Anita Mancia, nata a Roma, ha lavorato 20 anni presso l'Istituto Storico della Compagnia di Gesù come assistente bibliotecaria ed Archivista. Ha collaborato con la rivista storica dell'Istituto con articoli sulla Ratio Studiorum, la pedagogia dei gesuiti, i gesuiti presi prigionieri dai pirati e recensioni. Presso l'editore Campanotto di Udine nel 2007 ha pubblicato un volumetto di poesie.

«Era un venerdì pomeriggio di sole quando mio padre portò a casa la sua sposa. La ragazza indossava un paio di splendide babbucce gialle che attirarono l’attenzione di tutti. Camminava così bene e spedita con quelle scarpe che nessuno si accorse che era zoppa».

Questa citazione spiega il titolo dell’opera di Abdolah, Il sentiero delle babbucce gialle, ed anche il significato simbolico delle stesse babbucce gialle che ricorrono come leit-motiv per tutto il testo che è caratterizzato anche da un prologo poetico dedicato agli uccelli ed alla ricerca di un loro re nel corso di un lungo viaggio: «il viaggio … altro non è stato se non una ricerca di sé, un percorso interiore e un ritorno in se stessi… Si accorsero che in trenta uccelli altri non erano che Simurgh e che Simurgh era i trenta uccelli»

(Il verbo degli uccelli. Nota critica di Natalia Tornesello). «La scelta di Kader di introdurre il suo racconto con il brano di ‘Attar, poeta mistico persiano Farid al Din’Attar solo in apparenza insolita, non è dunque priva di ragioni profonde. Il protagonista del romanzo, come i trenta uccelli dell’opera di ‘Attar, compie un lungo, impervio e doloroso percorso alla ricerca di sé e di una nuova dimensione dove ritrovarsi e ricostruirsi, dove collegare definitivamente le linee invisibili che univano il tutto, i sentieri della vita che lo conducono, infine, a riconciliarsi con se stesso e con il suo passato.»

Il tema fondamentale del libro scritto in olandese, di Abdolah è il rapporto fra la scrittura cinematografica e la letteratura, che sulla prima ha un privilegio. Sultan sa usare la cinepresa, ma si rende conto che da sola non basta per descrivere una vita. Così pensa di scrivere il suo libro e di darlo al suo amico anche se è in forma di appunti disordinati, illeggibili, scritti in un cattivo olandese, perché sappia ricavarne una storia: «Ti ho dato un mucchio di racconti illeggibili. Tirane fuori una storia tua, perchè secondo me solo tu puoi capire di che cosa parlo. Te li lascio qui e d’ora in poi non voglio più saperne niente. Un libro è sempre più intelligente del suo autore. Sono curioso di vedere che cosa salterà fuori. Quando sarà pubblicato, lo leggerò con l’aiuto di un vocabolario».

Anche l’amico di Sultan si domanda perché il testo sia preceduto dal brano di Farid al-Din ‘Attar come prologo. La risposta è stupefacente: «Non lo so, ma doveva stare lì. L’ho messo in cima a quel mucchio di fogli come una pietra perché il vento non li portasse via». Sultan non dà una spiegazione. L’amico a sua volta gli dona un libro olandese intitolato Max Avelaar che pure è basato su un pacco di appunti: «Quello che il sensale di caffè racconta in quel libro ricorda la tua storia. Ce l’ho nella mia libreria. Te lo presto». Sultan lo leggerà con l’aiuto di un dizionario di olandese. Quindi due letterature così distanti, oriente e occidente si toccano. Come anche una letteratura di immigrazione può entrare a far parte di una letteratura olandese occidentale.

 L’opera di Abdolah si compone di cinque libri: il libro I, Favola, che è la storia dell’infanzia, dell’adolescenza e della giovinezza del regista che trova la sua vocazione e molti amici, persone che lo faranno maturare, il libro II, Il cinema persiano ovvero il cinema che produce Sultan, il libro III Gli anni della rivoluzione, che sono quelli della rivoluzione musulmana khomeinista, il libro IV, Alla fattoria, dedicato all?emigrazione in Olanda ed al cinema persiano trasmesso all’estero dalle emittenti della BBC e della CNN, e il libro V dedicato all’Olanda e alla vita con Aurelia, una donna con cui il regista parla la lingua dei gesti, portata dalle api dorate a cui segue la fine, il libro di Sultan.

E’ interessante sapere come si deve leggere il libro di Sultan. Ce lo spiega Abdolah in apertura di testo: «Ogni episodio di questo libro può essere letto secondo la legge della letteratura. Perché Sultan, il narratore di questa storia, ha seguito le orme di Sherazade, la narratrice delle Mille e una notte

Se questa è la struttura e se queste sono le raccomandazioni del testo, è interessante capire per il lettore come Sultan sia divenuto regista. E’ entrato in possesso della sua prima macchina fotografica – si noti che abitava in un castello medioevale – collezionando cinquemila cartine rosse di gomma da masticare americana al cui collezionista, se si fosse presentato in negozio a richiederla, sarebbe stata data una macchina fotografica. Le cose non stavano proprio così, ma con un po’ di insistenza e con l’aiuto di sua cugina Akram jun Sultan riesce a leggere in inglese le istruzioni della macchina fotografica. Questo è l’inizio. Lo svolgimento prevede la storia dell’Iran della dinastia di Reza Pahlavi, del regno del Pavone e di come lo Scià attraverso l’aiuto degli americani cominci a modernizzare il Paese. E’ molto interessante la storia della giovane Akra jun che con un po’ di iniziativa e molto coraggio riesce a formare la prima scuola di inglese per ragazze, a cui si iscriveranno moltissime, nel castello.

I personaggi femminili del libro di Abdolah sono interessantissimi e fanno emergere una nazione nuova. Baran, che in persiano significa pioggia compare in un bel periodo della vita di Sultan, quando aveva già raggiunto notorietà come regista. Ma insieme con questa donna, egli fa l’esperienza del capo dei partigiani contrari al potere dello scià e degli americani e viene, con la scusa di girare delle riprese nella reggia, coinvolto nelle azioni dei partigiani anti-americani che gli fanno avere un importante ruolo nel rapimento della regina. E’ molto emozionante tutto quello che si riferisce al rapimento di Farah Diba ed è significativo come durante il suo sequestro il regista fabbrichi anche per lei delle babbucce gialle come quelle che suo padre aveva realizzato per sua madre: «Mi alzai, andai in cucina e presi le babbucce gialle dall’armadio. Poi, nascondendole dietro la schiena, tornai in soggiorno, mi inginocchiai e le posai ai suoi piedi. “E queste cosa sono?” domandò lei con aria sospettosa. “Confezionate per voi”. “Per me? E quando le ha fatte?”. “Stanotte. Sono rimasto sveglio. Volevo fare qualcosa per celebrare questo tempo inconsueto”. Lei gettò un’occhiata sorpresa alle babbucce. “Non mi servono delle babbucce”. Scansandole con un piede si alzò e andò in cucina”».

Il rapimento di Farah Diba costerà a Sultan la fine della sua relazione con Baran e soprattutto una lunga prigionia che avrebbe potuto costargli la vita, ma per un caso diverso gli costerà dieci anni di prigione che si concluderanno con la forte scena della liberazione dalla prigione ad opera dei musulmani khomeinisti. Sultan partecipa anche alle scene della rivoluzione musulmana per stabilire un nuovo regime teocratico a Teheran ed è coinvolto in un’altra azione partigiana, questa volta da parte degli oppositori di Khomeini.

La situazione di Sultan sul piano lavorativo è negativa. Infatti in una fatwa Khomeini dice che il cinema è haram cioè peccato. Tuttavia la prigionia patita in passato aveva fortificato Sultan. Una simile fatwa non poteva spezzarlo. Forse il sentiero del cinema era finito nella giungla, ma la vita lo avrebbe portato ancora una volta su nuove strade. Significativa la conclusione: «Afferrai la cinepresa e andai a vedere a che cosa poteva servirmi» 274. Sultan crea una piccola casa cinematografica nel suo studio e con l’aiuto di vecchi amici raccoglie vecchie pellicole. L’atmosfera creata dalla rivoluzione islamica in Iran è come quella di un libro persiano intitolato La civetta cieca. Una sera che accoglie una donna, forse una prostituta (anche loro erano bandite come il cinema dai musulmani) per guardare un film insieme si accorge che è scoppiata la guerra con l’Iraq. La cinepresa gli servirà per filmare scene di guerra. La parte del romanzo dedicata alla guerra e a filmare le scene di guerra è molto emozionante, forse la più emozionante del romanzo e la più drammatica.

Le parole di Khomeini che invita a una jihad hanno un effetto sul regista che commenta così «Quello stesso giorno migliaia di giovani uomini presero il fucile e furono portati al fronte con i camion. Andai con loro per compiere il mio sacrificio. Non necessariamente per Allah, ma per il cinema». Dunque l’artista non è religioso ma si riconosce nella sua azione, artista. Ma essere un artista non basta «Filmavo e giocavo con la morte, convinto che valesse la pena farlo. Solo al fronte mi resi conto che quelle cassette registrate erano cento volte più importanti che fare film per il cinema».

La storia e la vita prendono il sopravvento sull’arte: «Stavo sperimentando una cosa che superava l’arte. Filmavo in nome dell’antico spirito del mio Paese; lo facevo per il nostro castello, per mio padre, per mia madre, per mio zio e anche per Baran. In realtà convivevo con la morte. La mia cinepresa era macchiata del sangue dei soldati.». Sultan in un’azione di guerra è gravemente ferito e viene ricoverato nell’ospedale di Teheran. Uscito dall’ospedale Sultan trova che il suo studio è distrutto dalle bombe irachene: non potrà continuare il suo lavoro. Ma non sembra estremamente rattristato per questo. Un’infermiera, visto che ha perso tutto, lo porta a casa sua dall’ospedale dove dimorava. Per un periodo starà con lei, ma non sa chi si cela dietro le sue apparenze amorevoli e piene di cura.

Nel frattempo il portavoce dell’ayatollah Khomeini si interessa alle sorti di Sultan perché ha visto i suoi toccanti reportage di guerra. Gli procura, così, un contatto con Khomeini che egli accetta anche se non sa dove lo potranno portare. Ma l’infermiera Zaman chiede a Sultan se è disposto a fare un sacrificio. A questo punto egli comprende di essere nella stessa situazione di quando aveva preso in ostaggio la regina Fara Dibah. Non si può fidare di Zaman e la relazione con lei finirà. Ma intanto incontra i guerriglieri del partito comunista Tudeh che i musulmani avevano voluto umiliare perché aiutati dalla Russia. Essi si rivolgono a Sultan perché vogliono compiere durante la sua visita a Khomeini un’azione dimostrativa durante le riprese girate a casa sua. Sultan uscirà fuori della casa di Khomeini ed esporrà le persone intorno al fuoco dei guerriglieri. E’ in sé un’azione folle, ma ha lo scopo delle azioni del passato persiano, anche del periodo di Alessandro Magno, per dimostrare che c’è chi si oppone al tiranno. Sultan avverte i guerriglieri dell’assurdità dell’azione militare, ma al dunque, quando si tratta di scegliere, darà la sua cinepresa per prova al portavoce di Khomeini e gli farà iniziare l’azione drammatica, quasi senza che nessuno se ne renda conto. Lui stesso, dotato quel giorno di scarpe di gomma, fugge dal luogo dell’avvenimento correndo a più non posso e prendendo un taxi che lo porterà fuori Teheran: se si fossero accorti di come erano andate le cose realmente egli sarebbe stato condannato a morte. Invece così scappa – mirabile l’azione della fuga – da Teheran a Karachi nel Pakistan fino all’Olanda. Le ultime pagine del libro sono dedicate alla vita in Olanda, alla difficoltà di imparare la lingua, alla vita in una cittadina con la famiglia Meinema, con la quale condivide tutto: la casa e gli animali, il cavallo e il cane e anche un nuovo cane Gorghi, che è un nome persiano che significa lupo. L’ultima parte del libro è dedicata ai viaggi in America e alla ripresa delle relazioni con i suoi parenti e sua cugina che erano state perdute. Di quest’ultima parte del libro certamente la più importante è quella della comparsa sulla scena della vita di Sultan (libro V) di Aurelia e delle api color dell’oro. «Uno di quei giorni, era tardo pomeriggio, stavo bevendo un bicchiere di tè in veranda. Tutto era tranquillo. Il sole tramontava lento dietro agli alberi. Gorghi era sdraiato ai miei piedi e a un tratto si mise a ringhiare e rizzò le orecchie. “Che c’è Gorghi”. Lui si alzò e puntò silenziosamente il muso in aria. Sopra la casa, nel crepuscolo, galleggiavano, ondeggiavano, fluttuavano, volavano migliaia di minuscole lamelle d’oro. Mi alzai e guardai con stupore lo sciame di api dorate che entrava nel cielo della fattoria».

Le api, anche se Sultan non è un credente come suo nonno sono un segnale, portano qualcos’altro oltre se stesse «qualcosa che mi avrebbe infuso la forza di cui avevo bisogno. Ma dovevo dormire un’altra notte prima di poter scoprire che cosa fosse». Le api che prendono dimora in un ippocastano portano una donna, una straniera, molto bella ma stremata, che dorme tre giorni nella casa che un tempo era stata dei Meinema. Così inizia la storia, breve nel testo, della straniera. La straniera, che forse si chiama Aurelia viene forse, Sultan non ne è sicuro, per restare un po’ di tempo. E con lei si comunica nella lingua dei gesti. Aurelia è venuta con le api dorate, e questo è il bello del racconto. Vivono tutti insieme: Aurelia, il dottor Meinema, Sultan ed Henk: «Nel frattempo era successa una cosa curiosa. La sera, gli uccelli migratori il cui sentiero o la cui rotta di volo passava sopra la fattoria planavano sui nostri alberi. E si posavano con grande baccano sui rami. Aurelia sistemava ovunque ciotole piene d’acqua e piatti di granaglie. E loro cantavano per lei. Il giorno dopo, di primo mattino, riprendevano il viaggio» 402. C’è un bel nesso fra gli uccelli, lo sciame dorato delle api ed Aurelia e la migrazione dall’Africa all’Europa: «Non posso dimostrarlo, ma non ho dubbi che quegli uccelli appartengano al mondo di Aurelia e delle api dorate. Venivano dal luogo da dove lei veniva. E volavano verso il luogo dove dovevano andare».

Aurelia è strettamente legata agli uccelli, alle api dorate, alla migrazione. Sultan, visto che le sue sono logore, non può che fabbricare delle nuove babbucce gialle per lei. Che le indossa: «Tornò indietro. Io scesi la scala diretto in cucina, con le babbucce nascoste dietro la schiena. Quando lei entrò, le posai ai suoi piedi. Lei sorrise, ma non disse nulla. Silenziosamente le indossò, come se avesse attraversato il mare per venire a prenderle. Chiuse gli occhi e protese il viso. Le stampai un bacio su una guancia. Poi lei uscì per mostrare le sue babbucce dorate a Gorghi, a Rakhsh e alle api color dell’oro. Quando attraversò il giardino, il sole si rifletté sulle pietre preziose, disegnando un arcobaleno di colori tra le chiome e al di sopra degli alberi». E sulla storia degli uccelli, così come si era aperto, delle api dorate e di Aurelia, il libro si chiude. L’autore che ama questo simbolo, prende un altro sentiero. Libro altamente simbolico, che comunica la gioia del narrare, poetico in sé.

Il sentiero delle babbucce gialle. Book Cover Il sentiero delle babbucce gialle.
Kader Abdolah. Trad. di E. Svaluto Moreolo
Letteratura
Iperborea
2020
405 p., brossura