Adriana Sabato, giornalista, risiede a Belvedere Marittimo. Dopo il liceo classico si è laureata in DAMS Musica all'Università degli Studi di Bologna. Dal 1995 al 2014 ha scritto su La Provincia cosentina e il Quotidiano della Calabria. Gestisce il blog Non solo Belvedere. Ha pubblicato nel mese di marzo 2015 il saggio La musicalità della Divina Commedia, nel 2016 Tre racconti e nel 2017 il saggio Nuove frontiere percettive nel pianoforte di Chopin.

Il dionisismo estatico del Bolero di Maurice Ravel

Di Adriana Sabato

La nostra società si affanna ad accaparrarsi il cibo come avesse bisogno di riempire spazi vuoti.

Spazi vuoti di significato, fogli bianchi sui quali non sa scrivere in quanto non sa offrire risposta, oppure semplice soddisfazione di bisogni primari che prendono il sopravvento in questo frustrante tempo senza tempo?

Non è facile dare risposta.

Di certo il piacere procurato dal cibo si avvicina sempre più fortemente al piacere di lasciarsi andare ad una sensualità lasciva, oscilla dunque fra pulsione e controllo, libertà e repressione: tentazioni forti alle quali nessuno vuole o può sottrarsi. Troppo forte il bisogno di vitalità.

Il 22 novembre del 1928 all’Opéra Garnier di Parigi, andò in scena la prima esecuzione pubblica del Boléro di Maurice Ravel, una musica per balletto destinata a diventare una delle composizioni musicali più famose, studiate e citate del Novecento.

Nella fantasia del musicista si dispiega, attraverso questa bellissima pagina sinfonica, un gusto per la ripetizione ossessiva che richiama proprio quel continuo oscillare fra pulsione e controllo, libertà e repressione, propria dell’ossessione erotica del dionisismo estatico, tutte energie accolte nella concezione originaria e messe in azione nella musica – ma messe in azione da Ravel, scrive lo studioso Mauro Mariani, dunque da uno degli artisti del Novecento più raffinati, sapienti, e più diffidenti di eccessi e di trasporti.

All’origine di Boléro di Maurice Ravel, scrive ancora Mariani, c’era la richiesta al compositore, nel 1927, da parte di Ida Rubinstein, di una partitura per un breve balletto di ambientazione spagnola. Personaggio centrale nella vita teatrale parigina dei primi decenni del secolo, Ida Rubinstein si era imposta come artista di grande fascino all’interno della celebre compagnia dei Ballets russes, dalla quale si era poi presto staccata fondando una propria compagnia autonoma.

Non esiste nel Bolero alcuna forma particolarmente complessa o di particolare importanza compositiva se non quella forma sonora plasmata attraverso i raffinati colori della strumentazione orchestrale che, all’ascolto, innalza progressivamente il volume e colora le emozioni di tinte diverse e cangianti. Insomma la danza spagnola dal ritmo ternario diventa, nelle mani di Ravel, probabilmente la più emozionante fra le esibizioni orchestrali.

Che l’idea del balletto spagnolo piacesse a Ravel non c’è da stupirsi; come scriveva lo studioso Arrigo Quattrocchi, le sue origini basche lo avevano portato in più occasioni a rifarsi a stilemi spagnoleggianti; basterebbe pensare a lavori come Raphsodie Espagnole (1907), L’heure espagnole (1911), Alborada del Gracioso (1923). Boléro nacque, peraltro, quasi come un ripiego rispetto a una idea primitiva scartata per motivi di forza maggiore.

La composizione si avvale di elementi estremamente semplici. In primis, il ritmo della danza spagnola eseguito dal tamburo, un ritmo che non si ferma mai, dall’inizio alla fine si ripete ossessivamente: nella sua versione iberica, diffusa nella seconda metà del XVIII secolo, il Bolero è una danza in tempo ternario e di andamento moderato, con un ritmo peculiare spesso scandito dalle nacchere e con due melodie principali, ciascuna delle quali ripetuta.

 Come danza caratteristica aveva avuto numerose stilizzazioni soprattutto in Francia, da parte di Auber (La muette de Portici), Berlioz (Benvenuto Cellini), Verdi (Les Vêpres siciliennes).

 Uno stilema che rientrava dunque nell’esotismo ispanico della Francia ottocentesca, sviluppato soprattutto alla fin du siècle, dove spesso il folklore spagnolo diviene evocazione di sensualità lascivia.

Ravel si richiama così a questo fiorentissimo filone della musica francese. Propone un lungo tema diviso in due frasi, ciascuna di sedici misure, accompagnato dal ritmo ben scandito delle percussioni. La grande idea è quella di procedere non già, a partire dal tema, verso una libera composizione, ma di ripetere il semplice tema per diciotto volte consecutive, ciascuna delle quali diversa dalla precedente perché proposta a un livello dinamico via via superiore; insomma un progressivo crescendo, dal pianissmo al fortissimo, basato su diverse “terrazze” sonore, ciascuna delle quali si distingue per l’aggiunta di nuovi strumenti, sia nella linea melodica che nel supporto ritmico.

Si parte dal flauto solo, accompagnato da tamburo, viole e violoncelli; si passa poi via via ad altri strumenti – clarinetto, fagotto, clarinetto piccolo, corno inglese – quindi a vari gruppi strumentali, mentre, nel contempo, anche l’accompagnamento acquista un progressivo spessore. L’approdo è al coinvolgimento dell’intera orchestra. Insomma, un magistrale cimento di strumentazione da parte di Ravel.

Tutto sfocia direttamente nello smarrimento dell’identità, nell’irrazionale, conclude Quattrocchi.

Il culto di Dioniso si affaccia qui ad illuminare con tutta la sua forza e peculiarità, tanto da infrangerlo e sconvolgerlo, qualsiasi sistema precostituito. Questa forma di religiosità primitiva sembra aderire completamente all’idea di suono “puro”.

Come scrivono giustamente gli studiosi Giulio Giannelli e Giulio Quirino Giglioli, Dioniso era una divinità enigmatica e ammaliante (…) si faceva beffe di ogni ordinamento e convenzione, sconvolgeva le coscienze, sgretolava regole e inibizioni riconducendo gli uomini in un vortice delirante, al loro stato di purezza primordiale.

Originariamente fu un dio arcaico della vegetazione, legato alla linfa vitale che scorre nelle piante. In seguito fu identificato come dio dell’estasi, del vino, dell’ebbrezza e della liberazione dei sensi; venne quindi a rappresentare l’essenza del creato nel suo perenne e selvaggio fluire, lo spirito divino di una realtà smisurata, l’elemento primigenio del cosmo, l’irruzione spirituale della zoé greca, ossia l’esistenza intesa in senso assoluto, la frenetica corrente di vita che tutto pervade.

Dio “ibrido” dalla multiforme natura maschile e femminile, animalesca e divina, tragica e comica, Dioniso incarna, nel suo delirio mistico, la scintilla primordiale e istintuale presente in ogni essere vivente; che permane anche nell’uomo civilizzato come sua parte originaria e insopprimibile, e che può riemergere ed esplodere in maniera violenta se repressa e non elaborata correttamente.

Ravel adopera il tamburo, strumento per eccellenza per i riti orgiastici, suonato dalle Baccanti, a sottolineare con forza l’intero percorso della sua forma sonora “cesellata” poi, con altrettanta energia e sempre in crescendo, dall’intervento del flauto prima e dal clarinetto poi, introducendo un calibratissimo processo di accrescimento strumentale. Realizzato da Ravel con infallibile razionalità, si rivolge poi direttamente ai sensi di chi ascolta, a una ricezione non razionale, e forse perché è esso stesso metafora dell’ebbrezza dei sensi, dell’atto sessuale.

La compostezza dell’ascoltatore viene così dirottata verso altre dimensioni: l’eros, la danza, l’esaltazione. Il bisogno di vitalità trionfa prepotentemente.

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Rif. bibliografici: https://www.flaminioonline.it/Guide/Ravel/Ravel-Bolero.html

In copertina Maurice Ravel in una immagine del 1925. Foto presa da wikipedia