Marco Sbrana ha diciotto anni ed è studente di liceo

P. P. Pasolini: l’ossimoro vivente

Di Marco Sbrana

Al solo udire, vagamente, il nome di Pier Paolo Pasolini, come reagirebbe un italiano nel contesto dell’età della tecnica? Un mondo rapido, tanto rapido che di esso sfugge l’essenza. Un mondo di interazioni costanti e costanti connessioni. Un bar affollato della Milano bene. Spritz Campari e Negroni. D’un tratto a un festaiolo, il cuore rigonfio, balza alla memoria la figura di quell’intellettuale dalla vocina sottile, che pareva sempre emettere sussurri, e dice: “Ma voi che ne pensate di Pier Paolo Pasolini?”.

Notando, successivamente alla sua impropria uscita, un generale silenzio imbarazzato, il festaiolo – memore, forse, di certi romanzi ormai mainstream quali Ragazzi di vita o Una vita violenta che, forse, ha letto con nonchalance in quinta superiore – si ritrova ad affrontare un’onnicomprensiva aridità, che non lo induce, tuttavia, a tacciare di stupidità la sua intraprendenza; lo spinge a tacere onde evitare di essere malvisto dalla cricca, eppure la domanda resta aleggiante, ora egoriferita: “Ma cosa ne penso di Pier Paolo Pasolini?”

Pasolini (ironia: è anticonformista anche da morto) non rientra di sovente nei programmi dei licei italiani. Spesso, nel maggio precedente all’esame di stato, di Pasolini si riferiscono tratti generali, abbozzi, sparuti ed incostanti sprazzi di poesie. Ma poco, troppo, troppo poco perché negli studenti si generi anche solo l’embrione di un’opinione concernente uno dei più grandi intellettuali del nostro Novecento.

“Cosa ne penso di Pasolini?” si chiede il festaiolo, e non sa darsi risposta. Muto.

Di tale mutismo consequenziale si potrebbero dare varie spiegazioni.

Un italiano dell’età della tecnica ha senz’altro in mente la morte di Pasolini, la tragedia del 2 novembre 1975, che fece tanto parlare i giornali, giacché il grande poeta stava giusto accingendosi a terminare il suo romanzo Petrolio, pubblicato incompiuto e in seguito alla morte dell’autore. Ma, se andiamo a fondo, vi è un dato ben più certo: un italiano dell’età della tecnica conosce con grande esattezza i gusti sessuali di Pier Paolo Pasolini. E tanto basta per dare aria alla bocca.

Ironie a parte, è innegabile che il lascito di Pasolini sia una perla per porci.

Donato Di Poce, dopo 40 anni di studi forsennati e dopo 3 anni di stesura e di editing, ha di recente dato alle stampe P. P. Pasolini: l’ossimoro vivente. Suggestivo fin dal titolo, il saggio si rivela una straordinaria opera di critica letteraria nella quale è implicita un’idea ben precisa: evitare di associare Pasolini agli scandali (la pederastia, la morte ecc.) per concentrarsi maggiormente su un’altra domanda, ben più importante nel momento in cui si cerca di definire il profilo di una grande figura intellettuale, ovverosia: “Cos’ha detto Pasolini?”, e dunque: “Cos’ha scritto Pasolini?”, e consequenzialmente: “Cos’ha messo in scena Pasolini?”

Lodevole è la scelta di Di Poce di concentrarsi sui componimenti poetici di Pasolini, a tal punto da riportarne certuni per intero. Solo così – sembra dirci, fra le righe, l’autore – si può rispondere alla domanda del festaiolo tecnicizzato: leggendo, ascoltando e guardando Pasolini.

Ne consegue una densa opera che scava all’interno, fin nel profondo, della produzione letteraria e cinematografica del grande intellettuale.

È forse agli Scritti Corsari che dobbiamo alcune delle più lucide disamine della seconda metà del Novecento. È forse a film come Salò, Accattone e Porcile che dobbiamo uno dei più potenti sguardi dell’intera storia della Settima Arte. Era, il Pasolini regista, più che un cineasta; letteralmente agli antipodi rispetto alle modalità di realizzazione cinematografiche tipiche dell’America, Pasolini sfrutta il cinema inizialmente convinto che con esso si possa fare letteratura. Avvedutosi, in seguito, della complessità della cinepresa, capirà che il Cinema (quello con la “C” gargantuesca come le sue pellicole) è un linguaggio, e se ne innamorerà perdutamente. (Celebre è l’intervista a Carmelo Bene, allievo in certo qual modo di Pasolini, ma in seguito detrattore non solo del Pasolini-regista, bensì del cinema in toto, pure avendo alle spalle film grandiosi come Un Amleto di meno.)

L’ultima intervista di Pasolini (per un giornale francese), vista oggi possiede un’aura malinconica. Ma ben più importante di questa nostalgia sentimentalista, è quello che Pasolini dice nell’intervista. Parafrasando: “Scandalizzare è un diritto; essere scandalizzati è un piacere e chi non ama essere scandalizzato, è un moralista”. E quale modo migliore di scandalizzare che mettere in scena un teatro degli orrori fascisti come Salò? Merito di Di Poce è il seguente: analizzare a fondo la necessità pasoliniana di scandalizzare. L’autore del saggio ci rende edotti: tale esigenza di Pasolini non era il sintomo di un animo provocatore fine a se stesso; Pasolini, con Salò, ci ha sbattuto in faccia, con violenza, gli orrori in cui l’Italia stava andando incontro.

Vi sono poi i grandi romanzi di Pasolini, come, ad esempio, l’indimenticabile Ragazzi di vita che, a mio avviso, prima ancora di essere un romanzo e dunque una storia fittizia, è una straziante testimonianza di una realtà ben presente ai tempi: quella delle sozze borgate romane, quella delle gioventù bruciate, quella della povertà.

Da riconoscere a Di Poce è, senz’ombra di dubbio, la dedizione con cui ci ha messo a confronto diretto con le poesie di Pier Paolo Pasolini. A distanza di decenni, esse pulsano ancora quella che Di Poce chiama con cognizione di causa: “disperata vitalità”. Ed è qui che si giunge al perfetto titolo che l’autore ha scelto di affibbiare alla sua opera: “l’ossimoro vivente”. Studiosi ed esperti, nel corso degli anni, si sono limitati, circa Pasolini, al gossip da quattro soldi; compito che si prefigge Di Poce è quello di andare in profondità dove gli altri si sono limitati (anti-pasolinianamente) a sterili etichette quali “pederasta”.

Chi era Pasolini? Pier Paolo Pasolini era un uomo. Di sovente il suo tormento interiore – poi riversato necessariamente nelle sue opere letterarie – è stato trascurato; nel saggio, Di Poce è netto e analitico: Pasolini è stato un uomo in contrasto con la natura e il mondo e la società. Con i mezzi suoi congeniali, voleva cambiare l’Italia sempre più borghese e sempre più vicina al decadimento consumista che stiamo vivendo oggi. Pasolini è stato un corsaro in conflitto con un mondo che non l’ha perdonato, ma che l’ha escluso. Leggere Pasolini, dunque, significa leggere di solitudini, di rabbie: Pasolini era “fratello dei cani”, citando la sua celebre poesia. Ma chi ha interpretato il suo plurilinguismo come sterile esercizio di stile, ha finito per trascurare la frammentazione e il dolore di un uomo.

Dopo una vera, e quindi crudele, introduzione, Donato Di Poce passa ai saggi critici. Leggendo il suo scritto, lampante mi è apparso il suo amore incondizionato per Pasolini. Di cui esamina la poesia giovanile, la poesia dialettale, la poesia friulana. Uomo contraddittorio, Pasolini è riuscito nell’impresa di coniugare il dialetto alla lingua di Dante. Fanciullesco ed esile, preziose sono le testimonianze dei suoi amici (che Di Poce riporta), tra le quali spicca quella di Walter Biarzatti (pagina 31): Pasolini giocava a calcio e definiva tale gioco come “l’ultima rappresentazione sacra”.

Ostracizzato e interiormente dilaniato, Pasolini si impone nel panorama letterario novecentesco col suo capolavoro poetico: Le ceneri di Gramsci. Di Poce, nel trattare la raccolta, è molto acuto: sottolinea il coraggio di PPP, che è riuscito in un’impresa incredibile: coniugare temi politici, temi sociali e temi individuali (la morte, la solitudine ecc.) con una metrica che l’Italia dava per vinta, superata: la terzina dantesca. Basterebbe Le ceneri di Gramsci, ci dice Di Poce, per annoverare Pasolini tra i più grandi poeti italiani.

Altre contraddizioni del suo genio tormentato sono espresse pienamente ne L’Usignolo della Chiesa Cattolica (Pasolini era in tensione, sempre sospeso: marxista, pure rincorreva il cattolicesimo; nonostante ciò, si dichiarava anticlericale) e in Poesia in forma di rosa, dove il simbolo del fiore assume tutta la sua valenza ossimorica, giacché incarna la vita e la morte, il tempo e l’eternità.

Spunti interessanti anche quando Di Poce parla di Trasumanar e organizzar: “Ancora una volta l’ossimoro vivente che è in lui, il senso del Doppio e del Rebis (una costante in Pasolini) riemerge e se da una parte mette in atto il tentativo estremo di una Sineciosi della diaspora, dall’altra opera una sorta di destrutturazione processuale della scrittura. Insomma la bestia da stile che è in lui opera il cannibalismo di forme e stili per fagocitare la realtà e il sogno, la nostalgia e la visione futura”.

Sono personalmente rimasto stupito dall’associazione Leopardi-Pasolini. Di Poce ci fa notare le comunanze, ossia la critica antiprogressista nella prospettiva di un mondo sempre più privato del Sacro, e le discordanze: dacché nel pessimismo cosmico leopardiano abbiamo una natura maligna, in Pasolini si assiste a un virgiliano idillio naturale, ossia il Friuli.

Attento è, poi, Di Poce nel sottolineare il coraggio di Pasolini nell’approccio al romanzo Ragazzi di vita. In esso è contenuto tutto l’impegno sociale del grande poeta: che assume il dialetto romano come lingua parlata da tutti i personaggi che fanno comparsa nel libro, dimodoché Pasolini, poeta anche degli ultimi, dà voce a chi voce non ha mai avuto.

L’autore del saggio, dopo aver esaminato con accortezza Petrolio, il romanzo postumo e incompleto di Pier Paolo Pasolini, evidenziate le mancanze e l’importanza semantica che ha avuto la storia biforcata del protagonista dell’opera, che si scinde letteralmente in due individualità differenti, passa ad analizzare il Pasolini-regista, che gode della mia più grande ammirazione.

Sulle nobili orme del Neorealismo di De Sica, Pasolini dirige 12 lungometraggi, 4 film a episodi e 4 documentari (il cui più celebre è Comizi d’amore), facendosi portavoce di un Ermetismo che si pone – come, del resto, tutta la corrente cinematografica – l’obiettivo di rappresentare la realtà attraverso la realtà, senza filtri: dunque nasce quel capolavoro di Accattone. Protagonista della pellicola è un sensazionale Franco Citti che, nel 1994, durante il Maurizio Costanzo Show con ospite il già citato Carmelo Bene, si riferirà a Pasolini associandolo a CB: “Lui (Pasolini) era un puro”. La purezza pasoliniana appare evidente nell’impiego della macchina a mano e nell’utilizzo delle luci naturali: puro Neorealismo, che sarebbe stato ripreso, decenni dopo, dal Dogma di Lars Von Trier. Per un Cinema che fosse puro, diretto, reale, Pasolini arrivò, comunque, a lavorare con personalità di spicco della Settima Arte, come Ennio Morricone e Totò, rispettivamente compositore della colonna sonora e attore del grande Uccellacci e uccellini.

Leggere P. P. Pasolini: l’ossimoro vivente è un favore che si fa a se stessi e che ci permette di rispondere alla domanda del festaiolo dell’età della tecnica. Letto il meraviglioso saggio di Donato Di Poce, il festaiolo potrà rispondere alla domanda: “Cosa ne penso di Pasolini?”, e necessariamente avrà difficoltà ad esprimere un giudizio netto, tanto poliedrico e sfumato appare il ritratto di Pasolini nel saggio.

Tormenti, solitudine, volontà inappagabili… Pasolini è prima di tutto un uomo, e quindi contenitore di contraddizioni, sempre alla ricerca del modo giusto per raccontare un’Italia allo sbaraglio.

Per chi desidera cercare, molto è da trovare riguardo a Pasolini: il suo fervente antifascismo; il suo libro Il fascismo degli antifascisti (più che mai attuale); la sua espulsione dal PCI; il suo grande cinema profetico e scandalizzante; le sue poesie sfaccettate, dialettali, in terzine, politiche ma anche esistenziali e i suoi immortali romanzi.

Il merito più grande – lo ripeto – di Di Poce trascende l’analisi pure dettagliatissima delle intenzioni di Pasolini. Il suo saggio, oltre che proporre una nuova chiave di lettura della visione del mondo pasoliniana, fa un favore a chiunque lo legga per il puro fatto di esporre in bella vista i componimenti del poeta. Essi, puri e sporchi a un tempo, parlano ancora, e Di Poce è riuscito a farci addentrare nel mondo di uno dei più attenti geni della storia nostrana.

Tanto ha ancora da dire Pasolini. Viviamo in un mondo di contraddizioni. Viviamo nel consumo di cui ci parla Bauman, una società dove i consumatori finiscono per essere consumati dai loro stessi possedimenti. Viviamo in un mondo velocissimo e dove tutto ha sempre meno importanza: proprio per tale celerità, non riusciamo a cogliere nulla che valga la pena di essere narrato. Pasolini, analogamente a poeti come Ezra Pound (pure politicamente opposto a Pasolini) o T.S. Eliot, può diventare un antidoto contro un virus molto peggiore del Covid: una società in frantumi, una società di aridità secca e crudele, una società – per citare Pound – di “involucri vuoti”.

Per quanto mi riguarda, leggere la disperata vitalità di Pasolini mi è necessario per sopravvivere alla quotidianità di un mondo così problematico. Immersi in una Waste Land, senza più valori, abbiamo assistito alla morte di Dio, ma ancora siamo cammelli nietzschiani sotto il peso del nichilismo; Pasolini, corsaro, deve essere letto per superare le celeberrime metamorfosi di Nietzsche, arrivando all’auspicata potenza creatrice. E la creazione dev’essere quella di una società con dei valori. Ma, giacché il passato è l’unica e universale critica del presente, il modo migliore per sopravvivere a questo millennio è visionare tutta intera la filmografia di Pasolini, leggere i suoi romanzi e commuoversi davanti al lascito di un “fratello dei cani” perfettamente delineato da Di Poce.

P.P.Pasolini: Lossimoro vivente, Donato di Poce, I Quaderni del Bardo Editore, Lecce, 2021

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