Roberto Cocchis, classe 1964, nato a Bari, cresciuto a Napoli, oggi residente nel Casertano dopo aver trascorso molti anni nel Nord Italia. Diversi lavori svolti nella vita, attualmente insegnante di ruolo nel licei. Redattore di Redattore di Vanilla Magazine e di Cronache Letterarie, estensore del blog L'angolo giallo, autore di diverse opere narrative, uscite in gran parte con la Placebook Publishing".

Storia di Luigi Balzan

Di Roberto Cocchis

Tra il 1861 e il 1915, circa 9 milioni di italiani emigrarono all’estero, soprattutto nelle Americhe. L’Unità d’Italia aveva forse risolto i problemi delle classi dirigenti, ma non certo quelli di chi non possedeva nulla e doveva guadagnarsi da vivere ogni giorno. La legislazione nazionale avrebbe impiegato decenni ad affrontare i tanti soprusi di cui erano vittime i lavoratori da parte di latifondisti, industriali e affaristi di ogni genere, e lo avrebbe fatto sempre con molta titubanza, al punto che solo nel 1970, con lo “Statuto dei Lavoratori”, la situazione si sarebbe in qualche modo equilibrata.

Benché la miseria fosse concentrata soprattutto al Sud, le prime ondate migratorie partirono dal Nord e in particolare dal Nord-Est: un terzo degli emigranti complessivi provenivano dal Veneto e dal Friuli, dove gran parte della forza-lavoro era impiegata nel settore primario, ossia nell’agricoltura, e doveva sottostare a contratti di lavoro che ne autorizzavano, di fatto, ogni sfruttamento.

Uno di questi emigranti, interrogato da un ministro italiano in visita in Brasile (Paese che tra il 1881 e il 1901 ricevette quasi 900.000 italiani), rispose:

“Cosa intende per nazione, signor Ministro? Una massa di infelici? Piantiamo grano, ma non mangiamo pane bianco. Coltiviamo la vite, ma non beviamo il vino. Alleviamo animali, ma non mangiamo carne. Ciò nonostante voi ci consigliate di non abbandonare la nostra Patria. Ma è una Patria la terra dove non si riesce a vivere del proprio lavoro?”

La maggior parte di questi emigranti non aveva nessuna qualificazione professionale, molti erano analfabeti e non pochi si trovarono in condizioni di rimpiangere perfino la miseria che avevano lasciato. In Brasile, spesso, furono impiegati in lavori durissimi in sostituzione degli schiavi, che erano stati liberati da una legge del 1888.

Una piccola parte di questi emigranti, però, era molto ben qualificata professionalmente e partiva perché il sistema produttivo rimaneva comunque arretrato rispetto agli altri Paesi occidentali e non offriva loro quasi nessuna prospettiva per l’avvenire. Il sociologo Marzio Barbagli, nel saggio “Disoccupazione intellettuale e sistema scolastico”, ha raccontato che, già negli anni successivi all’Unità d’Italia, i politecnici nazionali sfornavano un buon numero di ingegneri di ottimo livello. Questi potevano scegliere di specializzarsi o nel campo civile o nel campo industriale. Gli ingegneri civili, che erano la maggior parte, finivano per lo più a lavorare per qualche amministrazione pubblica. Quelli industriali, pur essendo molti di meno, erano spesso costretti a emigrare dalla mancanza di lavoro.

La “fuga dei cervelli”, dunque, non è un fenomeno di oggi. Oggi è diventato semplicemente più facile trasferirsi all’estero per lavoro, grazie al trattato di Schengen e alla Globalizzazione. 

La storia che raccontiamo oggi sta a metà tra quella di un emigrante per necessità e quella di un cervello in fuga. È una storia troppo breve, ma molto significativa, per certi versi esemplificativa e per certi altri unica.

Luigi Balzan. Foto da prolocobadia.it

Luigi Balzan nasce a Badia Polesine, provincia di Rovigo, il 30 gennaio 1865, da una famiglia di facoltosi proprietari terrieri. La fortuna però volta le spalle ai Balzan mentre Luigi va ancora a scuola: nel settembre del 1882, la piena dell’Adige provoca un’alluvione che, pur essendo molto meno grave di quella più nota del 1951, devasta un ampio territorio coltivato, rendendolo inutilizzabile per anni e provocando una grave carestia, le cui conseguenze saranno una forte ondata migratoria verso le Americhe e lo sviluppo di un movimento di contadini, responsabile di diversi scioperi e altre forme di agitazione, passato alla Storia con il nome di “La Boje” e attivo almeno fino al 1885.

I Balzan, per via dell’alluvione, perdono praticamente tutto. I genitori si sforzano comunque di mantenere agli studi i due figli, Luigi ed Eugenio. Entrambi si rivelerannoo ottimi investimenti.

Eugenio, vissuto dal 1874 al 1953, sarà giornalista e poi amministratore del “Corriere della Sera” e riuscirà a mettere insieme una notevole fortuna economica attraverso intelligenti investimenti, soprattutto in Svizzera. Dopo la sua scomparsa, il suo patrimonio sarà impiegato per costituire una “Fondazione Balzan”, analoga alla “Fondazione Nobel”, che conferisce annualmente il “Premio Balzan”, accompagnato da un ricco assegno (attualmente ammonta a circa 700.000 euro, ma con l’obbligo di destinarne metà alla ricerca nel campo in cui si è stati premiati), a chiunque si sia distinto particolarmente in importanti ricerche scientifiche o umanistiche. Ogni 4 anni, un premio analogo viene conferito invece a chi ha svolto un’intensa attività per la pace.

Sicuramente, quando gli eredi di Eugenio Balzan istituirono una sezione del premio per le ricerche scientifiche, pensarono proprio a Luigi, quello zio che non avevano mai potuto conoscere.

Luigi Balzan studia all’università di Padova, Scienze Naturali. Le poche, succinte biografie che si possono trovare datano la sua laurea al 1885 e questo farebbe pensare che in realtà abbia conseguito soltanto la “licenza” (l’equivalente dell’attuale laurea triennale, che si conseguiva dopo due anni e permetteva di insegnare nelle scuole). Tuttavia, Luigi ha comunque la possibilità di essere allievo di un grande maestro, che insegna a Padova proprio in quel periodo: Giovanni Canestrini.
Canestrini, trentino, vissuto dal 1835 al 1900, è uno di quei personaggi che in qualunque altro Paese sarebbero venerati come glorie nazionali, mentre in Italia sono pressoché dimenticati, anche per la scarsa considerazione in cui è stata sempre tenuta la ricerca scientifica da noi. Laureato a Vienna, di cultura cosmopolita, svolse diverse importanti ricerche che gli valsero la considerazione della comunità scientifica internazionale. Alcune di esse furono anche citate nelle opere di Charles Darwin, in particolare in “L’origine dell’Uomo”. Per alcuni anni, tenne anche una regolare corrispondenza con Darwin stesso, ed è il solo scienziato italiano ad aver avuto questo privilegio, insieme al botanico Federico Delpino, vissuto dal 1833 al 1905 (Giuliano Pancaldi, in “Darwin in Italia. Impresa scientifica e frontiere culturali” ha raccontato dei rapporti dello scienziato inglese con i due italiani e delle loro reciproche influenze). Del resto, Canestrini è stato anche uno dei due traduttori della prima edizione italiana di “L’origine delle specie”, pubblicata da Zanichelli nel 1864.

Luigi fa tesoro degli insegnamenti di Canestrini e, in particolare, assorbe dal maestro l’interesse per l’aracnologia, lo studio dei ragni e degli scorpioni, allora ancora in gran parte da conoscere e classificare. Terminati gli studi, nel 1885, anziché aspettare l’occasione propizia, se la va a cercare: fa domanda per andare a lavorare come curatore presso il Museo di Scienze Naturali appena fondato a La Plata, in Argentina; e, appena gli rispondono di sì, si imbarca sulla prima nave in partenza per il Sudamerica.

A La Plata, però, non resta molto, perché gli arriva una nuova offerta di lavoro, per insegnare Scienze nel “Colegio Nacional de Asunción” (oggi “Colegio Nacional de la Capital General Bernardino Caballero”), fondato nel 1877, la più prestigiosa scuola superiore del Paraguay, dove si sono diplomati ben 14 presidenti della nazione sudamericana.

Per Luigi è una grande occasione. Il lavoro gli piace, la paga è buona, il tempo libero per le ricerche è abbastanza e, oltretutto, la zona del Paraguay è ricca di pseudoscorpioni, gli invertebrati di cui ha cominciato a diventare esperto quando era allievo di Canestrini. In pochi anni, pubblica diversi lavori scientifici di rilievo che gli valgono un grande credito presso la comunità scientifica internazionale, come dimostrato dalla stima dei maggiori aracnologi del suo tempo, lo svedese Tamerlan Thorell (1830-1901) e il francese Eugène Simon (1848-1924).

Quano nel 1890 ritorna brevemente in Italia, benché abbia solo 25 anni, non è più un ragazzo partito in cerca di fortuna ma uno scienziato affermato. E ha in mente un progetto clamoroso: tornare in Sudamerica ed esplorarne la regione centrale, in particolare quella boliviana, impervia e mai attraversata in precedenza da spedizioni scientifiche.

Grazie alla stima del presidente Giacomo Doria (1840-1913), ottiene addirittura, caso rarissimo, un finanziamento della Società Geografica Italiana e questo significa che è davvero un’occasione da non perdere. Nemmeno l’insistenza del presidente paraguayano Patricio Escobar, che non vuole privare il Colegio Nacional di uno dei suoi migliori insegnanti, riesce a fargli cambiare idea.

Il viaggio durerà due anni e due mesi e sarà lunghissimo. Parte da Asunción alla fine del 1890 e discende il fiume Paranà fino a Buenos Aires; poi, valicando le Ande, si dirige in Cile, toccando Santiago e poi Valparaiso; da qui, risale in nave la costa pacifica, fino a sbarcare nella parte meridionale del Perù; poi è di nuovo sulle Ande, verso la Bolivia, passando per il lago Titicaca, fino a La Paz; attraversa la Bolivia per intero e una parte della Foresta Amazzonica, fino al Mato Grosso, in Brasile; anche questo territorio vastissimo lo attraversa tutto, fino a tornare in Paraguay e ad Asunción.

Spesso deve arrampicarsi su montagne soggette a movmenti sismici con un equipaggiamento molto rudimentale; attraversa fiumi impetuosi e pieni di pericolose rapide in canoa; incontra ogni genere di animali selvaggi, soprattutto serpenti, e di tribù aborigene che non hanno mai visto prima un uomo bianco.

Infatti, durante questo viaggio, non si limita a raccogliere campioni zoologici, botanici e geologici ma cerca anche di instaurare ogni forma di comunicazione con diverse tribù della foresta amazzonica, delle quali scriverà nelle tante relazioni scientifiche inviate alla Società Geografica Italiana.

Nel 1893 può tornare in Italia. Dona parte della sua collezione al Museo Civico di Storia Naturale di Genova (oggi intitolato al suo mecenate, Giacomo Doria), mentre altri pezzi finiscono a Padova (nella sua università), Firenze e Roma.

Il successo della spedizione è tale che la Società Geografica pensa di finanziargliene un’altra. Ma il destino ha deciso diversamente. Mentre Luigi attraversava la Foresta Amazzonica, una puntura di insetto gli ha trasmesso un’infezione che lo sta debilitando, probabilmente una grave forma di malaria. Mentre cerca di riprendersi con un periodo di riposo a Padova, le sue condizioni si aggravano improvvisamente e il 26 settembre 1893 muore. Non ha ancora 29 anni.

Molto tempo più tardi, il giornalista Arnaldo Fraccaroli (1882-1956), che scrive sul “Corriere della Sera”, probabilmente spinto da Eugenio Balzan, si reca in Paraguay per raccogliere notizie sul soggiorno di Luigi in quella nazione, e scopre che “Don Luìs” ha lasciato una eccellente memoria di sé, i paraguayani lo ricordano con molta stima ed enorme affetto. Fraccaroli decide allora di ricavare, facendosi assistere dal geologo ed esploratore Ardito Desio (1897-2001), un libro dalle relazioni e dalle corrispondenze inviate di Luigi durante il periodo trascorso in Sudamerica: si intitolerà “Viaggio di esplorazione nelle regioni centrali del Sudamerica” e sarà un bestseller dell’anno in cui viene pubblicato, il 1931. Purtroppo, non avrà altre edizioni e oggi si può leggere solo nelle biblioteche che ne custodiscono una copia, perché le poche in vendita usate costano centinaia di euro.

A ricordare Luigi, oltre al busto in bronzo dedicatogli dal Municipio di Badia Polesine e realizzato dallo scultore Angelo Viaro, ci sono i riferimenti al suo nome nella classificazione degli pseudoscorpioni da lui scoperti e il nome di un serpente sudamericano, Atractus balzani, denominato così in suo onore dal primo sistematico che lo descrisse, il belga (ma attivo al British Museum) George Albert Boulenger (1858-1937).