Gianrico Gualtieri è nato a Napoli il 10 febbraio 1962. Dopo aver conseguito la maturità artistica (1979), ha frequentato la Facoltà di Architettura e l'Accademia di Belle Arti. A partire dagli anni '80 avvia una ricerca artistica sulle tecniche della pittura antica, formandosi dapprima alla scuola del '600 italiano e in seguito, alle scuole fiamminga e olandese. Esegue numerose copie e lavori personali, con una predilezione per i generi della natura morta e del paesaggio.

Vanitas : origini, fonti e significati del genere

Di Gianrico Gualtieri

« L’uomo, nato di donna,

breve di giorni e sazio di inquietudine,

come un fiore spunta e avvizzisce,

fugge come l’ombra e mai si ferma. »
(Giobbe 14, 1-2)

I – Le premesse

La morte nasce con l’uomo ed ha sempre costituito, per lui, al tempo stesso una certezza e un mistero ; ma anche, in qualche modo, la pietra di paragone della limitatezza e finitudine del suo esistere nel mondo. La morte come momento della cessazione della vita appare inseparabile dal mutamento, dall’imperfezione e limitatezza alle quali quella stessa vita è soggetta.

Questi elementi sono presenti nelle vaste testimonianze legate alla morte e alla finitudine che abbiamo nella cultura classica : si va dalla leggenda greca, tramandataci da Plinio il Vecchio, sull’origine della pittura come tracciatura dell’ombra di un essere amato destinato alla guerra, dunque al rischio della morte ; alle varie figurazioni, a volte anche non prive di un certo umorismo, come nel tesoro di Boscoreale, nel quale gli scheletri mimano atteggiamenti di persone vive divenendo ornamenti del vasellame d’argento. Tali tracce sono ampie e ricorrenti anche nella letteratura e in molti aspetti delle due civiltà, greca e romana, tanto che si potrebbe senz’altro sviluppare moltissimo in questo senso, e sarebbe anche auspicabile farlo ; ma la vanitas è un tema molto ampio e difficile da definire dal momento che coincide quasi con la stessa condizione umana e dobbiamo, per forza di cose, limitarci ad un aspetto e ad un periodo ben precisi.

Mosaico romano del I sec. d. C. recante la scritta in greco “Gnothi seauton” cioè “conosci te stesso”

In questa breve ricognizione ci occuperemo soprattutto della Vanitas intesa come genere pittorico, analizzandone la formazione nella civiltà cristiana europea, tenendo presente che la nascita del genere è situabile tra il XVI e il XVII secolo.

Nell’Europa cristiana, fin dal Medioevo, la morte ha un’importanza centrale in quanto conseguenza del peccato originale ed espressione della triste condizione dell’uomo dopo la cacciata dall’Eden ; il tema della morte si declina in molte varianti ma resta legato al comune destino degli uomini, qualunque sia la loro condizione e il loro stato sociale : come nell’antichità classica, sia la riflessione che l’immaginario correlati alla morte sono soprattutto un fatto collettivo, anche se ha origine e portata metafisiche. Restando sostanzialmente uno sviluppo, per quanto non privo di suoi immagini e temi creativi e ricchi di fascino, dei contenuti dottrinali di quanto la morte rappresenta nella dottrina cristiana. Nel Medioevo abbiamo una larga diffusione di un genere di opere dette « Ars moriendi », arte di morire, che hanno per oggetto il vivere degnamente secondo i dettami della fede, praticando la virtù e la penitenza e rigettando i vizi e i peccati. Fanno la loro apparizione anche temi come la Danza Macabra e il Trionfo della Morte, che fanno perno su una specularità inversa dell’immaginario della morte rispetto a quello della vita e pongono l’accento sulla giustizia sociale insita nel destino comune a tutti gli uomini.

Rappresentazione medievale di Danza Macabra

II – Fonti scritturali e letterarie

La Vanitas come tema di riflessione prende spesso spunto dalla morte e ne fa talvolta l’oggetto primario del suo discorso, ma la sua estensione è molto maggiore ; potremmo dire che il suo significato ultimo è la realizzazione del fatto che la nostra esistenza e la nostra esperienza del mondo tendono ad ingannarci sulla loro reale consistenza e possono perciò indurci a vivere sulla base di una coscienza illusoria. Se il senso della morte come forma radicale di giustizia anche sociale, come limite ultimo posto dalla nostra condizione umana sia al nostro bene che al nostro male, secondo la nota sentenza di Orazio : « mors ultima linea rerum » era già presente nell’antichità classica, la meditazione viene spinta ancora più oltre da quello che possiamo senz’altro considerare come il testo principale di riferimento della riflessione della Vanitas, l’Ecclesiaste :

« Vanità delle vanità, dice l’Ecclesiaste,
vanità delle vanità, tutto è vanità. »
(Ecclesiaste 1:2)

Questo libro della Scrittura è davvero molto particolare e svolge, con profondità e lucida disperazione, il tema della vanità o inutilità di ogni pretesa umana, di ogni atto, di ogni cosa che avviene « sotto il sole ». Non soltanto l’ineluttabile destino ma anche una sorta di follia e di caos connaturato ai fatti mondani fa sì che ad un occhio consapevole tutto appaia privo di un senso ultimo ; fuorchè temere Dio e osservare i suoi comandamenti, è la conclusione del libro.

Il latino « vanitas » dal quale deriva poi il nostro « vanità » è la traduzione, nella vulgata, dell’originale ebraico « hével », che vale « fumo, vapore, cosa inconsistente ». Non è quindi strana, come potrebbe apparire ad un primo sguardo, l’osservazione di Evagrio Pontico che nota che l’Ecclesiaste corrisponde alla Fisica, cioè dà indicazioni sulla struttura stessa della realtà.

È interessante anche notare che la forma utilizzata di superlativo assoluto, « vanità delle vanità », ha una similitudine nella formula orientale « sunya sunyata », che nel buddismo (VI sec. a. C.) esprime la vacuità ultima di ogni realtà.

Altri luoghi significativi della Scrittura esprimono l’idea della brevità e del carattere effimero della vita dell’uomo e della sua esperienza del mondo con figure letterarie. Così il libro di Giobbe che abbiamo posto come intestazione del presente scritto :

« L’uomo, nato di donna,

breve di giorni e sazio di inquietudine,

come un fiore spunta e avvizzisce,

fugge come l’ombra e mai si ferma. »
(Giobbe 14, 1-2)

L’immagine del paragone della vita dell’uomo a quella dell’erba e ai fiori di campo si trova anche in Isaia (40, 6) :

« Una voce dice: «Grida»

e io rispondo: «Che dovrò gridare?».

Ogni uomo è come l’erba

e tutta la sua gloria è come un fiore del campo. »

Questi ed altri luoghi scritturali, come pure un vasto repertorio di motti e sentenze ereditati dalla tradizione classica, forniranno insieme lo sfondo concettuale e gli spunti occasionali di meditazione e immaginazione al nascente tema della vanitas. Tema che è insieme antico e moderno, quasi interfaccia tra due diverse concezioni del mondo ; ed è legato alla formazione della borghesia europea e a quella del mondo moderno, che come hanno notato acutamente alcuni storici, coincide con la nascita dell’individualismo e della coscienza storica.

Le rappresentazioni che hanno per oggetto la morte – figurata come scheletro, magari alato e con falce, o come teschio e così via – appaiono dapprima come immagini accessorie in polittici religiosi, nel verso di un pannello, integrati in un « discorso » nel quale l’idea della vanitas e della morte s’inseriscono opportunamente per illustrare il senso d’insieme. Poi, con l’apparire dei primi ritratti degli esponenti della nascente borghesia, teschio ed ossa figurano nel verso dei pannelli, a ricordare che ogni successo e fortuna nel mondo hanno comunque per sfondo la condizione umana di vulnerabilità e di morte. È una funzione insieme di monito ma anche di legittimazione : « dal momento che mi comporto bene e sono memore della mia condizione mortale, non c’è niente di male ad arricchirsi e aver successo nel mondo ». In questo processo svolge un ruolo abbastanza importante il protestantesimo, che non a caso avrà moltissimi seguaci tra gli artigiani e gli artisti. Le tesi di fondo della dottrina protestante, in effetti, identificavano lo svolgersi della Storia col volere divino, enfatizzando l’onnipotenza di Dio e minimizzando vedi annullando la libertà umana ; per cui avere successo nel mondo significava fare la volontà di Dio.

Tutto questo concorre alla formazione del genere, particolarmente attiva nei centri protestanti come la città di Leida, che fu anche un importante centro teologico. Nella produzione culturale di vanitas a matrice protestante è particolarmente sottolineato che l’uomo vive in uno stato di peccato dal quale solo la fede e, in definitiva, la volontà di Dio può salvarlo. Di qui un « taglio » particolarmente « disperato » e « desolato » che diventerà poi un tratto caratteristico del pensiero e della mentalità del nord, fino a Kierkegaard e oltre.

In chiusura, è bene ricordare che sulla base e nel rispetto della Scrittura, tutta una tradizione letteraria rinascimentale e poi barocca si è formata, favorita dal sorgere dell’individualismo : l’uomo e con esso la figura dell’artista escono da una condizione meramente collettiva per acquistare gradualmente coscienza della loro esistenza e quindi della loro mortalità. La morte del Medioevo colpiva « tutti » indistintamente, col suo arco, oppure nella Danza Macabra faceva danzare tutti, il vescovo come il falegname. Ma ora sono concretamente io che devo morire, questa specifica individualità che si è formata si è formata anche per sentire maggiormente la sua mortalità con tutto il carico di introspezione e di problematiche morali, sociali e culturali che l’accompagnano.

Con la fine del XVI secolo siamo pronti per l’apparizione del genere, e difatti la prima vanitas autonoma della storia della pittura occidentale è datata 1603.