole anche se sbagliata o se nata da una circostanza magari casuale e immeritata, la quale intenzione mantiene convinti che uno posso subito trasferirla al futuro, portarla sui più grandi progetti di allora, uno può sospendere tutto e illudersi fino a fare di un momento un tempo, credere di avere grandi mezzi e di poter ritrarsi dalle cose, per decidere di riprenderle quando si sentisse più desideroso e più disposto a goderne con perfetta determinazione… (p. 454)

La vocazione generalizzante che caratterizza sempre Volponi convoca qui una molecolare sentenziosità riguardo i più minuti fatti psichici:[48] spesso la sintassi si complica come se la dolente necessità di confessione[49] per effondersi avesse bisogno di più retorica, come se la difficoltà d’espressione di verità sgradevoli dell’io dovesse venire mediata da paradossi ed antitesi,

Ma dove mi venivano quelle frasi retoriche? -… dalla ottusa necessità di mentire o meglio di mascherarmi, di esagerare, per paura di mostrare con semplicità tutto ciò che è mio, spoglio e doloroso, mentre è doloroso e aggrovigliato. Io non mentisco ma sono costretto a stendere parecchi inganni sopra il mio dolore: esso però almeno a me stesso resta sempre evidente come resta evidente la sua punta. E quindi l’enfasi che spesso mi ammanta, mi avvilisce ancora di più. (p. 459)

Una simile prosa insegue l’affioramento del profondo, che procede a tentoni in rissa costante con l’oscurità di stati vaporosi o indefiniti; il garbuglio (lo gliommero per dirla gaddianamente) delle contraddizioni dell’io viene, quindi, sondato da una lingua che sa farsi portatrice di chiaroveggenza, di forza razionale, anche nell’anamnesi ostinata di un’infanzia ostica,

… non avevo nessuna voglia di verificare che tutto non fosse altro che un automatico moto interno, l’assestamento di qualcosa di me che ceduto ad altri o lasciato cadere, per minorità o imposizione, o trascurato proprio durante il faticare dell’infanzia e della gioventù, ora imponesse la sua liberazione, cercarsse di aprirsi dei varchi. Finalmente una folla di pensieri che riuscivo ad ordinare, almeno in grande parte; un desiderio vero che mi dava coscienza di me, e anche della necessità, per potere coglierlo, di risparmiarmi alle solite incertezze (p. 534)

Ne risente soprattutto una sintassi che tende all’ipotassi, avvolgendo l’io nelle spirali successive degli incisi, delle correzioni, delle attenuazioni, delle subordinate,

Si preparava a capire la vocazione che lo chiamava: la quale non era più quella tentazione nebulosa accennata da Overath, ma già da tempo un appello ripetuto e che ogni volta depositava dentro di lui un peso che già cominciava a prendere forma. Fra non molto avrebbe avuto intero, e pronto anche verso l’esterno, quell’ordine che aveva cominciato a comporsi e ad operare dentro di lui. Giudicava la propria vita e tutti gli avvenimenti in modo diverso da prima, oscillando ancora ma avanzando verso una verità della quale ormai godeva il bene, anche se non conosceva tutta la sostanza e la misura. (p. 613) Succede che sia in queste strette di verifica dell’io con se stesso che il personaggio Aspri acquista una sua ricca dimensone problematica, una profondità e uno spessore che Crocioni e Saluggia (gli attori dei romanzi precedenti) sovrastati e miniaturizzati dal’autore, non hanno; tonalmente sono assoli più mormorati (andantini discorsivi), arresti contemplativi al turbine di accadimenti strampalati che il

racconto infila, gli uni sugli altri (è un aspetto, se vogliamo, hrabaliano). Esiste nel romanzo una storia nascosta sotto quella eclatante di superficie ed è il racconto di un processo di formazione o espansione e riscatto, che non conduce come in tanti romanzi sette-ottocenteschi  all’appaesamento in un consorzio civile ma alla fuga da esso: come ho detto il nomadico Gerolamo non smorza la propria singolarità per integrarsi ma l’esaspera, imbizzarendosi in un crescendo di rivolte,[50] sfuggendo ad una riconoscibilità. Il finale, quindi, non chiude, ma celebra l’enigma di un personaggio in cerca di un’altra sdegnosa e appassionata maschera a cui mescolare i propri connotati.

1.8. Ultime considerazioni e coda

            Quanto detto sin qui ha un’immediata verifica nell’ordine dell’aggettivazione. Nella prosa di Corporale avremo un’accentuazione del carattere intellettuale e mentale dei determinanti aggettivali, in accordo con quanto si è rilevato sopra circa la constante inclinazione discorsivo-saggistica,

forma predeterminata (Co, p. 443) scenario oggettivo… (Co, p. 417) rabbia collettiva e politica (Co, p. 420) allarmismo oggettivizzato sulla Bomba… evidenza di un pensiero critico (Co, p. 420) riconoscimento progressivo e collettivo (Co, p. 445) revisionismo borghese… revisionismo scientifico… (Co, p. 439) un altro sistema fisico (Co, p. 442) intenzione filosofica, prova della forza razionale (MM, p. 8) manifesto produttivistico (Co, p. 493) fatalismo meccanicistico (Co, p. 667

In altri casi sarà il preziosismo estetizzante, vagamente novecentesco, a venire sottolineato dal mastica fonico:”tristezza ondulata, modulata” (p. 909) “costato fetido, gigante, infante (p. 917), “neve rumorosa, un poco rosa“(p. 803). Le varie figure del significante si richiamano ed ecco allora che tra gli aggettivi nascono forti simpatie sonore in forma di allitterazione, paranomasia, annominationes, figure etimologiche false e vere,

… imputridirsi immancabile di ogni dopo (p. 912) introflessione acidula e cieca (p. 909) acre creolina (p. 420) ritroso e orgoglioso,  sgominata, onestamente sgomenta e basta (p. 857) riverso, roverso (p. 860) china intricata, arruffata, fulva (p. 861) muro inattaccabile e incombente (p. 436)

La consistente componente virtuoso-letteraria è un importante tassello del etorodosso mosaico di cui si compone Corporale (ho presenti parti dei puntuti saggi di Mengaldo, La tradizione del Novecento. Quarta serie, Milano, Bollati Boringhieri, 2000 su Morante e Barilli, dedicate all’aggettivazione, pp. 32-34, pp. 147-168, e quelle su Pasolini nella serie mengaldiana del 1991)[2] colpisce, oltre allo spessore sonoro e concettuale delle attribuzioni e la loro abbondanza (a festoni, nell’eccesso che di per sé suggeriscono) nel florido ornato di cui si pavoneggia il discorso, anche la loro risentita singolarità: in gioco ci sono sia la ricerca dell’imprevisto e niente meno che l’idiosincratica inclinazione di Volponi a concretizzare il concettuale nel sensibile o sensuale, da cui le frequenti parestesie, le loro parenti strette le sinestesie, le ipallagi, le catacresi,

… silenzio sferico (alla Magritte, p. 712) silenzio sgranato, soddisfazione perlacea (p. 551) minuziosa infamia (p. 623) una piuma… con il suo soffice bianco (p. 795) odore caldo, odore minuzioso (p. 959) pennellata minuta e lucida di un surrealista (p. 530)un niente sconnesso (p. 843) gelo minuto (p. 843 ) timbro attonito del suono (p. 469).

Nella mobilità dei cozzi all’interno del sintagma l’aggettivo molto spesso scarta con bizzarria ed è forse per questo che Volponi ama a disporre gli aggettivi a coppie raramente sinonimiche, più spesso in forte frizione semantica, sui limiti dell’ossimoro.[51] Si avverte una preferenza solo timida per l’asindeto, che accosta, quasi assimila,

nostalgia informe e struggente, punti baluginanti e vividi (p. 475) tratti delle strade aperti verso il mare, avventurosi e pungenti (p. 478) percorso docile e vertiginoso (p. 520) mare intimo, compiacente (p. 486) inguine fluente, rigato (p. 498) mare intriso, piumato (p. 503)

A parte l’ottocentesco “malinconico ardore, dolce struggimento” (p. 870), gli altri esempi notevoli sono legati alla figuratività[52] dell’autore: callide giunture, spesso fastose,

labbra sbiadite p. 806) biancore opalescente (p. 903).. le labbra gonfie screziate da quella ruggine verde (p. 424) bianco rarefatto (p. 442) viola reclinato (p. 453)Ivana, smaltata di viola…(p. 457) muri arabescati di marrone (p. 479) case sfarinate (p. 490)

Mentre è più raro un modulo fortunato nella prosa d’arte e nella lirica ermetica per la sinteticità allusiva nell’uso della preposizione, come, “quartiere africano … pallido di calce e di immondizie”  (p. 465), che, comunque, ha il merito di mostrare in azione una spinta costante presente nella scrittura di Volponi (come, anche qui, in quella di Pasolini, e poi di Testori), a nobiltare il basso sociale, secondo una dialettica alla fine cristiana tra basso e sublime. In ogni caso preme sempre una tendenza a far prevalere l’elemento qualitativo sulla nuda esposizione dell’oggetto o del dato:[53] lo conferma l’impazzare delle inversioni dell’ordine che nell’ornato della prosa esasperano la prevalenza sulla referenzialità di una soggettività golosa, che introverte e assimila il mondo,

l’atona segatura (p. 420) malinconiche chine (p. 739) con piccolo e duro cuore (p. 792) stentata mansuetudine (p. 893) acre delusione (p. 963) negli occhi arde una profonda, ferina incertezza (p. 886) di bel corpo e d’aggraziata e gentile musoneria (p. 561)

Le inversioni, copiose, al di fuori dei loro impieghi più ironici o parodici, marcano le tratte  emotivamente marcate del recitativo, nella narrazione e nella descrizione. Sono come impuntature del discorso, leggeri inceppi nel flusso che segnalano maggiore pathos, drammaticità, istante privilegiato,

Qualche vermuth succhio dentro casa mia… (p. 565) Ebbi aguzza la curiosità… Ebbi fortissimo il bisogno (p. 510) Sudavo a fiotti sotto la luce solare, in ombra il ventre che consumava il suo amore gelido… (p. 497) Rovesciata come latte o rena sta ed è la città di Urbino (p. 763) corsi a casa che tutto avevo nelle mani e sulle spalle (p. 774) A quest’ora che io vivendo ho scelto, sopra questo luogo unico che per la prima volta vedo (p. 879)

Tuttavia va pure detto che le inversioni partecipano anche alla preferenza di Volponi per una concertazione movimentata della pagina e fanno corpo, spesso, con quei fenomeni di oralità e improvvisazione della parola narrativa, che ho descritto. Sono solidali, dunque, con i continui effetti di sorpresa, ma sono dovuti, inoltre, ad un’accanita ricerca di variazione sintattica, di aritmia nella scansione della frase e del periodo (ora franto, ora fluviale, tra asimmetrie, asme e distensioni non tachicardiche).

            Meno isolate nella loro eccezionalità vivono brevi sequenze descrittive spesso di notevole bellezza quieta, sostenute su di un ritmo di adagio. La finezza di una punteggiatura cauta, l’imperfetto evocativo che ripete la propria durata, gli astratti preziosi e un vocabolario solenne, ma senza essere sontuoso, esprimono, insieme, l’arcano, il mysterium tremendum, di un destino, e la sua, discussa, travolta o schernita, dignità, … il resto annaspava dietro la chiara raggera delle vallate, in un esilio spinto ai lati della nostra corsa, trattenutovi indifferente dalla neglienza della nebbia. (p. 436) Qualcosa sopra riusciva a volare e a farmi sperare: s’imbiancava con dolce purezza, in fondo, tra le plaghe con l’ultimo colore dell’orizzonte; laggiù il mare era colmo dentro se stesso, e mansueto. (p. 493) Guardavo quella terra intorno senza compiacenza, ed essa impallidiva sotto la luna che s’imbiancava, allontanandosi, e la mia durezza e la sua diventavano insieme oblio. (p. 858) Stavano fermi sulle colline, nel riserbo di una cura assidua, i cimiteri di guerra dell’esercito alleato… (p. 494)

Sono isole di quiete all’interno di un romanzo che vive scosso da un’incessante scossa tettonica psico-stilistica, anche autoirridente: la loro ferma compostezza viene, infatti, sbeffeggiata e poi ripresa e di nuovo irrisa, dalle fluttuazioni ciclotimiche dell’io.Nel continuo farsi e disfarsi della parola, nel dire e contraddire, ridire e deridere, del flusso verbale fastoso o dimesso, perplesso o assertivo, policromo e pluristilistico, l’io svicola e mistifica, procede a tentoni dietro incerte tracce. L’esempio che segue, conclusivo, mostra in azione questo costante contrappunto stilistico del romanzo: il, diciamo, cavalcantismo assonanzato, e scattante sui bisillabi, della personificazione viene ripreso e liquidato, dannato o censurato dalla clausola riflessiva, densamente riepilogativa,

Dalla bocca aperta l’anima sgorga piccola e due dita oltre i denti è già alla coda, già sollevata in volo e già partita: lascia un sapore salato, il solito del sangue, l’anima che sbocca, che striscia il velo del suo corpo piccino o sui labbri, che olezza il momento che si stacca e poi riduce in fiele.

Ancora dunque mitizzo e mi divago. (p. 512)

Note

[1]Si citerà dal primo volume delle Opere, Torino, Einaudi, 2002, con introduzione e apparato critico a cura di Emiliano Zinato.

[2] Paolo Volponi, La scrittura eversiva, in «Rinascita»6 ottobre

[3]Le opere (a cura di), Torino, Eianudi, 1992, pp, 234-272

[4] G. Contini, Varianti e altra linguistica, Torino, Einaudi, 1986.

[5] Alla razza dei metatestuali, disseminati ed epigonali, citazionistici e manieristici, Volponi non appartiene per nulla. Per questa, non gracile nè esile, ragione garba al narratore lombardo Antonio Moresco, fendente grossolano di ineleganze memorabili e ruvide, polemiche, nella smorta marea culturale italiana sullo scollinare degli anni Novanta, con i saggi de Il vulcano (Torino, Bollati Boringhieri, 1999), le caustiche ed esaltate prose eterodirette di Lettere a nessuno (Torino, Bollati Boringhieri, 1997), e le più tarde, invasatamente sprofondanti, letture critiche delle prosa Invasione (Milano, Rizzoli, 2002) e Lo sbrego (Milano, Rizzoli, 2005. Accenni a Volponi sono sparsi in una parte più e meno altrove, ma rimane memorabile, e forse una vetta inascoltata, il testa a testa, entrambe forate,  con il romanzo monologante di sproloqui lirici e divelti, visioni, scorticamenti. La macchina mondiale, pubblicato e visibile in rete.

[6]Dei paralleli extraitaliani li possiamo trovare, forse, nel tropical-frondoso romanzo di Lezama Lima, Paraiso (tradotto per tempo dal Saggiatore nel 1975, con introduzione simpatetica di Goytisolo),e negli stupefatti e agri racconti polacchi di quel Bruno Schulz, amico sodale di quel Witold Gombrowicz, autore del cervollotico e bizzarramente geniale romanzo Cosmo che pare uno dei numi tutelari di Corporale. Lo straripamento immaginoso, per nulla weiliano, lo spessore concettoso-analitico,laimpudica esposizione di una carnalità trionfale ma pure scuoiata e artaudiana, permettono di parlare di un romanzo nello stesso tempo, surreale, filosofico e carnevalesco. Ma anche ad una scrittura crudele, si può accennare, secondo la definizione di essa presente negli eccellenti e gonfi saggi pisani di Carlo Pasi, editi da Bollati Boringhieri nel 1997.Quanto ci sia di specificamente emiliano-marchigiano nella predilezione di Volponi per personaggi falòtici lo mostrano le somiglianze geografiche con lirici e narratori come Guerra, Baldini, Celati, Cavazzoni, Malerba (richiamato anche dal volume della compianta Corti  nel 1978- Il viaggio testuale, Torino, Einaudi in un comune paradigma sperimentale, se l’aggettivo ha ancora un suo significativo diversivo nei confronti di un asse paradigmatico-coercitivo in estinzione speciosa). Pure con registi come il Fellini più notturno e lunare e un Elio Petri “operaio”, dal  Volontè stravolto e farneticante, c’è un aria di famiglia. Certo uno stimolo poetico-stategico poteva venire all’autore urbinate anche da molti esempi, di farmakoi  dalla letteratura russa, da lui molto amata, con i suoi “folli di Cristo”, dolcemente e appassionatamente creaturali. Penso al Cechov di Reparto n. 6 e al Gogol’ pietroburghese di Racconto di un pazzo. L’egotismo immaginifico e rancorso degli io-narranti di Volponi può rinviare alla comicità agra dei Ricordi del sottosuolo di Dostojievski, 

[7]Certo un fatto non nuovo nella narrativa italiana se si pensa alle astute macchine di menzogna di Svevo e Pirandello. In generale gli interessi letterari di Volponi volgono spesso verso l’età delle sperimentazioni primonovecentesche, non tanto quelle spettacolari e futuristiche, spesso gigionesche, quanto quelle di timbro più etico-problematico, più in particolare vociano. E si vedrà.

[8] E’ un unicum, prezioso, il volume, di buon gusto delizioso, delibante, di F. La Porta, La nuova narrativa italiana. Travestimenti e stili di fine secolo Torino, Bolllati Borignhieri, 1999

[9]«Corporale» di Paolo Volponi”, in«Paragone-Letteratura», XXVI, ottobre, n. 308

[10]Nella fitta ragnatela intertesuale del romanzo vi è un brano di Kafka, letto nell’edizione mondadoriana, degli atroci, lugubremente divertiti Diari (di una comicità causidica e parodicamente avvocatesca) che può servire da spiegazione dei rischi presenti nell’eccesso di disponibilità, “Se un unico demonio ci possedesse con la tranquilla indisturbata visione di tutta la nostra natura… solo l’alto numero di demoni costituisce la nostra infelicità terrena. Perché non si sterminano a vicenda, che ne resti uno solo, o perchè non si assoggettano ad uno solo, o perché non si assoggettano a uno solo, grandissimo? L’una cosa e l’altra sarebbero conformi al principio demoniaco di ingannarci in modo perfetto, possibilmente” p. 735). In generale la corporalità non integra del romanzo richiama molti luoghi della prosa kafkiana. Il saggio di Alfonso Berardinelli è Il critico senza mestiere, Milano, Il Saggiatore, 1983, la pagina da cui si cita è  p. 432.

[11] “Maestro e amico”: Volponi attraverso Pasolini, «Studi Pasoliniani», 2008, n. 2, pp. 23-35.

[12]P.P. Pasolini , Descrizioni di descrizioni, Torino, Einaudi, p.328, prima in Quel pazzo di Volponi non sa rinunciare a niente, «Tempo illustrato», 13, marzo 1974.

[13]Ho presenti le osservazioni di Volponi stesso nei paperoles della stesura quando parla di un romanzo “senza dimensione”, di un personaggio che vive in una totalità andata in frantumi.

[14] G. Guglielmi, Il romanzo centrale di Volponi in Miscellanea di studi in onore di Claudio Varese, a cura di G. Cerboni Baiardi, Vecchiarelli, Università degli studi di Urbino, pp. 439-446, E. Zinato, Volponi, Palermo, Palumbo, 2001, p. 148.

[15]P. V. Mengaldo, Storia della lingua italiana. Il Novecento, Bologna, Il Mulino, 1994, p. 356.

[16]Come è stato detto di Raboni anche l’impegno di Volponi “si coagula spesso attorno ad episodi di repressione e onnipotenza poliziesca del potere” (P. V. Mengaldo, I poeti italiani del Novecento, Milano, Mondadori, 1978, p. 987). Scontri e pestaggi, violenze sono frequenti, nella feroce sarabanda, danzante e pirotecnica, che esegue la narrazione barbara.

[17]Questa caratteristica lo accomuna alle narrazioni di Roversi, Leonetti, Ottieri, ma anche alla lirica di Pagliarani e Fortini. In Corporale la quantità di materiali scritti è una congerie con cui l’io narrante si confronta e di cui metabolizza e deforma le parole.

[18]Ecco alcune citazioni significative, “Un ricovero in manicomio complicherebbe le cose per tutti… È un lucidissimo esaltato, non sprovvisto né di logica né di cultura. È ideologicamente un passionale, un prodotto di altri tempi… (p. 712), “Tu non sei un delinquente e nemmeno un rivoluzionario; tanto meno un matto sei un grande disturbatore. Noi, e tu sai perché dico noi, potremmo accusarti con preciso diritto e farti incarcerare come delinquente rissoso e violento. Oppure potremmo emarginarti come rivoluzionario ribelle e toglierti famiglia, casa e scuola… Ma tu non sei un delinquente, né un rivoluzionario attentatore, né un matto… Sei soltanto un disturbatore.” (p. 722)

[19]Bastino queste parole dell’autore per illustrare il suo scetticismo (simile a quello di Franco Fortini) verso le scienze positivistiche: “Sociologia e psicologia mancano di utopia: hanno certo avuto una funzione critica, ma non hanno costruito come le altre scienze. Se hanno costruito lo hanno fatto per ribadire i termini della società esistente, oppure hanno liberato solo in senso individuale e non globale, e sempre verso l’integrazione, sempre per curare delle malattie e ristabilire la pubblica salute e la generale quiete.” (nel volume delle opere complete, citate, a p. 1031)

[20]Su questa linea leggerei l’occasionale letterarietà di movenze sintattiche legata all’assunzione di una prospettiva d’eroismo avventuroso e adolescenziale che fa tutt’uno con le ansie epiche del protagonista da cucciolo “… mi si gonfiava il petto, ritto il ciuffo dei capelli, belli i miei abiti, altero il mio sguardo, felice io mentre io mi accingevo a quella meravigliosa abiezione, più alta la mia lingua e limpide le mie mani” (p. 463) “… come veniva a scuola a Novara, scendendo giù dal Simplon, già bagnate le lane materne ad Alagna e già scuro di sudore il volto a Romagnano… ” (p. 465) Su tutte le avventure picaresche e favolose del passato dell’io narrante s’avverte l’influenza del Il Grande Meaulnes di Alain Fournier.

[21]Nel parlato del romanzo troviamo reperti occasionali di italiano da immigrati, “Egli ha sapone. Tu stare fermo. Indifferente“ (p. 431). Partecipano al pasticcio anche numerosi frammenti in lingue straniere, in enunciati mistilingui come “avanti les ètoiles” (p. 432), “guardare fuori quella noche azullina” (p. 569), ispanismi veri e propi “El pobre campesino… anche la sua nostalgia è del señor padrone” (p. 590) ” Canto a modo mio caminito”, “Bueno bueno,” (p. 914), abbinamenti acronici tra greco antico ed inglese, “Panta rei goodbye goodbye” , a cui s’aggiungono relitti di latino classico liturgico o maccheronico “Et in Atlandide ego” (p. 518) ”Serena ratio beatitudo nobiliare” (p. 644) “numquam initiativa” (p. 689) “ergates faber” “baffo, baffonis” “m’inebbriava di sanguinem e di spigo” (p. 541) “saecula saeculorum” (p. 645). Nel gioco delle lingue un ritaglio di giornale può essere citato nell’originale “Le gamin chantait “Atomic bomb” pour “O Tannebuam” (mon beau sapin)- Millwaukee (Wisconsin). A les enfants d’une école maternelle de Washingtn répétaient hier “Tannebuam, O Tannemaub” (“Mon beau sapin) le célèbre chant de Noel alleman Dans le chouer, un bambian de six ans chantais à tue-ttet: “Atomic-bomb, O Atomic bomb”. Il ètait persuadé que les bonnes paroles… (p. 435).

[22]Un caso di regionalismo o di dialettalismo chiosato lo si trova a p. 487 “I capelli raccolti nella cruna, si dice da noi”.

[23]Vengono in mente le riflessioni di Meneghello in Libera nos a malo e le avventure dialettali di un poeta come Zanzotto, anche lui molto legato al paesaggio natale, alla sua bucolica Arcadia minacciata.

[24]Come in molta lirica dialettale moderna e contemporanea lontana dal quadretto paesano e dal pascolismo epigonale.

[25]Per la descrizione di questo registro mi baso sulle considerazioni dei saggi citati nelle note precenti di Coletti (1989) Testa (1997) Mengaldo (1994).

[26]“Via, dissi, vigliaccone impostore, cane da pelliccia, ipocrita lardone. Fuori vecchio merdolon bizzocco, servitore, fante di coppe, guardia, secondino, stronzone, merdone. Bamboccio, sbribellone, parassita, pecora, pecorone. Vacca, vaccone, vescica, vescicone, sciarpone littorio, cagata zoccolone.” (p. 557)

[27]Franco Fortini, Breve Secondo Novecento, Lecce, Manni 1988, p. 111.

[28]Per le ambientazioni in notturna, nights e bordelli, il noir americano e francese (Duvivier e Dassin, Melville, ma anche Aldrich, Lang, Welles, e i minori del genere): non è un caso che l’invenzione di Murieta della seconda parte nasca in una sala cinematografica (e spesso vi ci si nasconde, come in molti Hitchcocks).

[29]La tradizione del Novecento. Terza Serie, Torino, Einaudi, 1991, p. 111.

[30]Enrico Testa, Lo stile semplice, Torino, Einaudi, 1997, p. 33.

[31]Che può occasionalmente essere adesione al pregrammaticale e all’interiettivo, “Non soffrii niente ed ebbi aguzza la curiosità di andare a vedere, di acquattarmi accanto a loro; e feci divesi passi in quella direzione, tutto stirato e frenetico. Ih Ih ihi hihih sorridevo, Iho iho iho Ohi Hohi Ohi Ohi ridevo e sghignazzavo… Ma la maglia mi pressò il cuore, il gran gomitolo tra le costole e la cintura: Hoiohiohiohiohioooih ohi ohe” (Co, p. 483- 4).

[32]Franco Moretti, Opere mondo, Torino, Einaudi, 1994, p.145

[33]Chi scrive rintraccia frequenti casi di segmentazione nominale, verbi non coniugati, atomi olofrastici, “Anche la presenza di quella giovane bruna.”; “Sopra il caco la mia finestra di vetro e di piombo scintilla alla luce che la prende di traverso… Vigilante, sulla fronte compatta di un insetto enorme. Vigilante. Gasteropodo. (p. 753) “Appena arrivato sulla spiaggia la prima sera, quando i bambini vollero farmi vedere il loro posto… ” ( p. 444)

[34]Nei fenomeni che indicherò si tocca con mano l’influenza di Clemente Rebora e Giovanni Boine (non solo dei Frantumi anche de Il peccato) motivata da una comune passione etica, da insofferenza, esasperata e passionale, verso ogni forma di tiepido conformismo.

[35]In alcuni casi succede, infatti, che queste suffissazioni si addensino con particolari intenzioni stilizzanti. Ad esempio , “pelliciette” , “zoppetta”, “alberello”, “femminella” ,“manine”, “latticello”, “medaglioncino”, “ brunetta”, “borsettine”, affiorano tra p. 588 e p. 590 nell’ episodio dell’incontro con una prostituta della periferia milanese. Entra in gioco la pietà verso gli umili, la tenerezza creaturale di Volponi. E, perché no?, anche un sospetto di leziosaggine.

[36]Nel volume monografico di Ferretti, pubblicato nel 1972, preceduto da una sobria intervista, all’autore, immerso nella stesura del romanzo del quale ci occupiamo. La pagina nella quale compaiono le parole citate è la nona dell’edizione della Nuova Italia.

[37]V. Coletti. Italiano d’autore. Saggi di lingua e letteratura del Novecento, Genova, Marietti, p. 126. Le osservazioni dell’autore sono portate sulla lingua della prosa di Boine.

[38]Seguendo queste indicazioni alle stesse motivazioni sarà dato ricondurre l’invenzione balzana di un vocabolario della lingua pura in cui la mania classificatoria del narratore racchiude gli arbitrari materiali associativi delle sue mitologie personali, in lemmi chiave della sua vita interiore, della sua fantasticante psiche, ”Il vocabolario della lingua pura comincia da Garibaldi. Garibaldi: giovane senz’arte né parte, fuggito da casa… Seconda parola, selve: strada che inizia dove inizia la mia vita. È davvero del ’30, a strati di breccia, a cunette di mattone, e fosse spinose. Ha tutte le curve che ho avuto io e conserva – subisce- buche ormai irreparabili: se le ricoprite di ghiaia, ogni ruota ne scaccerà un po’ e anche il vento riuscirà a soffiarglielo via.” ( tra p. 819 e p. 829).

[39]Guglielmi nel volume miscellaneo curato da Baiardi nel 2001, citato più sopra, la p. è la 444.

[40]G. C. Roscioni, La Disarmonia prestabilita, Torino, Einaudi.

[41]E l’elogio ammonitorio della precisione (ci si ricordi del binomio anima ed esattezza musiliano) fatto al figlio potrà servire come traccia emeneutica “Esigevo che fossero precisi, pretendevo da loro quella cadenza unica e convinta nell’ordine della giornata che io non avevo più da tempo. Predicavo che il giusto era innanzitutto l’esattezza e che l’unico peccato era l’imprecisione. Concludevo con rancore e con un’esagerazione che esasperava ancora di più tale rancore, che la precisione, intesa come rispetto del tempo e delle cose, decide fra essere e non essere.” ( p. 513)

[41]Il romanzo in questo frangente si trova a mezza via tra l’impiego serio di Pasolini e quello perplesso-ironico, garbatamente allontanante, di Sereni ne Gli strumenti umani.

[42]Che infatti osserva come “alcuni critici, nella loro completa adesione all’ottica corporale, cumulativa, spropositata e senza prospettive di Gerolamo Aspri, abbiano finito per dimenticare e sottovalutare la presenza e il ruolo di quel rompicoglioni giudicante di Overtah”  (p. 211)

[43]Nelle osservazioni che vado svolgendo ho presente spunti del bel saggio di Luciano Zagari su Die Blendung (accecamento, ma tradotto Auto da fé) di Elias Canetti, contenuto nel volume curato dal grande germanista Baioni nel  1973, (Il romanzo tedesco del Novecento, Torino, Einaudi, pp. 314- 332.

[44]È palazzeschiano lo svuotamento dei significati attraverso filastrocche idiotizzanti come “denunciare additando e deridendo le solite immaturità, ignoranza, presunzione, ambizione, identificazione, megalaomania, paranoia e non so se per far la rima o per rafforzare il tutto… : parafrenia… , tu non esci mai dalla patologia!” (p. 852)

[45]Ho presente sia il saggio di Manzotti nell’introduzione all’einaudiana La Cognizione del dolore nell’edizione del 1987, tra la p. 5 e la p.73, sia l’impeccabile Muzzioli nella prefazione a Il Serpente di Luigi Malerba, questo nell’edizione mondadoriana del 2002, tra le p. 5 e 12.

[46]Paul Pedroni, The Quest for Self-Fulfillment in Paolo’s Fiction, «Canadian Journal of Italian Studies», 33, 1986

[47]Trattasi del processo di autoriflessione all’autore, che nella ferma perentorietà nel fissare i linenamenti di una nevrosi, si sdoppia in analizzante e analizzato. [1]“Ogni confessione è una perdita” dice ad un certo punto il protagonista e sarebbe da vedere quanto questo pensiero non determini mediandole le tecniche di scrittura dell’io nell’intera produzione di Volponi. Alcuni spunti sull’autotrascendimento delle pulsioni e sull’oggettivazione esorcistica tramite la mimesi della scrittura altrui mi riprometto di svolgerli nelle conclusioni

[48]Utilizzando le categorie di Ferrucci (Franco, L’assedio e il ritorno, Milano, Mondadori 1989) l’assedio riassume l’atteggiamento di Saluggia e Crocioni nei confornti del mondo (e in questo senso sono kafkiani, fratelli dell’agrimensore K nel cercare asilo e riconoscimento, o semplicemnte una normalità non coatta, seguendo Arendt), la tensione al ritorno contraddistingue Aspri per cui ritornare è come andare ancora più avanti. Tutti comunque sono “senza casa” usando le belle osservazioni di Milanini (L’utopia discontinua, Milano, Garzanti, p.1990) sui più grigiastri o convoluti protagonisti di Calvino.

[49]La tradizione del Novecento. Terza serie, Torino,  Einaudi.

[50]“Meravigliosa abiezione” è un caso indice del genettiano piacere della degradazione ma anche scoperta del sublime nel basso.

[51] “Il petto intorno al torace era tumefatto, ferito in più punti; un grande taglio scuro univa i due capezzoli. Quella ferita dava a tutto il corpo un senso femminile, e mi piegai molto in avanti per vederla meglio: fui preso dall’orrore e temetti di cadere sopra. Mi decisi a guardare il morto in faccia: il suo volto terreo e gonfio, sopratutto intorno agli zigomi e al naso, con le labbra che cadevano dentro la bocca distorta. Ma gli occhi erano belli, lunghi e assottigliati, e belle le ciglia, lisciate fin quasi agli orecchi;” (p. 510)

[52]Lo confermano moduli come “… il lucore della cera le risaliva fino al ginocchio” , e il giro aggettivale degli infiniti sostantivati “… nel reclinare di ogni cosa” (Co, p. 532) “… l’inutilità del mio farneticare e del mio sperare era ormai dilagata.” (p. 543) “… questo ronzare di morte e di segnali… il crepitare di un nugolo di farfalle migratrici.” (p. 590) “… il cigolare delle lampade dell’illuminazione pubblica… e il trascorrere sopra gli altri tetti dei traporti notturni… ” (p. 543)

BIBLIOGRAFIA PRIMARIA

 SCRITTI DI VOLPONI

Gran parte del lavoro di schedatura precede cronologicamente l’edizione dei tre volumi

Poesie e poemetti 1946-66, Torino, Einaudi, 1980.

Con testo a fronte, Torino, Einaudi, 1986.

Nel silenzio campale, Manni, Lecce, 1990.

Memoriale, Torino, Einaudi, 1991.

La macchina mondiale, Torino, Einaudi, 1975.

Il Sipario Ducale, Torino, Einaudi, 1982

Il pianeta irritabile, Torino, Einaudi, 1994.

Il lanciatore di giavellotto, Torino, Einaudi, 1981.

Le mosche del capitale, Torino, Einaudi, 1989.

La strada per Roma, Torino, Einaudi, 1992.

Volponi 1967: Paolo V., La scrittura eversiva, in «Rinascita»6 ottobre

Leonetti-Volponi 1995: Francesco L., Paolo V., Il leone e la volpe, Torino, Einaudi

SCRITTI SU VOLPONI

BIBLIOGRAFIA SECONDARIA

Adorno 1979: Theodor Wisegund A., Note per la letteratura 1943-1961, Torino, Einaudi

Amoroso 1983: Giuseppe A., Narrativa italiana 1975-1983, Milano, Mursia

Asor Rosa 1962. Alberto A. R., Il memoriale di Volponi, «Mondo nuovo», 20 maggio

Baioni 1973: Giuliano B. (a cura di), Il romanzo tedesco del Novecento, Torino, Einaudi

Baldacci 1965: Luigi B., «La Macchina Mondiale», «Epoca» 30 maggio

Baldacci 1997: Luigi B., Tozzi moderno, Torino, Einaudi

Baldise 1982: Emilio B., Invito alla lettura di Volponi, Milano, Mursia

Baldelli 1988: Ignazio B., Conti, glosse e Riscritture, Napoli, Morano

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In copertina Paolo Volponi, foto da wikipedia

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